Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 gennaio 2016, n. 2210

Tributi - Reati fiscali - Dichiarazione fraudolenta IVA mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti - Accertamento - Termini di prescrizione - Sentenza della Corte di Giustizia UE 8 settembre 2015, causa C-105/14 - Effetti - Termine ordinario di prescrizione ricomincia a decorrere dopo ogni atto interruttivo

 

1. P.G. ha proposto personalmente ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di ANCONA, emessa in data 21/10/2014, depositata in data 16/01/2015 che, in parziale riforma della sentenza del tribunale di P. in data 4/12/2013, lo aveva riconosciuto colpevole del reato continuato di cui all'art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 (Dichiarazione fraudolenta IVA mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti relativamente ai periodi imposta dal 2005 al 2007), per essersi avvalso di fatture per operazioni inesistenti secondo le modalità esecutive e spazio - temporali meglio descritte nell'imputazione allegata all'impugnata sentenza; con la medesima sentenza veniva dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo imputato in ordine ai fatti relativi al periodo di imposta 2004, con riferimento alla dichiarazione 2005, perché estinti per prescrizione; veniva, pertanto, rideterminata la pena inflitta al medesimo in 2 anni ed 8 mesi di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata che aveva irrogato le pene accessorie di legge.

2. Con il ricorso vengono dedotti due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all'art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 132 e 133 cod. pen. ed in relazione all'art. 62 bis cod. pen., e correlati vizi di mancanza e manifesta illogicità della motivazione.

In sintesi, la censura investe l'impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, i giudici territoriali avrebbero omesso di motivare sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, con conseguente violazione dell'obbligo di graduare la pena al fatto, senza valutare lo scarso allarme sociale e lo stato di incensuratezza del medesimo.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all'art. 606, lett. b), c.p.p., per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000, in quanto era evidente l'insussistenza del fatto, atteso che era quanto meno applicabile il disposto dell'art. 530, comma secondo, cod. proc. pen.

In sintesi, la censura investe l'impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, i giudici territoriali avrebbero assunto come unica prova gli atti di accertamento presuntivi della GdF, senza tener conto delle richieste assolutorie del PM; dopo aver descritto la dinamica dei rapporti contrattuali aventi ad oggetto l'acquisto di auto dalla Germania all'Italia e la successiva negoziazione, il ricorrente sostiene che la transazione commerciale appariva cristallina e veritiera, non finalizzata alla frode mediante false fatturazioni; i giudici avrebbero dovuto assolvere il ricorrente in quanto le ditte emittenti le fatture erano consapevoli del rapporto contrattuale ed erano parti integranti dello stesso, donde non poteva imputarsi al P. l'inesistenza soggettiva e/o la frode fiscale tesa ad evadere l'IVA che sarebbe stata sempre versata.

 

Considerato in diritto

 

3. Il ricorso dev'essere parzialmente accolto.

4. Ed invero, dall'impugnata sentenza emergono gli elementi che hanno indotto i giudici territoriali a confermare l'impianto accusatorio nei confronti del ricorrente; in particolare, alle pagg. 6/8 della sentenza sono descritti gli elementi probatori da cui emergeva la natura fraudolenta rispetto alle pretese erariali delle operazioni poste in essere nonché la natura di società "cartiere" delle emittenti le false fatture, poi utilizzate in dichiarazione dal ricorrente. Sintetizzando il percorso logico - argomentativo dell'impugnata sentenza risulta che dagli elementi documentali (indicati nel processo verbale di constatazione della GdF e dai relativi allegati inerenti le risultanze della verifica parziale eseguita nei confronti della società "B.A. s.r.l." amministrata dal ricorrente) era emerso che: a) le ditte N., G.C., T.L. e M.N., che risultavano acquirenti di auto all'estero - in particolare, in Germania - e venditrici delle stesse auto ad altre ditte, come la "B.A. s.r.l.", non avevano sede effettiva, né dipendenti, né erano in grado di effettuare le operazioni in oggetto, né avevano mai presentato dichiarazioni e risultavano evasori totali; b) il venditore effettivo era un imprenditore tedesco e le auto erano acquistate e passavano direttamente alla "B.A. s.r.l." che poi le vendeva a privati; c) il pagamento all'imprenditore tedesco veniva effettuato di fatto dalla "B.A. s.r.l."; d) le società "cartiere" quali società interposte, di fatto non facevano nulla, se non interporsi fittiziamente tra le aziende U.E. tedesche e il reale acquirente italiano (in particolare, il P. o altri andavano, con il denaro della "B.A. s.r.l.", in Germania a ritirare i veicoli che poi consegnavano direttamente alla "B.A. s.r.l.", come dichiarato dal L., titolare della N. che aveva definito la propria posizione ex art. 444 c.p.p., e dallo S.; e) i pagamenti ed i flussi di denaro relativi alle auto commercializzate non transitavano nei cc/cc della società interposta, neppure esistenti; f) i titolari delle ditte interposte non erano neppure in grado di esercitare in via autonoma la commercializzazione di autovetture estero - Italia (ad es., si sottolinea in sentenza, il L., titolare della N., non conosceva la lingua tedesca, non disponeva di una struttura commerciale, era soggetto privo di capacità patrimoniale e finanziaria nonché di credibilità commerciale in quanto pluriprotestato, ed aveva dichiarato di recarsi in Germania a ritirare le auto con denaro fornito dal P. a cui le portava); g) nell'ambito delle attività della GdF mirate ad acquisire documentazione relativa ai rapporti commerciali intercorsi tra la "B.A. s.r.l." e le ditte emittenti le fatture in oggetto non risultano essere stati rinvenuti documenti, fax, copie commissioni di ordini, etc. attestanti le trattative commerciali; h) dall'esame delle fatture emesse dalla G.C. nei confronti della società amministrata dal ricorrente, poste a confronto con le rispettive fatture emesse da quest'ultima nei confronti dei singoli acquirenti, sono emerse palesi incongruenze, come ad esempio l'indicazione della data della vendita dell'autovettura da parte della "B.A. s.r.l." nei confronti dei singoli acquirenti, antecedente a quella di acquisto della stessa, operato cartolarmente presso la G.C., circostanza impossibile che confermava la fittizietà delle operazioni commerciali.

