Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 15 dicembre 2015, n. 25260

Lavoro - Mancate pause e riposi spettanti - Risarcimento come lavoro straordinario - Danno psico-fisico

 

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 20 ottobre 2015, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

"Con sentenza del 19 giugno 2013 la Corte di Appello di Lecce confermava la decisione di primo grado di accoglimento della domanda proposta da (...) e nei (...) confronti della (...) - di cui erano dipendenti con mansioni di conducenti di linea - intesa ad ottenere la declaratoria del loro diritto al pagamento di un'indennità sostitutiva per ogni ora o frazione di ora di riposo giornaliero e/o settimanale non goduto nei termini stabiliti dal Regolamento CEE 20.12.1985 n. 3228, richiamato dall’art. 174 del d.Lgs. 30.4.1992 n. 285 (Codice della Strada) e sostituito dal Regolamento CEE 15.3.2006 n. 561, con condanna della società al pagamento delle somme indicate ricorso relativamente ai periodi specificati.

La Corte territoriale rilevava: che la documentazione prodotta dai lavoratori era esaustiva ai fini della prova della mancata fruizione dei riposi e non era contrastata da quella esibita dalla società; che la CTU espletata in primo grado, fondata sulla documentazione acquisita agli atti, era pienamente ammissIbile proprio al fine di verificare la correttezza dei conteggi effettuati dai ricorrenti; che era corretta la liquidazione equitativa del danno psicofisico derivato dalla mancata fruizione dei riposi operata dal Tribunale sulla valutazione della gravosità della prosecuzione dell’attività lavorativa oltre il limite imposto dal citato Regolamento CEE e prendendo a parametro del calcolo del danno la retribuzione contrattualmente prevista per il lavoro straordinario.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società affidato a quattro motivi.

Il (...) ed il (...) resistono con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito, con motivazione apodittica, ritenuto che la documentazione prodotta dai ricorrenti era adeguata a supportarne la domanda e non era contrastata dalla documentazione della società. Si evidenzia che in tal modo era stato invertito l’onere della prova ponendolo erroneamente a carico dell’azienda.

Con il secondo mezzo si denunzia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, 1° comma, n. 5 c.p.c.) per avere omesso l’esame della eccezione secondo cui la domanda dei lavoratori non era provata dalla documentazione prodotta.

Con il terzo motivo viene dedotta violazione dell’art. 157 c.p.c. (ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 3 c.p.c.) ed omesso esame (ex art. 360, comma 1°, n. 5 c.p.c.): della eccezione di inammissibilità della consulenza tecnica d'ufficio per essere stata disposta nonostante la carenza della documentazione prodotta agli atti dai ricorrente finendo così con l'esonerare questi ultimi dall’onere della prova; della eccezione di nullità della consulenza per avere utilizzato dati acquisiti da un'altra consulenza tecnica relativa ad altro giudizio.

Con il quarto motivo si lamenta violazione degli artt. 1226 e 2727 c.c., in quanto la Corte di Appello, omettendo qualsiasi valutazione sulle censure mosse nel gravame alla decisione del primo giudice in merito alla liquidazione equitativa del danno psicofisico ne aveva avallato la motivazione con affermazioni del tutto apodittiche che nulla dicevano dica la valutazione degli elementi probatori su cui fondare una detta liquidazione equitativa.

In altri termini aveva fatto discendere automaticamente resistenza di un danno da usura psico-fisica dalla mancata fruizione dei riposi senza verificare se detto danno fosse stato in concreto provato e, prima ancora, allegato.

Il primo ed il secondo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.

Dalla sia pur sintetica motivazione della impugnata sentenza emerge che la Corte di appello ha deciso in ossequio alla norma di cui all’art. 2697 c.c. ritenendo provata la domanda dei lavoratori sulla scorta della documentazione dagli stessi prodotta in giudizio ed aggiungendo il rilievo che la medesima non era stata contrastata da altra produzione documentale di provenienza della società. Ulteriori precisazioni, nel caso de quo, non erano assolutamente indispensabili avuto riguardo alla attività istruttoria svolta in primo grado nel cui corso era stata anche espletata una consulenza tecnica d’ufficio solo sulla scorta dei documenti prodotti dai ricorrenti non avendo la società provveduto a produrre documentazione di segno contrario.

