Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 gennaio 2016, n. 1059

Assistenti sociali - Prestazione professionale - Costituzione di un rapporto di lavoro subordinato - Esclusione

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 24.2 - 15.3.2011 la Corte d’appello di Palermo ha accolto l'impugnazione del Comune di Aragona avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Agrigento, che aveva dichiarato l'esistenza di un rapporto di fatto di lavoro pubblico intercorso con le assistenti sociali (omissis) e (omissis) con condanna dell'ente territoriale al pagamento delle corrispondenti differenze economiche maturate dalle medesime dal 17/11/1998 al 31/12/2007, per cui ha riformato tale sentenza ed ha rigettato le domande proposte con l'appello incidentale attraverso il quale le suddette lavoratrici avevano riproposto le istanze volte alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, nonché alla ricostruzione della posizione previdenziale, alla nullità dell’asserito licenziamento e al risarcimento dei danni morali.

La Corte palermitana ha spiegato che dall’istruttoria era emerso che le parti avevano inteso porre in essere rapporti di natura autonoma, per cui era da escludere che nella fattispecie ricorressero i presupposti per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la pubblica amministrazione.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso (omissis) e (omissis) con venti motivi.

Resiste con controricorso il Comune di Aragona.

Le ricorrenti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Preliminarmente si da atto del tardivo deposito della memoria difensiva di parte ricorrente rispetto al termine di cinque giorni previsto dall’art. 378 c.p.c.

1. Col primo motivo, dedotto per vizio di motivazione, la difesa delle ricorrenti imputa alla Corte d'appello di Palermo di aver estrapolato delle frasi dalle deposizioni dei testi modificando in modo radicale il significato della prova resa. In particolare la stessa difesa fa riferimento alla deposizione del teste (omissis) comandante della stazione dei carabinieri di Aragona, posta dalla Corte territoriale alla base della decisione di rigetto e a quella della teste (omissis) assistente sociale dipendente della Ausi, assumendo di non aver tenuto conto del contenuto di quest'ultima.

2. Col secondo motivo, proposto per vizio di motivazione, le ricorrenti si lamentano del fatto che la Corte palermitana ha omesso di esaminare i vari documenti, quali le buste paga ed i moduli relativi alle richieste per ferie, nonché la testimonianza di (omissis) , comprovante le visite fiscali disposte in occasione delle loro assenze per malattia, i permessi brevi ed i riposi compensativi goduti, gli ordini di missione e di rientro dalle ferie, nonché gli orari di servizio disposti per necessità d’ufficio, cioè di tutti quegli elementi che consentivano di ritenere provata la natura subordinata del rapporto di lavoro in esame.

3. Col terzo motivo, formulato per vizio di motivazione, le ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte territoriale non ha esaminato e non ha correttamente interpretato, travisandole, le prove testimoniali raccolte per dimostrare che il rapporto in questione era di natura dipendente. A tal riguardo, le ricorrenti richiamano il contenuto delle deposizioni dei testi (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis).

4. Col quarto motivo le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 2094 cod. civ. in quanto sostengono che la Corte d'appello è incorsa in errore nel ritenere non provata la loro domanda ad onta del copioso materiale documentale prodotto a supporto della stessa e del contenuto delle deposizioni testimoniali raccolte in giudizio che conducevano, egualmente, a far ritenere che vi era stato un rapporto di lavoro dipendente col Comune di Aragona.

5. Attraverso il quinto motivo si denunzia la violazione degli artt. 2094 e 2222 cod. civ., dell’art. 7, comma 6, del d.lgs n. 165/2001 e dell'art. 110, comma 6, del d.lgs n. 267/2000, nonché il vizio di insufficiente ed erronea motivazione, violazioni, queste, che si riconducono alla decisione della Corte di escludere, malgrado il tenore del rapporto dedotto in causa, l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, dando cosi ingresso alla tesi del Comune di Aragona per il quale si trattava di rapporti di natura autonoma.

6. Col sesto motivo le ricorrenti deducono l'omessa, insufficiente ed erronea motivazione per non avere la Corte territoriale qualificato il rapporto in esame come di pubblico impiego, nonché la violazione di legge per non avere la medesima Corte applicato l’art. 1, comma 558, della legge n. 296 del 2006 e l'art. 90 della legge n. 244 del 2007, norme, queste, sopravvenute nel corso del giudizio.