Risultava dunque evidente, precisano i giudici di appello, che le fatture emesse dalle società acquirenti fossero relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, stante il ruolo di "cartiere" delle società interposte; il ricorrente, pertanto, avvalendosi delle fatture soggettivamente inesistenti emesse dalle predette società, aveva quindi presentato dichiarazioni fraudolente per gli anni di imposta 2005 - 2007, che avevano consentito alla società da lui amministrata di indicare elementi passivi fittizi riguardo all'IVA.

5. A fronte di tale apparato argomentativo, il ricorrente svolge censure con riferimento al secondo motivo, del tutto prive di pregio, asserendo la natura "cristallina" delle operazioni e fornendo una sua personale versione in sede di impugnazione dello svolgersi dell'operazione commerciale, con ciò sostanzialmente chiedendo a questa Corte di svolgere apprezzamenti di fatto, che chiaramente esulano dall’ambito cognitivo di questo giudice di legittimità.

E' dunque evidente che, sotto l'apparente censura di un vizio di violazione di legge, il ricorrente in realtà appunta censure di tipo puramente contestativo rispetto alla ricostruzione dei fatti e rispetto alla valutazione del compendio probatorio operato dalla Corte d'appello, operazione vietata in questa sede, risolvendosi nel dissenso rispetto all'approdo motivazionale dei giudici territoriali. Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte., v.: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 - dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944).

A ciò si aggiunge che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l'esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l'indagine sull'attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 - dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961). Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata, non potendo del resto dubitarsi del corretto inquadramento giuridico della vicenda sotto la fattispecie dell'art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000, atteso che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di reati finanziari e tributari, il reato di utilizzazione (come quello di emissione) di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti (artt. 2 ed 8, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, sia per l'ampiezza della norma che si riferisce genericamente ad "operazioni inesistenti", sia perché anche in tal caso è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007 - dep. 09/04/2008, Rossi e altri, Rv. 239658, relativa a fattispecie nella quale la falsità riguardava la sola indicazione in fattura di altro soggetto qualificato come acquirente).

6. A diversa soluzione deve, invece, pervenirsi quanto al residuo motivo di ricorso, afferente il trattamento sanzionatorio.

Ed infatti, la censura relativa al diniego espresso dalla Corte d'appello quanto alle circostanze attenuanti generiche merita accoglimento, atteso che la Corte d'appello nega le invocate attenuanti limitandosi ad affermare che il relativo motivo di appello sarebbe privo di pregio giuridico; trattasi di motivazione apparente, in quanto non esplicita le ragioni dell'esercizio del potere discrezionale sotteso alla valutazione richiesta dalla legge; né, peraltro, a tale apparenza motivazionale può supplirsi richiamando la motivazione del primo giudice, non risultando alcuna motivazione sul punto; a fronte, quindi, di uno specifico motivo di appello sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, la Corte territoriale avrebbe dovuto fornire adeguata giustificazione delle ragioni del diniego, donde la censura difensiva, a fronte di quanto dianzi rilevato, appare fondata. In materia di circostanze attenuanti, l'art. 62 bis cod. pen. prevede il potere discrezionale del giudice di prendere in considerazione altre circostanze diverse da quelle previste nell'art. 62 dello stesso codice, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Vero è che il giudice di merito non è tenuto ad esaminare e valutare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa, e neppure è tenuto a prendere in considerazione tutti i criteri indicati nell'art. 133 cod. pen., essendo sufficiente che indichi i motivi per i quali non ritiene di esercitare il potere discrezionale attribuitogli dall'art. 62 bis cod. pen. (giurisprudenza costante; v. ex multis Sez. 1, n. 1666 del 11/12/1996 - dep. 21/02/1997, Adreveno, Rv. 206936), ma una motivazione deve comunque esservi, e quella offerta dalla Corte territoriale sul punto riveste i caratteri dell'apparenza.

7. L'accoglimento del primo motivo, determina pertanto l'annullamento dell'impugnata sentenza, con rinvio alla Corte d'appello di Perugia, territorialmente competente quale giudice del rinvio, perché colmi il predetto vuoto motivazionale.

Non ricorrono, tuttavia, le condizioni per procedere alla declaratoria di annullamento senza rinvio della medesima sentenza quanto ai fatti relativi al periodo di imposta 2005 - atteso che la relativa prescrizione risulterebbe maturata, in base al combinato disposto degli artt. 157 e 161, cod. pen., alla data del 16/01/2015, pur tenendo conto delle sospensioni del relativo termine dal 15/07 al 15/09/2011 per rinvio determinato da legittimo impedimento del difensore e dal 16/03 al 5/10/2012 per rinvio determinato dall'adesione del difensore all'astensione proclamata dalla categoria professionale di appartenenza

- ritenendo questo Collegio di dover disapplicare la specifica norma di cui all'ultima parte del terzo comma dell'art. 160 ed al secondo comma dell'art. 161 cod. pen. a seguito della sentenza della Corte di Giustizia U.E. dell'8 settembre 2015 (Grande Sezione), T., causa C-105/14.

8. Sul punto sono necessarie alcune considerazioni che impongono la disapplicazione delle predette norme in riferimento ai reati di frode in materia di IVA, come nel caso di specie.