In effetti il primo motivo finisce con il lamentare, piuttosto, un vizio di insufficiente motivazione che per quanto appresso si dirà non è più previsto nella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5 c.p.c.

Con riferimento al secondo mezzo, vale rilevare che lo stesso è anche inammissibile alla luce del nuovo testo dell’art. 360, primo comma n. 5, c.p.c. (come modificato dall’art. 54, comma 1° lett. b) d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134) il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

La norma si applica ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti pubblicati dopo 11 settembre 2012 ai sensi dell’art. 54, comma 3° di cit. (quindi al caso in esame).

Orbene, le Sezioni Unite di questa Corte (SU n. 8053 del 7 aprile 2014) hanno avuto modo di precisare che a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1° n. 5 cit. il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge e, cioè, dell’art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione".

Ed infatti perché violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio "così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione" fattispecie che si verifica quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo "talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum.

Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).

Inoltre, il vizio può attenere solo alla questo farti (in ordine alle questio juris non è configurabile un vizio di motivazione) e deve essere testuale, deve, cioè, attenere alla motivazione in sé, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Quanto invece allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in cui è scomparso il termine motivazione, deve trattarsi di un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Le Sezioni unite hanno specificato che "la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. - il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui risulti resistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso".

E’ evidente, quindi, che il motivo all'esame non presenti alcuno dei requisiti di ammissibilità richiesti dall’art. 360, comma 1, n. 5 così come novellato nella interpretazione fornitane dalle Sezioni unite di questa Corte. Ed infatti finisce il lamentare l’omesso esame non di un fatto, bensì, di una "eccezione" sollevata nel giudizio di appello concernente, in buona sostanza, il rilievo che i lavoratori non avevano fornito la prova del mancato godimento dei riposi previsti dal citato Regolamento CEE n. 3820/85. E come si è già detto, la Corte ha, invece, ritenuto che prova fosse stata fornita.

Il terzo motivo è inammissibile sotto un duplice profilo.

E’ inammissibile, alla luce di quanto sopra esposto in merito alla nuova formulazione del disposto dell’ art. 360, comma 1° n. 5 c.p.c., laddove censura l’omesso esame della "questio iuris" relativa alla eccepita nullità della consulenza tecnica disposta dal Tribunale.

E’, inoltre, privo del requisito dell’autosufficienza nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 157 c.p.c. in quanto non riporta il contenuto della consulenza tecnica, nell’assunto nulla per aver utilizzato dati acquisiti da altra consulenza tecnica espletata in diverso giudizio, ciò anche in considerazione del rilievo contenuto nella impugnata sentenza circa la esaustività della documentazione prodotta dai lavoratori e valutata dall’ausiliare.

Vale qui, infatti, ricordare che la parte che addebita alla consulenza tecnica d'ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi e di riportare, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine agli accertamenti ed alle conclusioni del consulente d’ufficio. Le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza devono, pertanto, possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso (v. 9 ex multis, Cass. n. 4201 del 22 febbraio 2010).

Il quarto motivo di ricorso è infondato.

E’ stato di recente affermato da questa Corte in un caso analogo a quello in esame che, nel caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da stress lavorativo, subito in ragione del mancato riconoscimento delle soste retribuite - previste dal regolamento n. 3820/85/CEE, nonché dall'art. 14 del regolamento OLL n. 67 del 1939, e dall’art. 6 co, 1 lett A) della legge n. 138 dd 1958 - per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e quella successiva e, complessivamente per turno giornaliero, di almeno un’ora, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare il tipo di danno specificamente sofferto ed il nesso eziologico con l'inadempimento datoriale, non discendendo automaticamente tale danno dalla violazione del dovere datoriale e richiedendo il danno non patrimoniale una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione (Cass. n. 2886 del 10 febbraio 2014).

In motivazione la richiamata decisione ha precisato che va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo peraltro quest'ultimo eventuale: la violazione di un dovere non equivale a danno e questo non discende automaticamente dalla violazione del dovere.

