Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 02 dicembre 2015, n. 24490

Tributi - Iva - Accertamento - Avviso di rettifica - Processo verbale di constatazione - Indebita detrazione dell’imposta

 

Fatto

 

I soci della società semplice S., cui è subentrata l’odierna ricorrente, in proprio e nella qualità di legali rappresentanti della compagine sociale, impugnarono l’avviso di rettifica dell’iva dovuta per l’anno 1994, a seguito ad un processo verbale di constatazione, che aveva contestato l’indebita detrazione dell’imposta in relazione a fatture emesse per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale per un vizio di notificazione. Il giudice d’appello rigettò il gravame proposto dall’ufficio, con sentenza, che è stata cassata da questa Corte, la quale ha rinviato per l’esame del merito ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.

In esito a riassunzione di entrambe le parti, il giudice di secondo grado, con la sentenza impugnata, ha accolto l’appello dell’ufficio, reputando che l’apparente dante causa della S. fosse, in realtà, una società cartiera, in base agli indizi gravi, precisi e concordanti offerti dall’Agenzia, al cospetto dei quali irrilevante è l’asserito pagamento delle fatture; a tanto ha aggiunto che le sanzioni irrogate sono state adeguatamente motivate in ragione della gravità della violazione, tale, da acquisire rilevanza penale, e della personalità del trasgressore.

Avverso questa sentenza propongono ricorso le contribuenti per ottenerne la cassazione, affidandolo a tre motivi, cui l'Agenzia, sede centrale, ed il Ministero replicano con controricorso, che illustrano altresì con memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Diritto

 

1. - Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso, là dove è proposto nei confronti del Ministero, estraneo alle precedenti fasi del giudizio. Le relative voci di spesa sono compensate.

2. - Il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è inammissibile, perché non corredato del quesito di fatto, in dispregio dell’art. 366-bis c.p.c., sebbene l’impugnazione della sentenza in questione, depositata in data 10 febbraio 2009, fosse soggetta al regime di questa norma. Al riguardo, è sufficiente il richiamo all’orientamento della Corte (per l’espressione del quale vedi, fra varie, Cass. 18 novembre 2011, n. 24255), secondo cui è inammissibile, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., per le cause ancora ad esso soggette, il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, qualora manchi la conclusione a mezzo di apposito momento di sintesi, anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, attesa la ratio che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso alla suprema corte, la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito.

3. - Col primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., le contribuenti lamentano la violazione dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, là dove il giudice d’appello ha escluso la legittimità della detrazione dell’iva, anche se le operazioni di cessione di bovini tra la s.r.l. S. e la S. s.r.l. dante causa della società semplice S. sono realmente intervenute ed in mancanza di qualsivoglia elemento idoneo a ritenere provato il coinvolgimento della S. nel meccanismo fraudolento realizzato dalla s.r.l. S.

La censura, in definitiva, postula che il diritto di detrazione sia insorto e che sia stato correttamente esercitato.

3.1. - Tocca all’acquirente di beni o al committente di prestazioni di servizi che invochi il diritto di detrazione dell’iva assolta o dovuta provare che ricorrono i presupposti per fruirne (tra varie, Corte giust. 18 luglio 2013, causa C-78/12, «Evita-K» EOOD, punto 37), ossia:

- sotto il profilo sostanziale, la propria soggettività passiva, la circostanza che i beni o i servizi siano utilizzati a valle ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta e che, a monte, detti beni siano ceduti o che tali servizi siano forniti da un altro soggetto passivo e -sotto quello formale, il possesso di una fattura redatta ai sensi dell’articolo 22, paragrafo 3, della sesta direttiva, contenente, quanto alla cessione di beni, l’indicazione in maniera distinta del numero di identificazione ai fini dell’IVA col quale il soggetto passivo ha effettuato la cessione, il nome e l’indirizzo completo di quest’ultimo, nonché la quantità e la natura dei beni ceduti (sui presupposti sostanziali d’insorgenza del diritto, vedi, fra varie, Corte giust., sentenze Centralan Property, causa C-63/04, punto 52; Tóth, causa C-324/11, punto 26, Bonik, causa C-285/11, punto 29, nonché ordinanza Jagiello, causa C-33/14, punto 27 e, sulle condizioni formali, da ultimo, Corte giust. 22 ottobre 2015, causa C-277/14, PPUH Stehcemp sp. j Florian Stefanek, Janina Stefanek, Jaroslaw Stefanek contro Dyrektor Izby Skarbowej w Lodzi, punto 29).