Con la predetta sentenza 8/09/2015, la Grande Camera della Corte di Lussemburgo nel c.d. caso T. ha denunciato l'insostenibilità delle norme in questione (e, in particolare, della previsione di un termine massimo in presenza di atti interruttivi) nella misura in cui tale meccanismo può determinare in pratica la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, lasciando così senza tutela adeguata gli interessi finanziari non solo dell'Erario italiano, ma anche - ed è quanto rileva per i giudici eurounitari - quelli dell'Unione. Tale disciplina è stata giudicata incompatibile con gli obblighi europei di tutela penale: il cui contenuto notoriamente non si esaurisce soltanto nella previsione astratta di norme incriminatrici, ma si estende altresì all'applicazione nel caso concreto delle pene da esse previste nel caso di violazione.

Le conseguenze di questa pronuncia per l'ordinamento italiano derivano dal principio del primato del diritto UE rispetto a quello nazionale (compreso lo stesso diritto penale). La Corte di giustizia ha affermato, con la richiamata sentenza, l'obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare in parte qua il combinato disposto degli artt. 160 e 161 cod. pen. nella misura in cui il giudice italiano ritenga che tale normativa - fissando un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti interruttivi, pari di regola al termine prescrizionale ordinario più un quarto - impedisce allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell’unione imposti dall'art. 325 del Trattato sul funzionamento dell'Unione (TFUE).

In buona sostanza, il giudice di merito, ricorrendo i presupposti indicati dalla citata sentenza europea, ha l'obbligo - discendente direttamente dal diritto dell'Unione - di condannare l'imputato ritenuto colpevole dei reati ascrittigli, senza tener conto dell'eventuale decorso del termine prescrizionale calcolato sulla base delle suddette norme degli artt. 160 e 161 cod. pen.

9. E' opportuno ricordare brevemente il caso deciso dalla Corte di Giustizia.

Nei confronti del T. e di altri soggetti era pendente avanti il Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Cuneo un procedimento penale per associazione per delinquere allo scopo di commettere vari delitti in materia di IVA, attraverso il noto meccanismo delle c.d. "frodi carosello". Secondo l'impostazione dell'accusa, essi avrebbero in tal modo realizzato negli esercizi fiscali dal 2005 al 2009 un'evasione dell'IVA in relazione all'importazione di champagne per un importo pari a diversi milioni di euro. Con ordinanza 17 gennaio 2014, il g.u.p., rilevato l'intervenuto decorso della prescrizione nei confronti di uno degli imputati, constatava altresì che nei confronti di tutti gli altri imputati la prescrizione sarebbe maturata nei termini di sette anni e mezzo dalla data di cessazione dell'associazione (per ciò che concerne i meri partecipi) o, al massimo, in quello di otto anni e nove mesi (per ciò che concerne i capi). In ogni caso, tutti i reati - ove non ancora prescritti - lo sarebbero stati entro il febbraio 2018: e la previsione del g.u.p. (tenuto conto della fase processuale nella quale il processo si trovava alla data dell'ordinanza) era che entro tale data sarebbe stato impossibile pervenire ad un accertamento definitivo. Il giudice sottoponeva allora una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, chiedendo se la disciplina in materia di termine massimo di prescrizione in presenza di atti interruttivi di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen. produca effetti compatibili con una serie di norme del TFUE e con una disposizione della direttiva 2006/112/UE in materia di IVA.

10. Utile, inoltre, per cogliere la soluzione della Corte di Giustizia, è ricordare le conclusioni svolte dall'Avvocato generale che, pur ritenendo irrilevanti le disposizioni di diritto dell'Unione invocate dal giudice del rinvio rispetto alla sostanza della questione prospettata, ebbe a riformulare la questione pregiudiziale sollevata riducendola ai suoi termini essenziali ed individuandone altresì i corretti fondamenti normativi.

L'Avvocato generale aveva invero precisato l'esatto ambito della questione sulla quale poi la Corte di Giustizia U.E. si è pronunciata, ossia: "se il diritto dell'Unione imponga ai giudici degli Stati membri di disapplicare determinate disposizioni del loro diritto nazionale relative alla prescrizione dei reati, al fine di garantire una repressione efficace dei reati fiscali" (§1).

La soluzione offerta dall'Avvocato generale era affermativa e risultava imposta non solo dall'impianto generale della direttiva 2006/112/UE alla luce del principio di leale cooperazione di cui all'art. 4 § 3 TUE, ma anche dall'art. 325 TFUE (a tenore del quale gli Stati membri sono pertanto tenuti a lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione «con misure dissuasive ed effettive»), nonché dall'art. 2 § 1 della Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari dell'Unione europea (la c.d. convenzione PIF), che impone espressamente agli Stati firmatari la previsione di sanzioni penali, che nei casi di frodi gravi devono altresì includere sanzioni privative della libertà.

I giudici nazionali sono, pertanto, tenuti a garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione, anzitutto mediante l'interpretazione del proprio diritto in maniera conforme al diritto UE: ovvero, laddove tale interpretazione conforme non sia possibile, "disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale" (§§ 106-111).

11. I giudici eurounitari hanno accolto, com'è noto, la richiesta dell’Avvocato generale, concordando anzitutto nel ritenere irrilevanti le norme di diritto UE invocate dal giudice del rinvio, ma focalizzando, per quanto qui di interesse, l'attenzione sulle norme esaminate dall'Avvocato generale.

Richiamando il proprio precedente F., la Corte osserva anzitutto che dalla direttiva 2006/112/UE nel suo complesso, alla luce del principio di leale cooperazione di cui all'art. 4 § 3 TUE, emerge a carico degli Stati membri non solo l'obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che l’IVA dovuta nei loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma altresì quello di anche lottare contro le frodi in materia di IVA.

Tale obbligo si ricava d'altronde, a livello di diritto primario dell'Unione, dall'art. 325 § 1 e 2 TFUE, che impegna gli Stati membri a "lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari" (§ 37).