Rilevano le ricorrenti che, nonostante la diversa denominazione giuridica attribuita dalla controparte al rapporto in esame ed ai relativi atti e provvedimenti amministrativi (conferimento di incarico professionale), si era avuta di fatto un'assunzione mediante una procedura selettiva pubblica, di modo che, rimossa la preclusione di cui all'art. 97 della Costituzione, esse avevano diritto al riconoscimento della stabilità del rapporto a far data dall'esecutività della deliberazione di G.M. n. 480 del 17/11/1998.

In tale delibera, aggiungono le ricorrenti, era menzionato che l'ufficio dei servizi sociali si era attivato per il reperimento di due assistenti sociali mediante avvisi pubblici nei mesi di agosto e settembre del 1998, cosi come era citato il Decreto sindacale n. 442/179 del 14/10/1998 col quale era stato accolto il ricorso della (omissis) limitatamente all'introduzione nel bando del criterio della valutazione dei titoli, tanto che dall'esame curriculare era emerso che entrambe erano le più titolate all'affidamento dell'incarico che altro non era, secondo la loro tesi difensiva, un'assunzione camuffata per la illegittima volontà del datore di lavoro pubblico che voleva far permanere una situazione di precarietà.

7. Col settimo motivo si sostiene il vizio di motivazione per non avere la Corte d'appello statuito che la normativa in materia non contemplava la possibilità che il Comune di Aragona affidasse il servizio socio-assistenziale mediante incarico professionale di collaborazione esterna, nonché il vizio di violazione di legge per mancata applicazione delle norme di cui agli artt. 5 e 26 della legge regionale n. 22/1986.

8. Attraverso l'ottavo motivo si sostiene che la violazione di legge è ravvisabile anche nel fatto che la Corte territoriale non ha considerato che il ricorso alla fattispecie contrattuale di cui all'art. 2222 cod. civ. è previsto solo come rimedio eccezionale di carattere transitorio dalla Circolare n. 2 dell'8/4/1999 dell'Assessorato EE.LL della Regione Sicilia, per cui il Comune di Aragona non avrebbe potuto avvalersene.

9. Col nono motivo le ricorrenti imputano alla Corte di merito di aver violato la legge per non aver dichiarato nullo o annullabile o inefficace il provvedimento equiparabile al licenziamento e per non avere di conseguenza disposto la loro reintegra nel posto di lavoro per il quale erano state assunte all'esito di una selezione pubblica, violando in tal modo la legge finanziaria per gli anni 2007 e 2008 e più precisamente gli artt. 1, comma 558, e 90 della legge n. 244/2007 sopravvenuti nelle more della causa.

10. Col decimo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., le ricorrenti, dopo aver premesso che il loro licenziamento era stato dichiarato legittimo dal giudice a causa della ritenuta instaurazione del rapporto in violazione di norme imperative, adducono che i giudici d’appello hanno, in tal modo, omesso di equiparare il contestato allontanamento dal servizio ad una forma di licenziamento illegittimo e non hanno disposto la reintegra nonostante fosse emerso che la controparte aveva violato i principi di correttezza e buona fede per non aver stabilizzato il rapporto di lavoro di pubblico impiego.

11. Con l'undicesimo motivo le ricorrenti lamentano il vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale accertato se sussisteva un potere discrezionale della pubblica amministrazione a mantenerle in servizio e per non avere dichiarato che il mancato esercizio di un tale potere discrezionale costituiva un comportamento in mala fede che dava diritto al risarcimento del danno.

12. Col dodicesimo motivo si deduce la violazione di legge per non avere la Corte di merito applicato l’art. 2126 cod. civ., nonché il vizio di motivazione per non avere la stessa Corte statuito che la prestazione di lavoro subordinato svolto alle dipendenze del Comune di Aragona in violazione di norme imperative di legge doveva essere qualificato, come pubblico impiego ai sensi della citata norma del codice civile, per cui anche il provvedimento di allontanamento adottato dallo stesso Comune avrebbe dovuto essere considerato come licenziamento.

13. Col tredicesimo motivo, dedotto sia per vizio di motivazione che per violazione di legge, le ricorrenti sostengono che, dovendosi qualificare il rapporto di lavoro intercorso col Comune di Aragona come rapporto di pubblico impiego, la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare che avevano diritto ad una retribuzione pari a quella spettante ad un pubblico dipendente.

14. Col quattordicesimo motivo si denunziano ì vizi di violazione di legge e di motivazione in quanto la Corte d’appello di Palermo non ha qualificato il rapporto in esame come di pubblico impiego e non ha dichiarato che le ricorrenti avevano diritto alla regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale secondo le regole per gli impiegati pubblici.

