Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 dicembre 2015, n. 24947

Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato - Assiduità della presenza sul luogo di lavoro - Processo del lavoro - Tentativo obbligatorio di conciliazione

 

Con sentenza del 7 settembre 2011 la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale, accertava un rapporto di lavoro subordinato intercorso fra E.C. e A.Z.Z., e condannava la datrice di lavoro a pagare 4.773,08 euro per differenze retributive. La Corte osservava che le mansioni, affidate allo Z., di commesso addetto alla vendita in un chiosco di fiori, in quanto semplici e ripetitive, non richiedevano direttive se non quelle impartite una volta per tutte. L'assiduità della presenza sul luogo di lavoro, risultante dalle deposizioni testimoniali, faceva ravvisare la subordinazione.

Contro questa sentenza ricorre per cassazione la C. mentre lo Z. resiste con controricorso.

Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 346 cod. proc. civ. e vizi di motivazione, per non avere la Corte d'appello pronunciato sull'eccezione d'improcedibilità della domanda per difetto del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Il motivo è infondato.

L'esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione è previsto dall'art. 412-bis cod. proc. civ. quale condizione di procedibilità della domanda nel processo del lavoro; la relativa mancanza dev’essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 dello stesso codice e può essere anche rilevata d'ufficio dal giudice, purché non oltre l'udienza di cui all'art. 420, con la conseguenza che, ove l'improcedibilità dell'azione, pur segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio (Cass. 16 agosto 2004 n. 15956, 18 agosto 2004 n. 16141).

Col secondo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 420 e 244 cod. proc. civ. e vizi di motivazione, negando la natura subordinata del rapporto di lavoro e parlando di mancanza di "obiettiva, serena e corretta valutazione" (pag. 10 del ricorso) delle prove testimoniali.

Il motivo non può essere accolto. Esso è inammissibile nella parte in cui è perplesso, ossia non conforme all'art. 366, n. 4, cod. proc. civ., giacché per negare la subordinazione la ricorrente parla sia di "rapporto lavorativo di natura autonoma" (pag. 8) sia di retribuzione proporzionata agli incassi e di potere di fissare il prezzo della merce venduta, sembrando così alludere ad un rapporto societario piuttosto che di lavoro. Il potere di incassare il prezzo della merce consegnata o di concedere sconti d'uso (su questo punto il ricorso non contiene precisazioni) spetta ai sensi dell'art. 2210, secondo comma, cod. civ.,ai commessi ossia a lavoratori subordinati. In ogni caso l'inammissibilità della doglianza deriva dalla non precisione dei riferimenti alle prove testimoniali acquisite nel giudizio di merito.

Quanto alla valutazione delle deposizioni, essa non è possibile nel giudizio di legittimità.

Col terzo motivo la ricorrente prospetta la violazione dell'art. 416 cit. e vizi di motivazione, per avere la Corte d'appello determinato la somma dovuta per differenze retributive attraverso un'allegazione di parte non contestata dalla controparte, obliterando la regola secondo cui la negazione in radice del debito esclude l'applicabilità del principio di non contestazione sul suo ammontare.

Il motivo non è fondato.

Il giudice, in assenza di qualsiasi elemento contrario, ha legittimamente recepito i conteggi allegati dall'attore né la ricorrente indica ora errori specifici del medesimo giudice circa il contenuto di quei conteggi.

Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro cento/00, oltre ad euro tremilacinquecento/00 per compenso professionale più accessori di legge. Distrazione a favore dell'avvocato G.C.