Tra gli interessi finanziari dell'Unione, come già affermato nella sentenza F., rientra certamente anche l'interesse alla riscossione delle aliquote agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell'Unione; sicché qualsiasi lacuna nella riscossione dell'IVA a livello nazionale si traduce in un pregiudizio per le finanze dell'Unione (§ 38).

Infine, la Corte accoglie l'impostazione dell'Avvocato generale anche nell'individuazione nell'art. 2 § 1 della Convenzione PIF il fondamento normativo di un obbligo non solo (genericamente) di tutela effettiva, proporzionata e dissuasiva delle finanze dell'Unione (comprensive dell'interesse alla riscossione delle aliquote IVA), ma anche di uno specifico obbligo di adottare sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, che prevedano - nei casi gravi di frode - anche pene privative della libertà personale (§§ 40-41).

Ciò posto, la Grande Sezione della Corte U.E. rileva che nel caso di specie il procedimento penale concerneva una frode In materia di IVA dell'importo di vari milioni di euro, lesiva come tale anche degli interessi finanziari dell'Unione; una frode tuttavia che, secondo quanto illustrato dal giudice del rinvio, avrebbe rischiato fortemente di restare impunita per effetto della vigente disciplina della prescrizione, e in particolare per effetto del meccanismo di diritto interno secondo cui, anche in caso di atti interruttivi, il termine prescrizionale non può essere aumentato più di un quarto della sua durata iniziale. Una simile situazione determinerebbe l'assenza di conseguenze sanzionatorie nel caso concreto, in frontale violazione degli obblighi UE appena menzionati.

Inoltre, come rilevato dalla Commissione nelle sue osservazioni in udienza, l'ordinamento italiano non assicurerebbe eguale trattamento alle frodi contro imposte meramente nazionali e a quelle (anche) di pertinenza dell'Unione come l'IVA, nella misura in cui il termine massimo complessivo della prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen. non opera nel caso di associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all'art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1943, n. 436, mentre opera per le associazioni finalizzate alle frodi in materia di IVA che ledono, per l'appunto, il bilancio dell'Unione. Un'asimmetria, questa, espressamente vietata dal § 2 dell'art. 325 TFUE, a tenore del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare "per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, te stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari".

Operazione possibile in forza del principio della tutela equivalente enunciato dalla Corte già a partire da due storiche sentenze della C.G.C.E. (sentenza 21 settembre 1989, 68/88, Commissione/Repubblica Ellenica e sentenza 13 luglio 1990, 2/88, Zwartveld e aa.), con cui vennero indicati i principi che presiedono alla penalizzazione di interesse comunitario, sulla base dell'obbligo di solidarietà comunitaria (art. 5 ora 10 TCE): 1) gli Stati devono perseguire con concreta adeguatezza sotto il profilo sostanziale e processuale le violazioni del diritto comunitario; 2) i termini della prevenzione sono prefissati, la tutela dovendosi attestare almeno sui livelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza (principio di assimilazione), e comunque su livelli tali da conferire alla sanzione un carattere di effettività, proporzionalità, capacità dissuasiva; 3) gli Stati sono obbligati ad adottare tutte le misure atte a garantire, se necessario anche penalmente, la portata e l'efficacia del diritto comunitario. Si era così aperto anche sul fronte dell'impulso alla penalizzazione un sindacato comunitario sulle scelte di penalizzazione degli Stati, che si affianca contrapponendosi a quello esperibile in base a principi comunitari penalistici di garanzia e libertà.

12. Il problema più delicato affrontato dalla Grande Sezione nel caso T. concerne però le conseguenze che il giudice del rinvio, e in generale ogni giudice nella sua stessa posizione, è chiamato a trarre dalla verifica di tali profili di violazione del diritto UE.

La Corte U.E. concentra la sua attenzione esclusivamente sull'art. 325 TFUE, che è in effetti l'unica norma - tra quelle sino a quel momento esaminate - in grado di esplicare effetto diretto nel giudizio nazionale, trattandosi di norma di diritto primario che pone "a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione" (§ 51). L'effetto diretto dei primi due paragrafi dell'art. 325 TFUE, dotati di primazia rispetto al diritto nazionale, comporta qui la conseguenza "di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente" (§ 52), nel caso di specie rappresentata dalle citate norme di cui agli artt. 160 e 161 del codice penale.

Di qui la conclusione, trasfusa poi letteralmente nel dispositivo: "una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi [...] è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell'ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all'occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE" (§58).

13. Occorre chiarire alcuni aspetti relativi agli effetti della decisione della Corte U.E.

Anzitutto, deve osservarsi come la Grande Sezione non pretende tout court la disapplicazione dei termini di prescrizione previsti dall'art. 157 cod. pen., che in quanto tali vengono giudicati del tutto compatibili con gli obblighi UE; né, ovviamente, la disapplicazione dell'art. 160 cod. pen. nella parte in cui disciplina in linea generale gli atti interruttivi e i loro effetti, disponendo in particolare che - dopo ogni atto interruttivo - la prescrizione comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione.

A dover essere disapplicata, chiariscono i giudici eurounitari, è soltanto l'ultima proposizione dell'ultimo comma, successiva al punto e virgola, ove si dispone che "in nessun caso i termini stabiliti nell'articolo 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all'articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per I reati di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale".

In pratica, dunque, secondo la lettura successiva alla imposta disapplicazione, il termine ordinario di prescrizione ricomincerà da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo, anche al di fuori dei procedimenti attribuiti alla competenza della Procura distrettuale dove già vige questa regola, senza essere vincolato dai limiti massimi stabiliti dal successivo art. 161 cod. pen. in maniera differenziata per delinquenti primari o recidivi.