15. Col quindicesimo motivo le ricorrenti denunziano la violazione degli artt. 2126 e 2129 cod. civ., nonché l'omessa motivazione, in quanto, premesso che il rapporto in esame avrebbe dovuto essere qualificato come di pubblico impiego, la Corte di merito avrebbe dovuto accertare che esse avevano diritto ad una retribuzione pari a quella spettante ad un pubblico dipendente.

16. Col sedicesimo motivo ci si lamenta della violazione di legge e del vizio di motivazione per avere la Corte di merito omesso di esaminare e di riconoscere il diritto al risarcimento del danno derivato alle ricorrenti dall’esecuzione della prestazione lavorativa in violazione di disposizioni imperative e per uso abnorme delle norme di legge. Quindi, le ricorrenti assumono di aver diritto ad un risarcimento del danno ulteriore rispetto alla retribuzione ed ai contributi per la perdita dell’aspettativa di una consolidata posizione di pubblico impiego e di una pensione all’esaurimento naturale del rapporto di lavoro.

17. Col diciassettesimo motivo, dedotto per violazione dell'art. 112 c.p.c., le ricorrenti sostengono che la Corte d’appello di Palermo non avrebbe dovuto limitarsi a verificare se il rapporto di lavoro era autonomo o dipendente, ma avrebbero dovuto statuire su tutte le domande proposte in giudizio, quali quelle formulate con l’appello incidentale e tese al riconoscimento della qualità di pubbliche impiegate del Comune di Aragona a decorrere dalla adozione del relativo provvedimento e dalla presa di servizio risalente al 17/11/1998, con inserimento nella pianta organica e con condanna dell'amministrazione alla ricostruzione della situazione previdenziale ed economica, oltre che al risarcimento dei danni morali ed al pagamento delle differenze retributive.

18. Col diciottesimo motivo le ricorrenti denunziano il vizio di violazione di legge in quanto lamentano che la Corte territoriale non ha posto a fondamento della decisione le prove da esse offerte, né i fatti rimasti incontestati, né le nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza e di non aver liberamente valutato le prove raccolte in primo grado, cosi violando l'art. 116 c.p.c., nonché le norme delle leggi finanziarie del 2007 e del 2008, vale a dire gli artt. 1, comma 558, I. n. 296/2006 e 90 della legge n. 244/2007, sopravvenuti nelle more della causa.

19. Col diciannovesimo motivo, formulato per violazione di legge e per vizio di motivazione, la difesa delle ricorrenti lamenta che la Corte d'appello non ha esaminato per nulla la sentenza del Tribunale di Agrigento che aveva tenuto conto in modo minuzioso dei documenti prodotti e delle prove acquisite nel momento in cui aveva accolto in parte le domande. Ci si lamenta, altresì, del fatto che la stessa Corte non ha tenuto in considerazione quanto esposto dalla difesa delle lavoratrici con l’appello incidentale, con conseguente violazione del principio devolutivo.

20. Col ventesimo motivo, proposto per vizio di motivazione, le ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte d'appello, pur richiamando i criteri sussidiari per l’individuazione della subordinazione, finisce per non tenerne conto, giungendo ad affermare che tra le ricorrenti in via incidentale ed il Comune di Aragona non si era instaurato un rapporto di lavoro di tipo subordinato.

1. a) Osserva la Corte che per ragioni di connessione i primi quattro motivi, il diciottesimo, il diciannovesimo ed il ventesimo motivo del ricorso possono essere esaminati congiuntamente. In effetti, i primi quattro motivi mettono in discussione la valutazione del materiale probatorio eseguita dalla Corte d'appello, mentre i motivi nn. 18 e 19 contengono, in realtà, censure sul governo degli oneri probatori relativi alla disamina degli aspetti dei primi quattro motivi. Egualmente col ventesimo motivo è messa in risalto una asserita contraddittorietà della motivazione circa il fatto che la Corte non ha ritenuto instaurato un rapporto di lavoro subordinato.

Orbene, tali motivi sono infondati.

Invero, attraverso gli stessi le ricorrenti tentano una rivisitazione del materiale istruttorio, operazione, questa, che non è consentita nel giudizio di legittimità laddove, come nella fattispecie, la motivazione della sentenza impugnata risulta essere del tutto adeguata ed immune da vizi di ordine logico-giuridico. A ciò va aggiunto che le ricorrenti nemmeno dimostrano la decisività dei rilievi svolti ai fini di una loro incidenza sulla validità della motivazione contenuta nella sentenza, in guisa tale da far ritenere che gli stessi avrebbero condotto ad una soluzione differente da quella individuata dai giudici d’appello.