Qualora il cessionario/committente provi la sussistenza di tali presupposti, spetta all’amministrazione tributaria che intenda recuperare le somme detratte l’onere della prova contraria e, in particolare, di provare l’insussistenza di uno o più di essi, oppure che, pur sussistendone i presupposti, il diritto sia stato esercitato fraudolentemente: per un verso, difatti, il diritto di detrarre richiede la realizzazione effettiva di un’operazione imponibile (tra varie, Corte giust. 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy Trans EOOD, punto 30, in coerenza con l’art. 19 del d.P.R. 633/72, che si riferisce alle «operazioni effettuate»); per l’altro, occorre che esso non sia esercitato in modo «abusivo o fraudolento» (fra tante, Corte giust. 21 giugno 2012, Mahagében e David, cause C-80/11 e C-142/11, punto 42; Bonik, cit., punto 37, nonché 31 gennaio 2013, causa C-643/11, LVK - 56, punto 59).

4. - Nel primo caso, ossia nell’ipotesi in cui intenda contestare l’insorgenza del diritto di detrazione, l’amministrazione, al cospetto dell’esistenza delle condizioni formali di esercizio, ossia di una fattura regolarmente redatta, deve provare che almeno uno dei presupposti sostanziali, di norma quello concernente la soggettività passiva del prestatore/cedente, non sussista.

A questo riguardo, a fronte di una società, apparente cedente, iscritta nel registro delle imprese, la Corte di giustizia non ha ritenuto sufficiente ad escluderne la qualità di soggetto passivo un coacervo di circostanze che inducevano ad affermarne l’inesistenza in base al diritto nazionale applicabile (ossia le condizioni fatiscenti dell’immobile corrispondente alla sede sociale, l’impossibilità di stabilire un contatto, la mancanza delle autorizzazioni necessarie all’esercizio della specifica attività d’impresa, l’omissione delle dichiarazioni fiscali ed il mancato pagamento dell’iva): la Corte ha ravvisato la realizzazione effettiva dell’operazione imponibile, facendo leva, sul piano sostanziale, sul fatto che la cessionaria «ha effettivamente ricevuto e pagato i beni in questione, ossia il carburante, indicati nelle fatture emesse dalla F. e che essa ha utilizzato tali beni a valle ai fini delle sue operazioni gravate da imposta» e, su quello formale, sulla circostanza che le fatture di cui era in possesso il cessionario fossero rispondenti alle prescrizioni dell’art. 22, paragrafo 3, lettera b) della sesta direttiva, in quanto «indicavano, conformemente a detta disposizione, segnatamente la natura dei beni ceduti e l’importo dell’IVA dovuta, nonché il nome della F., il suo numero d’identificazione fiscale e l’indirizzo della sua sede sociale» (Corte giust. 22 ottobre 2015, in causa C-277/14, punti 30 e 42). Di qui l’affermazione del principio secondo cui «le disposizioni della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva 2002/38/CE del Consiglio, del 7 maggio 2002, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale, quale quella di cui al procedimento principale, che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».

4.1. -Particolarmente significativa al riguardo, quanto alla prova della sussistenza del soggetto passivo, oltre alla circostanza dell’iscrizione nel registro delle imprese, è, nella prospettazione della Corte, resa evidente dalla sua precedente giurisprudenza, l’assegnazione del numero d’identificazione fiscale, la quale postula la previa verifica, da parte dello Stato membro, giustappunto della qualità di soggetto passivo (Corte giust. 14 marzo 2013, causa C- 527/11, Valsts ienémumu dienests c.Ablessio SIA, punto 29).

Elementi, questi dell’iscrizione nel registro delle imprese e dell’assegnazione del numero identificativo, che, in definitiva, nella costruzione della Corte, sono non soltanto sintomatici dell’esistenza della soggettività passiva del cedente e, quindi, dell’esistenza dell’operazione anche sotto il profilo soggettivo emergente dalla fattura, ma anche sufficienti, sul piano probatorio, nonostante le allegazioni di fatto dinanzi richiamate.

4.2. - In tal caso, ha soggiunto la Corte, è ininfluente anche l’eventuale assenza del potere della cedente di disporre giuridicamente dei beni: quel che rileva è che i beni siano stati acquisiti dal cessionario e che egli li abbia potuti impiegare ai fini di proprie operazioni imponibili (punto 44 in causa C-277/14).

5. - L’esercizio «fraudolento» del diritto di detrazione è configurabile qualora, pur sussistendo tutti i presupposti sostanziali del diritto di detrazione ed al cospetto delle condizioni formali per il suo esercizio, si configuri l’evasione fiscale di colui che invochi il diritto di detrazione, oppure del suo fornitore diretto, oppure ancora di uno dei fornitori nella catena delle cessioni o delle prestazioni: il fatturante è, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo, ma l'operazione si iscrive - per quanto riguarda quel trasferimento o per quanto concerne i passaggi precedenti - in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l'acquirente era o partecipe o consapevole e che contempla l'avvalimento in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell'IVA da parte di un cedente.

In questi casi, l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o che disponga dei relativi documenti (da ultimo, Corte giust. in causa C- 277/14, punto 52).