14. In secondo luogo, potrebbe ritenersi che l'obbligo enunciato nel dispositivo non concerna soltanto i procedimenti relativi alle "frodi" in materia di IVA, come quella di cui si discuteva nel giudizio di rinvio, ma teoricamente potrebbe estendersi a qualsiasi reato tributario che comporti, nel caso concreto, l'evasione in misura grave di tributi IVA (ad es. l'omessa dichiarazione ex art. 5 o l'omesso versamento del tributo ex art. 10-ter d.lgs. 74/2000). Si potrebbe infatti sostenere che, nonostante l'esplicito riferimento contenuto nel dispositivo, che indurrebbe a circoscrivere l'obbligo a condotte fraudolente come l'utilizzo o l'emissione di fatture false, la conclusione contraria potrebbe fondarsi sul dato testuale dell'art. 325 § 1 TFUE], su cui fa perno l'argomentazione della Corte, tale norma impegnando espressamente gli Stati a combattere non solo la "frode", ma anche le "altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione". Va peraltro osservato che la questione è irrilevante ai fini della soluzione del presente giudizio, e non va quindi affrontata in questa sede.

15. Terza condizione di operatività dell'obbligo è, poi, che la frode (o eventualmente il reato in materia di IVA) di cui si controverte sia "grave", così come quella oggetto del giudizio di rinvio, ove si controverteva dell'evasione di milioni di euro (si noti che la Corte U.E. non fornisce alcuna indicazione quantitativa circa la soglia minima di gravità in presenza della quale per il giudice scatta l'obbligo di disapplicare le citate norme di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen., lasciando così al giudice penale italiano il compito di delimitare l'ambito di applicazione della norma europea).

In ogni caso è compito della giurisprudenza sciogliere questi nodi esegetici, e stabilire così in quali casi operare la disapplicazione richiesta dalla Corte europea, secondo i criteri enunciati della sentenza. Qui l'indicazione della Corte di giustizia è categorica (cfr. il punto 49 della motivazione, in cui si richiama inter alios la recente sentenza Kucukdeveci), ed è del resto conforme a quanto costantemente affermato dalla nostra giurisprudenza costituzionale a partire dalla storica sentenza Granital (n. 170/1984) in poi: il compito di risolvere le antinomie tra norme di legge nazionali - come gli artt. 160 e 161 cod. pen.- e norme di diritto UE dotate di effetto diretto - come l'art. 325 TFUE - spetta unicamente al giudice comune.

16. Orbene, facendo applicazione di tali principi fissati dalla Grande Sezione nel caso T. al caso sottoposto all'esame di questa Corte, osserva il Collegio, come la situazione sia sostanzialmente analoga a quella affrontata dai giudici eurounitari.

Ed infatti si discute in questa sede di una frode IVA posta in essere dal ricorrente mediante l'utilizzo di false fatture per operazioni soggettivamente inesistenti relative a numerose annualità (dal 2003 al 2007), con consistente evasione di IVA in relazione a ciascun periodo di imposta. Deve, sul punto, precisarsi che non rileva nel caso di specie la questione - che dovrà essere affrontata e risolta dal giudice ordinario quando sarà rilevante -, che presenta invero molteplici sfaccettature, se, per valutare la gravità, ci si debba limitare ai singoli reati oppure se si debba avere riguardo alla totalità di tutti i reati posti in continuazione, tenendo o meno conto anche dei reati dichiarati estinti per prescrizione. In altri termini, cioè, non rileva nel presente processo la questione se debbano disapplicarsi le norme nazionali sulla interruzione della prescrizione anche per il singolo o i singoli reati che eventualmente non siano certamente gravi, perché implicanti una evasione di poche migliaia di euro, ove la somma complessiva evasa per tutti i reati contestati sia elevata.

Questione, questa, che nel presente processo non è rilevante - e quindi non merita approfondimento in questa sede - perché, sia valutando la totalità della evasione per tutti i reati sia valutando le evasioni per i singoli reati, in ogni caso occorre disapplicare la norma sulla interruzione perché nella specie anche le singole evasioni raggiungono ognuna la soglia della gravità.

Non può dunque dubitarsi che, trattandosi di frode fiscale IVA di importo singolarmente consistente per ciascun periodo di imposta si rientri nella nozione di "gravità" valutata dalla Corte U.E. quale condicio per la disapplicazione del regime prescrizionale dettato dal combinato disposto delle dette norme di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen.

17. Ciò posto, ritiene il Collegio - per le ragioni che verranno indicate infra - che nel caso in esame non vi sono sufficienti ragioni per sollevare una questione di legittimità costituzionale, dal momento che è evidente la mancanza di contro limiti e di dubbi ragionevoli sulla compatibilità degli effetti della imposta disapplicazione con le norme costituzionali italiane.

18. La stessa Corte di Giustizia ha affrontato il problema se la disapplicazione di una norma del codice penale in materia di prescrizione contraria al diritto UE, con effetti sfavorevoli per l'imputato, violi di per se stessa il principio di legalità in materia penale, secondo cui nessuna responsabilità penale può sussistere se non in forza della legge (legge, costituita dal combinato disposto degli artt. 160 e 161 cod. pen., di cui la Corte U.E. richiede la disapplicazione in parte qua). Orbene, come visto, la Corte U.E. affronta apertamente tale obiezione, sollevata dai Governi intervenuti e già affrontata del resto dall'Avvocato generale, pervenendo alla stessa conclusione negativa: il principio di legalità non è in alcun modo vulnerato.

La norma di riferimento per la Corte è, com'è ovvio, l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione (CDFUE), che - in forza dell'art. 52 CDFUE - recepisce il nullum crimen nell'estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla corrispondente previsione dell'art. 7 CEDU. Secondo tale giurisprudenza (di particolare rilievo in questo senso la sentenza della Corte E.D.U., Coéme e a. c. Belgio, ric. nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 149), puntualmente richiamata dalla Corte di giustizia, la materia della prescrizione del reato attiene in realtà alle condizioni di procedibilità del reato, e non è pertanto coperta dalla garanzia del nullum crimen, tanto che persino l'applicazione a fatti già commessi ma non ancora giudicati in via definitiva del termine di prescrizione ad opera del legislatore deve ritenersi compatibile con l'art. 7, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un fatto e con una pena previsti dalla legge come reato al momento della sua commissione.