Invero, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), "il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall'art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., è configurabile soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l'obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest'ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse".

Né va dimenticato che "in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, cosi, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti)." (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dall'esito delle prove orali su punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano affatto le censure di cui ai primi quattro motivi di doglianza ed ai motivi nn. 18,19 e 20.

Infatti, la Corte d’appello di Palermo ha tenuto conto, in primo luogo, del dato documentale rappresentato dal capitolato d’oneri allegato alla delibera di G.M. del 17.11.1998 in cui veniva espressamente chiarito che con le assistenti sociali non veniva instaurato rapporto alcuno di pubblico impiego con l’amministrazione, trattandosi nella fattispecie di mera prestazione professionale, con l'aggiunta che le medesime sarebbero dovute intervenire in piena autonomia di organizzazione dei servizi all'interno ed all’esterno della sede comunale o circoscrizionale.

Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che dalle deposizioni testimoniali non era emerso che fossero stati impartiti ordini specifici o direttive di carattere generale o che fosse stata svolta un’assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative; egualmente, non poteva dirsi sufficientemente accertata l’esistenza dell’obbligo di rispettare un preciso orario lavorativo analogo a quello dei dipendenti comunali, né provata la necessità di richiedere l’autorizzazione per ferie o per l'allontanamento dal posto di lavoro. In definitiva, non era stata dimostrata la sussistenza degli indici caratterizzanti la subordinazione.

1. b) Il quinto, il sesto e l'undicesimo motivo possono essere esaminati in un solo contesto per ragioni di connessione dovute alla circostanza che alla loro base vi è la questione dell’asserita erronea applicazione delle disposizioni definitorie della subordinazione e dell’autonomia, oltre quella della lamentata mancata applicazione delle norme sulla cosiddetta stabilizzazione.

Anche tali motivi sono infondati.

Invero, è da escludere che il conferimento di incarichi professionali, di volta in volta prorogati come nella fattispecie, da parte di una pubblica amministrazione locale possa comportare l'instaurazione di un rapporto di pubblico impiego, stante il divieto in tal senso sancito dall'art. 36, comma 2°, del d.lgs n. 165 del 2001. Come si è già avuto occasione di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 11161 del 7/5/2008) l’art. 36, comma 8, del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora trasfuso nell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001), secondo il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni (nella specie, una azienda AUSL) non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, si riferisce a tutte le assunzioni avvenute al di fuori di una procedura concorsuale, operando anche nei confronti dei soggetti che siano risultati solamente idonei in una procedura selettiva ed abbiano, successivamente, stipulato con la P.A. un contratto di lavoro a tempo determinato fuori dei casi consentiti dalla contrattazione collettiva, dovendosi ritenere che l'osservanza del principio sancito dall'art. 97 Cost. sia garantito solo dalla circostanza che l'aspirante abbia vinto il concorso. Né tale disciplina viola - come affermato dalla sentenza n. 89 del 2003 della Corte costituzionale - alcun precetto costituzionale in quanto il principio dell'accesso mediante concorso rende palese la non omogeneità del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di datori privati e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare, alla violazione delle norma imperative, conseguenze solo risarcitorie e patrimoniali (in luogo della conversione del rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati); né contrasta, infine, con il canone di ragionevolezza, avendo la stessa norma costituzionale individuato nel concorso, quale strumento di selezione del personale, lo strumento più idoneo a garantire, in linea di principio, l'imparzialità e l'efficienza della pubblica amministrazione."

D'altronde, il richiamo al concetto della selezione pubblica operato dalla difesa delle ricorrenti, al fine di eludere il predetto divieto, è inconferente, sia perché quella attuata dal Comune di Aragona era solo una selezione finalizzata semplicemente alla conclusione di contratti di prestazione professionale (come da relativa delibera, prorogata nel tempo), sia perché dagli atti non emergono elementi per ritenere che la stessa possedeva, come posto in rilievo dal controricorrente, tutti i requisiti procedimentali e di forma di cui all'art. 35 del d.lgs n. 365/01 per essere considerata come pubblico concorso diretto all’instaurazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato di pubblico impiego.

In ogni caso, la procedura selettiva, come emerge dall'impugnata sentenza, era volta alla stipula di contratti di natura libero professionale e non certo di lavoro subordinato.