5.1. - Tale obbligo di verifica, tuttavia, si prospetta in capo al cessionario/committente a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza appunto di irregolarità o di evasione; indizi, che devono essere allegati e provati dall’amministrazione in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi (tra varie, Cass. 24 settembre 2014, n. 20059; 2 luglio 2014, n. 15044).

Sotto quest’aspetto possono acquisire rilievo determinante gli indici d’inadeguatezza del cedente/prestatore ad eseguire la cessione o la prestazione, perché sfornito della dotazione personale e strumentale necessaria: si consideri, al riguardo, che la Corte di giustizia (Corte giust. 13 febbraio 2014, causa C-18/13, Maks Pen EOOD) riconosce che la direttiva 2006/112/CE, che ha rifuso la sesta direttiva, deve essere interpretata nel senso che essa osta a che un soggetto passivo effettui la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto riportata nelle fatture emesse da un prestatore di servizi, qualora risulti che il servizio è stato sì fornito, ma non da tale prestatore o dal suo subappaltatore -segnatamente perché costoro non disponevano del personale, delle risorse materiali e degli attivi necessari, le spese della prestazione non sono state contabilizzate nei loro registri o l’identità dei firmatari di taluni documenti a titolo di prestatori del servizio si è rivelata inesatta -, purché, appunto, tali fatti integrino un comportamento fraudolento e sia dimostrato, alla luce degli elementi oggettivi forniti dalle autorità fiscali, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s’iscriveva in un’evasione.

5.2. - Al riguardo, per orientare il giudizio, questa Corte valorizza, con orientamento consolidato (tra varie, vedi Cass. 13 marzo 2013, n. 6229; 30 ottobre 2013, n. 24426; in linea anche 5 dicembre 2014, n. 25778), l’immediatezza dei rapporti tra cedente/prestatore e cessionario/committente come utile elemento sintomatico capace di consentire al secondo di rendersi conto o, almeno, di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione.

Si tratta, ad ogni modo, di un tipico accertamento di fatto demandato al giudice di merito, come rimarcato dalla stessa Corte di giustizia in causa C-277/14.

6. - In questo contesto, la censura si rivela fondata.

Ciò in quanto, sotto il profilo della prova dell’esclusione dei presupposti sostanziali d’insorgenza del diritto di detrazione, di per sé, l'accertamento di fatto contenuto in sentenza che la S. non aveva «alcuna consistenza patrimoniale o finanziaria, non aveva alcuna struttura idonea alla commercializzazione dei bovini, non aveva propri dipendenti o propri mezzi di trasporto, non presentava alcuna soggettività tributaria in quanto priva di contabilità...» non risulta dirimente, con particolare riferimento alla prova dell’esclusione della soggettività passiva della fornitrice, in base alle valutazioni della Corte di giustizia nella causa C-277/14: non risulta contestato, specificamente, che l’apparente cedente fosse iscritta nel registro delle imprese, che fosse titolare di un numero d’identificazione fiscale e che le fatture, per conseguenza, fossero regolari.

6.1. - Per altro verso, quanto alla prova dell’esercizio «fraudolento» del diritto, l’ulteriore accertamento contenuto in sentenza, determinato dalle dichiarazioni del titolare delle stalle da cui provenivano i bovini, il quale, si legge in sentenza, «...ha asserito di non aver mai ospitato nelle proprie stalle bestiame della S. e che, anzi, era stato contattato da questa per far figurare un contratto verbale di locazione delle stalle per il bestiame importato con lettere di vettura internazionale del periodo luglio-agosto 1994, proprio al fine di far figurare la sosta del bestiame consegnato alla S. nell’ottobre», lascia intendere che la cessionaria non fosse partecipe del meccanismo fraudolento, giustappunto per l’esigenza di «far figurare la sosta del bestiame».

6.2. - Questo accertamento, tuttavia, non esclude di per sé la sussistenza dell’esercizio <<fraudolento», in quanto il giudice d’appello non ha verificato se la cessionaria fosse in condizioni di rendersi conto dell’esistenza del meccanismo allestito dalla cedente, alla luce delle circostanze emerse sulla mancanza di dotazione personale e strumentale dell’apparente fornitrice ed in base ai rapporti con questa, secondo i parametri indicati sub 5.2. (considerando che la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l'evasione del tributo relativa alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti: da ultimo, Cass. 7 ottobre 2015, n. 20060).

7. - La censura va in conseguenza accolta, col conseguente assorbimento del terzo motivo di ricorso, col quale la ricorrente si duole della violazione degli art. 7, 12, 16 e 17 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

8. - Ne deriva la cassazione della sentenza, con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Veneto, perché riesamini la vicenda e regoli le spese.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero e compensa le relative voci di spesa, rigetta il secondo motivo di ricorso; accoglie il primo, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame nonché per la regolazione delle spese ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Veneto.