Nel caso di specie, osserva la Corte U.E., i fatti commessi dagli imputati integravano i reati previsti dalle norme allora già in vigore, ed erano passibili delle stesse pene che oggi dovrebbero essere loro applicate: e tanto basta per garantire il rispetto del principio di legalità, nella sua funzione di baluardo delle libere scelte d'azione dell'individuo (che ha diritto a non essere sorpreso dall'inflizione di sanzioni penali per lui non prevedibili al momento della commissione del fatto).

Rispetto invece alla maturazione del termine prescrizionale, già l'Avvocato generale aveva osservato che "non sussiste [per l'individuo] un affidamento meritevole di tutela" a "che le norme applicabili sulla durata, il decorso e l'interruzione della prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al momento della commissione del reato" (§ 119 delle conclusioni, Avvocato Generale).

Ciò è sufficiente per la Corte di Giustizia: la soluzione imposta ai giudici italiani è compatibile con il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti a livello europeo della Carta, che vincolano in egual misura le istituzioni europee e quelle nazionali nell'attuazione del diritto UE, e tanto basta a garantire la legittimità di tale soluzione.

18. Il Collegio ritiene che non si prospetta alcun dubbio di illegittimità costituzionale, non ravvisandosi gli estremi per sottoporre al giudizio della Corte Costituzionale la questione di un possibile contrasto della legge di esecuzione del Trattato (e, quindi, dell'art. 325 TFUE) con l'art. 25, comma secondo, Cost., e ciò perché la specifica norma di cui all'ultima parte del terzo comma dell'art. 160 cod. pen. e del secondo comma dell'art. 161 cod. pen., che nella specie viene in rilievo, non gode - anche secondo la giurisprudenza costituzionale, oltre che secondo quella europea - della copertura della citata norma costituzionale di cui all'art. 25. In ogni caso, non rileva nella specie, la questione, peraltro di natura dogmatica, se la disciplina della prescrizione, o di alcuni elementi di essa, abbia natura sostanziale o processuale, perché, quale che sia la risposta che si voglia dare dogmaticamente, comunque la specifica norma che ci interessa non è coperta dalla tutela dell'art. 25 Cost. e dall'art. 7 CEDU come afferma anche la sentenza n. 236 del 2011 della Corte costituzionale.

19. Tanto premesso, si spiega quindi la soluzione operata dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. nel c.d. caso T. e la indicazione ai giudici italiani di disapplicare quella specifica norma degli artt. 160 e 161 cod. pen., che, nei casi indicati, pone in pericolo gli interessi finanziari dell'Unione.

La Corte di Giustizia dell'Unione europea ritiene illegittima dal punto di vista euro-unitario la specifica norma degli artt. 160 e 161 cod. pen.

Ad ogni modo, la CGUE, come anticipato, non censura l'intero assetto normativo della prescrizione ma si limita a delegittimare la previsione di un termine massimo pur in presenza di atti interruttivi.

La conclusione, per il giudice europeo, è quella di disapplicare tale normativa contrastante con le norme del Trattato di Lisbona.

Dopo il caso N. (in cui la CGUE aveva suggerito al giudice nazionale di disapplicare l'interpretazione autentica di rifiuto e condannare l'imputato applicando la nozione di rifiuto vigente al momento dei fatti: Corte di Giustizia, 11 novembre 2004, C-457/02), questa sentenza è la seconda che prevede, almeno così apertamente, risvolti contra reum.

Nel caso N., il principio di legalità non era violato, perché, al momento del fatto, era vigente la disciplina penale più sfavorevole, poi modificata in mitius (ma illegittima per il diritto europeo). Nel caso T., la legalità penale non è violata in quanto la disciplina della prescrizione (o almeno la disciplina della interruzione della prescrizione) ha, per la CGUE, natura processuale. La legalità penale riguarderebbe insomma l'incriminazione e la garanzia di libere scelte di azione da parte del cittadino, ma non avrebbe tale copertura l'affidamento del cittadino «che le norme applicabili sulla durata, il decorso e l'interruzione della prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al momento della commissione del reato» (§ 119).

Nell'Unione europea la legalità processuale ha una tutela meno intensa di quella penale sostanziale, come confermato ad esempio dalla materia del MAE e dalle ripercussioni interne delle pronunce della CGUE sulla legge 69 del 2005 (si v., ad esempio, le pronunce di questa Corte: Sez. 6, n. 34355 del 23/09/2005 - dep. 26/09/2005, Ilie Petre e Sez. U, n. 4614 del 30/01/2007 - dep. 05/02/2007, Ramoci, sul MAE; v., ancora, le pronunce che hanno dato attuazione interna alla sentenza della CGCE Pupino). Questo minor vigore della legalità processuale in sede europea sembrerebbe, secondo alcuni, "accettato" o "tollerato" dallo Stato Italiano che firmando il Quarto Protocollo alla Convezione del Consiglio d'Europa del 1957 sulla estradizione, nella cui formulazione si accetta il principio per cui il decorso della prescrizione nello Stato richiesto non impedisce la consegna della persona allo Stato richiedente, sembrerebbe testimoniare come anche per il legislatore la prescrizione non è propriamente un elemento della fattispecie penale.

20. E' dunque evidente, per quanto sinora chiarito, che la sentenza europea non incide sulla disciplina e sui termini di prescrizione, ma solo sulla durata massima della interruzione, peraltro comportando l'applicazione anche per le gravi frodi in tema di IVA di una norma già prevista per altri casi concernenti imposte nazionali.