1. c) Sono altresì infondati il nono ed il decimo motivo che vertono sulla pretesa reintegrazione nel posto di lavoro, posto che ai sensi del secondo comma dell'art. 36 del d.lgs n. 165/2001 in caso di violazione di disposizioni imperative in tema di assunzione o di impiego del personale per le pubbliche amministrazioni non si ha il consolidamento del rapporto di lavoro da precario a tempo indeterminato, come avviene nel settore privato, ma scatta solo una sanzione dì tipo risarcitorio. Né la pretesa costituzione di fatto del rapporto di pubblico impiego attuata in violazione di norme imperative, che presiedono alla costituzione dei rapporti di lavoro pubblico, potrebbe comportare l'applicabilità della tutela legale relativa ai licenziamenti illegittimi, ferma restando ogni responsabilità e sanzione, oltre che il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 36, comma 2°, del d.lgs n. 165/2001.

1. d) Egualmente infondati si rivelano il settimo, l'ottavo ed il decimo motivo, coi quali si denunzia la illegittimità della procedura seguita dalla pubblica amministrazione locale per il conferimento degli incarichi professionali, sostenendosi che la stessa avrebbe dovuto, invece, avvalersi delle diverse possibilità di assunzione prefigurate dalla norma di cui all’art. 26 della legge regionale n. 22/86, fermo restando che il ricorso alla fattispecie contrattuale di cui all'art. 2222 cod. civ., pur essendo legittimo ai sensi della Circolare n. 2 dell’8/4/1999, in combinato disposto con l’art. 7, comma 6°, del D.lgs n. 29/93, doveva considerarsi eccezionale e di carattere transitorio, dovendosi disporre la reintegra in conseguenza di un provvedimento equiparabile al licenziamento illegittimo.

L'infondatezza di tali rilievi discende, anzitutto, dal fatto che le medesime ricorrenti riconoscono in linea di principio la legittimità del ricorso, da parte della pubblica amministrazione, alla tipologia contrattuale di cui all'art. 2222 c.c., senza spiegare in qual modo e per quale ragione la Corte d'appello avrebbe dovuto rilevarne, al contrario, l'illegittimità, non essendo sufficiente, a tal fine, il semplice richiamo al concetto della eccezionalità del rimedio, desumibile, secondo la difesa di parte ricorrente, dalla prassi amministrativa seguita dall’assessorato regionale competente in materia. D'altra parte, se il mancato ricorso alle altre forme di assunzione previste dalla citata legge regionale, che le stesse ricorrenti indicano in termini di possibilità e, quindi, di scelta discrezionale della pubblica amministrazione nell'avvalersene, dovesse comportare, a voler seguire tale tesi difensiva, una nullità degli incarichi, ne conseguirebbe che la pretesa costituzione di fatto dei relativi rapporti sarebbe in violazione di norme imperative che presiedono alla costituzione dei rapporti di lavoro pubblico, per cui ne deriverebbe l'inapplicabilità della tutela legale relativa ai licenziamenti illegittimi.

1. e) Dalle considerazioni fin qui espresse discende, altresì, l'infondatezza dei motivi nn. 12, 13, 14, 15 e 16 che fanno leva sulla ritenuta configurabilità, nella fattispecie, di un licenziamento, di un diritto ad una retribuzione pari a quella spettante ad un pubblico dipendente, ad una conseguente regolarizzazione contributiva ed alle pretese risarcitone.

Invero, da un lato non risulta scalfita la ratio decidendi dell'impugnata sentenza che fa leva sulla accertata insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e, dall’altro, anche ove fosse configurabile una ipotesi di licenziamento, che tuttavia non emerge dalla sentenza impugnata, non è applicabile in materia di pubblico impiego la tutela legale relativa ai licenziamenti illegittimi.

1. f) Infine, è infondato il diciassettesimo motivo attraverso il quale è lamentata l'omessa pronunzia sulle domande proposte con l'appello incidentale, volte all'accertamento della qualità di pubbliche impiegate dipendenti che sarebbe stata rivestita dalle ricorrenti, nonché alle richieste di condanna di natura retributiva, contributiva e risarcitoria.

La ragione della infondatezza è da rawisare nel fatto che la Corte d'appello ha espressamente rigettato tutte le domande proposte col ricorso depositato il 23.11.2006 ed ha ritenuto assorbite le censure mosse con l'appello incidentale dopo aver evidenziato che tale decisione rappresentava la diretta conseguenza della inconfigurabilità di un rapporto di lavoro subordinato, per cui è da escludere la sussistenza del lamentato vizio di omessa pronunzia.

In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza delle ricorrenti e vanno liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.