Ha rilevato che secondo i principi generali (artt. 2697 e 1223 c.c.), infatti, occorre l’individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso.

In tema, la Corte Costituzionale ha chiarito (sentenza n. 372 del 1994) che il danno biologico non è presunto, perché, se la prova della lesione costituisce anche prova dell'esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato.

Nel medesimo senso, questa Corte (tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 691 del 18/01/2012) ha affermato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l’attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo.

Con riferimento al servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale, Cass. Sez. L, Sentenza n. 14288 del 28/06/2011 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 11727 del 15/05/2013 hanno precisato che la mancata concessione del diritto ad un giorno di riposo compensativo (non riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all'art. 36 COST) è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psicofisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, e che questa è risarcibile solo in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava l’onere della specifica deduzione e della prova. Deve peraltro escludersi che il danno alla salute, concretizzandosi in una infermità del lavoratore, possa essere ritenuto presuntivamente sussistente, dovendo esso essere dimostrato nella sua sussistenza e nel suo nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall’illecito contrattuale (Cass. 16398 del 20/08/2004 e Cass. 14288 dd 28/06/2011).

E’ stato quindi sottolineato che tali principi non possono che trovare affermazione con riferimento al cd. danno da stress (o usura psicofisica) derivante dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie nella guida. Anche tale danno, infatti, si iscrive nella categoria unitaria, del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava, pertanto, l’onere della relativa specifica deduzione (e poi prova, anche attraverso presunzioni semplici): il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può dunque prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo (Sez. L. Sentenza n. 4479 del 21/03/2012).

In altri termini, il carattere non patrimoniale del danno postula una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione, sia con riferimento al tipo di danno configurabile (danno biologico, morale, esistenziale), sia con riferimento ai diversi presupposti rilevanti per ciascuna tipologia di pregiudizio, restando invece esclusa la configurabilità di un danno in re ipsa.

In definitiva, il danno da usura psicofisica si iscrive secondo la giurisprudenza di questa corte (Cass. Sez. un. n. 6572 del 24 marzo 2006; Cass, n. 26972 dell’11 novembre 2008) nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da fatto illecito o da inadempimento contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava, pertanto, l’onere della relativa specifica deduzione della prova eventualmente anche attraverso presunzioni semplici. Orbene, l'impugnata sentenza ha correttamente applicato i richiamati principi avendo rilevato che la liquidazione equitativa del danno operata dal primo giudice era corretta in quanto fondata sulla circostanza della provata mancata fruizione dei riposi e, quindi, dal fatto che dalla prosecuzione dell'attività lavorativa oltre il limite imposto dal Regolamento CEE derivava la maggiore gravosità della prestazione lavorativa fonte di danno psicofisico per i ricorrenti. In altri termini ha ritenuto che il primo giudice correttamente avesse presunto dalla maggiore gravosità dell'attività prestata durante i periodi destinati al riposo l'esistenza di un danno da usura psico-fisica.

Quanto alla censura relativa al criterio adottato per liquidate equitativamente il danno - la retribuzione prevista contrattualmente per il lavoro straordinario - va rilevato che il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ. a costituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ. ed il suo esercizio rientra, nella discrezionalità del giudice di merito con l'unico limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, dovendosi, peraltro, intendere l'impossibilità di provare rammentare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo. Nel caso di specie, il giudice di merito ha, dato conto del criterio seguito per determinare l'entità del risarcimento e l'esercizio del suo potere discrezionale è sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità (cfr. Cass. 2910/02).

Va pure ricordato che il giudice del merito, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della, corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato (Cass. 19148/05, 20283/04; vedi anche: Cass. n. 4047 del 19/02/2013; Cass. n. 10401 del 06/05/2009).

Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ..

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

I lavoratori hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. in cui elencano precedenti decisioni di questa Corte a loro favorevoli.

Il Collegio condivide pienamente il contenuto della riportata relazione e, quindi, rigetta il ricorso.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo con attribuzione all’avv. (...) per dichiarato anticipo fattone.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quatta del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quatta del d.P.R. - 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15% con attribuzione all’avv. (...).

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.