Ma, ed è questo il punto centrale della valutazione operata da questa Corte, non vi è alcuna necessità di sollevare questione di costituzionalità della legge di esecuzione della norma del Trattato per presunto contrasto con l'art. 25 Cost., essendo pacifico che, per la giurisprudenza della Corte costituzionale, oltre che per quella europea, la specifica norma di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen., che qui viene in rilievo, non è dotata della copertura costituzionale dell'art. 25.

In altri termini, ritiene il Collegio che, quale che sia la natura sostanziale o processuale della prescrizione o, più specificamente, degli effetti della interruzione, si deve ritenere che, in ossequio alla citata pronuncia della Corte di Giustizia, nell'ipotesi di contrasto col diritto europeo, per i processi in materia di gravi frodi in tema di IVA in cui il termine di prescrizione non è spirato, le specifiche norme di cui agli artt. 160, comma terzo, e 161, comma secondo, cod. pen., vadano disapplicate, non ponendosi del resto - attesa anche la natura dichiarativa e non costitutiva della sentenza della C.G.U.E. - alcun problema di contro limiti. L'interpretazione della Corte di Giustizia U.E. è, infatti, di natura dichiarativa, non creativa, quindi si intende che interpreti le norme comunitarie come sono in origine al momento della loro approvazione. Pertanto, portata e senso delle interpretazioni sono applicabili retroattivamente anche per leggi degli Stati membri emanate in momenti compresi tra la data della norma comunitaria e la sentenza della Corte.

Nello specifico caso concreto, sottoposto all'esame di questo Collegio, la disapplicazione nei processi in corso di questa specifica norma (contrastante fin dalla sua origine con i principi del Trattato, per come specificati dalla Corte di Giustizia), non comporta dunque alcun contrasto con l'art. 25 Cost., non ravvisandosi un'applicazione retroattiva di norme penali incriminatrici sanzionatone. L'ampia diffusione del fenomeno delle frodi comunitarie aveva infatti indotto gli Stati membri a procedere alla definizione di uno sforzo comune teso a contrastare in maniera più efficace questo tipo di irregolarità, fornendo un fondamento giuridico certo a tale azione con l'approvazione del Trattato di Maastricht. Fino a tale Trattato mancava, infatti, qualsiasi previsione specifica nei trattati istitutivi sull'argomento; con quest'ultimo trattato era stato aggiunto un nuovo articolo (l'art. 209A, poi art. 280) che per la prima volta poneva esplicitamente a carico degli Stati membri l'obbligo di adottare anche per gli interessi finanziari della Comunità "le stesse misure che adottano per combattere le frodi che ledono i loro interessi finanziari", articolo poi completamente riformulato con il Trattato di Amsterdam.

Con il Trattato di Maastricht, inoltre, il tema della lotta alle frodi aveva trovato collocazione anche nell'ambito del c.d. terzo pilastro. Tra gli obiettivi esplicitamente enunciati dall'ex art. K.1 (poi art. 29) figurava, infatti (al punto 5), anche la "lotta contro la frode su scala internazionale", disposizione sulla cui base erano adottate diverse Convenzioni.

La base giuridica per l'azione comunitaria in tema di lotta alle frodi era quindi costituita dall'art. 280 del Trattato CE.

La disposizione cardine contenuta in questo articolo era quella del secondo paragrafo, nella parte in cui si imponeva agli Stati membri l'obbligo di combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari delle Comunità con gli stessi strumenti che vengono adottati per combattere le frodi a livello nazionale. In pratica con questa disposizione veniva introdotto il cd. principio di assimilazione: gli interessi finanziari comunitari vengono assimilati a quelli nazionali con la conseguenza che gli Stati sono tenuti ad agire con gli stessi mezzi e adottando le stesse misure in entrambi i casi.

L'art. 325 TFUE trova quindi il suo antecedente storico - giuridico proprio nell'art. 280 TCE: ciò spiega, come anticipato, la ragione per cui la disapplicazione della specifica norma di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen. nei termini indicati dalla sentenza T. (norma contrastante fin dalla sua origine con i principi del Trattato, per come specificati dalla Corte di Giustizia, in particolare con il già esistente art. 280 TCE, poi sostituito dall'art. 325 TFUE), non comporta dunque alcun contrasto con l'art. 25 Cost., non ravvisandosi un'applicazione retroattiva di norme penali incriminatrici sanzionatone.

21. Deve, poi, osservarsi - argomento per questo Collegio decisivo - come già la stessa Corte costituzionale ha ritenuto irrilevante la questione della natura della prescrizione, in particolare con la sentenza n. 236 del 2011, laddove, al punto 15, afferma che dalla "stessa giurisprudenza della Corte europea emerge che l'istituto della prescrizione, indipendentemente dalla natura sostanziale o processuale che gli attribuiscono i diversi ordinamenti nazionali, non forma oggetto della tutela apprestata dall'art. 7 della Convenzione, come si desume dalla sentenza 22 giugno 2000 (Coème e altri contro Belgio) con cui la Corte di Strasburgo ha ritenuto che non fosse in contrasto con la citata norma convenzionale una legge belga che prolungava, con efficacia retroattiva, i tempi di prescrizione dei reati".

Da questo richiamo si può desumere che la Corte costituzionale non ha ritenuto di attivare il contro limite (non si sarebbe citato l'art. 7 Cedu se lo si fosse ritenuto in contrasto con il nostro art. 25 Cost.). E' ben vero che, nel caso sottoposto alla Corte costituzionale si trattava di giustificare limiti alla retroattività di una norma nuova in bonam partem, mentre nel caso esaminato da questa Corte si tratta di giustificare l'applicazione dell'art. 325 TFUE; nondimeno, però, osserva il Collegio, l'esempio citato dalla Corte costituzionale si riferisce proprio alla ritenuta conformità all'art. 7 Cedu di una legge belga sulla prescrizione retroattiva in malam partem. E, a conferma di quanto sopra, non può sfuggire come l'esempio richiamato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 236 del 2011 (caso Coème e altri contro Belgio) è - guarda caso - proprio il medesimo che viene evocato dalla Corte di Giustizia U.E. nel c.d. caso T. per richiedere al giudice italiano la disapplicazione della specifica norma di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen., nei limiti indicati dal giudice europeo e dianzi richiamati: si legge, infatti, al § 57 della sentenza CGUE che "La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa all'articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall'articolo 49 della Carta, avvalora tale conclusione. Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall'articolo 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti [v., in tal senso, Corte eur D.U., sentenze Coème e a. c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 149, CEDU 2000UVII] Scoppola c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563, 564 e 570 e giurisprudenza ivi citata]".

22. Non rileva, dunque, a fronte della chiara indicazione fornita dal Giudice delle leggi con la citata sentenza n. 236 del 2011, la distinzione fatta da alcuni tra termine dell'art. 157 cod. pen. e termine massimo di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen., perché - oltre a trattarsi di questione dottrinaria - in ogni caso, anche qualora la distinzione non fosse possibile e il termine massimo avesse natura sostanziale, in ogni caso la norma che qui interessa non è coperta dall'art. 25.

23. Conclusivamente, nel caso sottoposto all'esame di questa Corte, l'obbligo di disapplicazione comporta la seguente soluzione: la disapplicazione non può provocare la reviviscenza di una norma anteriore (ossia, nella specie, il regime della prescrizione antecedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 251 del 2005). La disapplicazione della specifica norma indicata dalla sentenza europea (artt. 160 e 161 cod. pen., nei limiti indicati) non può infatti comportare la reviviscenza parziale della precedente disciplina perché non incide sulla norma abrogatrice (e sull'effetto abrogativo) ma, appunto, secondo la esplicita indicazione della sentenza europea, comporta solo l'applicazione alla grave frode IVA del termine massimo previsto per i reati di cui all'art. 51 bis cod. proc. pen. (ndr art. 51 cod. proc. pen.): in questa mancata applicazione la sentenza europea ha ravvisato il contrasto col principio del Trattato.

Nemmeno può determinare la revoca della dichiarazione di estinzione del reato già intervenuta, perché il soggetto al quale l'autorità giurisdizionale abbia dichiarato estinto il reato acquisisce un diritto soggettivo che prevale sulle istanze punitive dello Stato. Nella specie, quindi, il contrasto con la norma del Trattato non incide sui periodi di imposta 2003 e 2004 già dichiarati estinti per prescrizione nei due gradi di merito. Si tratta, in sostanza, di un errore del giudice che ha omesso di rilevare il già sussistente (anche se non ancora esplicitato dalla Corte di giustizia U.E.) contrasto col principio europeo, ma la sua statuizione è ormai divenuta irrevocabile.

Per i reati oggi non ancora estinti per prescrizione, invece, bisogna distinguere: a) se la eventuale futura dichiarazione di prescrizione dipende dal mancato rispetto dei termini di cui all'art. 157 c.p., nulla quaestio, non essendo stato questo punto toccato dalla pronuncia della C.G.U.E.; b) se la eventuale futura dichiarazione di estinzione dipende invece dal meccanismo del combinato disposto degli artt. 160, comma terzo, e 161, comma secondo, cod. pen., queste norme devono essere disapplicate.

In questo ultimo caso, dunque, il soggetto non ha alcun diritto soggettivo che prevale sulla pretesa punitiva dello Stato, dovendo escludersi ogni violazione del diritto di difesa, perché non può assegnarsi alcun rilievo giuridico a tale aspettativa dell'imputato al maturarsi della prescrizione (così Corte cost., ordinanza n. 452 del 1999, che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale, sollevata in riferimento gli artt. 3 e 24 della Costituzione, precisò appunto come dovesse "escludersi ogni violazione del diritto di difesa, perché non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di "aspettativa" dell'imputato al maturarsi della prescrizione").

Si tratta, quindi, di un mutamento limitatamente però a quel termine di natura squisitamente processuale, il quale deve considerarsi subvalente rispetto alla fedeltà agli obblighi europei discendenti dagli artt. 4 TUE e 325 TFUE: il contrasto con gli obblighi europei concerne, pertanto, unicamente il regime della durata massima del termine che comincia a decorrere dopo l'interruzione della prescrizione, regime che non riceve copertura dall'art. 25 Cost. per le ragioni già indicate.

Ne discende, quindi, per effetto della disapplicazione della norma dell'ultima parte del terzo comma dell'art. 160 e del secondo comma dell'art. 161 cod. pen. che, anche per l'ipotesi di reati concernenti gravi frodi in materia di IVA, in applicazione della regola già prevista da dette disposizioni per i reati di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., il termine ordinario di prescrizione (nel caso di specie, anni 6) ricomincerà da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo (nella specie, dall'ultimo, costituito dalla sentenza d'appello, intervenuta in data 21/10/2014), come accade nei procedimenti attribuiti alla competenza della Procura distrettuale dove appunto già vige questa regola, senza essere vincolato dai limiti massimi stabiliti dal successivo art. 161 in maniera differenziata per delinquenti primari o recidivi.

24. L'impugnata sentenza dev'essere, conclusivamente, annullata limitatamente alla valutazione relativa all'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche -, con rinvio alla Corte d'appello di Perugia, giudice di secondo grado cui spetta la competenza in sede annullamento con rinvio delle sentenze della Corte territoriale anconetana.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente all'applicabilità delle attenuanti generiche, con rinvio alla Corte d'appello di Perugia.

Rigetta il ricorso nel resto.