Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 01 dicembre 2015, n. 24427

Associazione in partecipazione - Misura del corrispettivo - Utile dell’associato proporzionale al reddito netto dell’associante

Svolgimento del processo

 

1. (...) ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 643/09, con la quale in parziale accoglimento dell’appello proposto da (...) nei confronti di esso (...) avverso la sentenza del Tribunale di Torino resa tra le parti in data 21 maggio-24 luglio 2008, veniva ridotta la condanna del (...)  al pagamento in favore del Salerno di euro 6.067,31, oltre rivalutazione ed interessi dalla scadenza al saldo.

2. Il Tribunale aveva condannato il (...) (assodaciante) al pagamento in favore del (...) (associato) della somma di euro 61.078,39, quale quota di partecipazione agli utili non corrisposta per gli anni 1997/2003, in relazione al contratto di associazione in partecipazione stipulato tra le parti, relativamente all’attività del (...) in data 23 aprile 1997.

3. L’odierno ricorso proposto da (...) è articolato in due motivi di impugnazione.

4. Resiste (...) con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 2733 cc e 116 cpc, in relazione all’art. 360, n. 3, cpc. Vizio di motivazione con riguardo alla determinazione di quanto corrisposto in passato da parte dell’assodante all’associato a titolo di utile, ex art. 360, n. 5, cpc.

Il ricorrente si duole del fatto che, pur a fronte della confessione resa dal (...) in sede di interrogatorio formale su quanto storicamente percepito da esso associato (euro 31.921,16), che costituiva prova legale, il giudice di merito avrebbe dato prevalenza a quanto dedotto, in via conciliativa, dal consulente di parte nell’udienza di primo grado (euro 36.421,61).

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione e falsa applicazione di legge (artt. 1369 e 1363 cc, nonché art. 2549 e ssg. cc e art. 2432 cc), in relazione all’art. 360, n. 3, cpc. Vizio di motivazione circa la determinazione del reddito dell’assodante su cui calcolare l’utile da corrispondere all’associato. La censura attiene all’interpretazione del regolamento contrattuale in relazione alla determinazione del 5% del reddito, da riferire al reddito lordo del (...) (come vorrebbe il (...) o a quello netto (come vorrebbe il (...)

3. Ha priorità logico-giuridica l’esame del secondo motivo di ricorso. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

3.1. Occorre premettere che il punto 4 dell’accordo concluso tra le parti prevedeva che "gli utili conseguiti saranno distribuiti dall’associato nella misura del 5% del reddito dell’associante".

3.2. La Corte d’Appello relativamente al problema se per la determinazione dell’utile si debba tener conto del reddito lordo del centro medico o di quello netto, osservava come fosse vero che l’imposizione fiscale gravi sul presunto assodante1 che peraltro andrà a dedurre la quota distribuita all’associato e che per l’asserito associato, il reddito derivante dalla sua partecipazione viene considerato fiscalmente quale reddito da lavoro autonomo; d’altra parte era pur vero che utile si ha deducendo dal lordo spese e carico fiscale. Pertanto concludeva il giudice di secondo grado, ai fini della percentuale di calcolo dovuta si dovrà tenere conto del reddito netto del Centro, individuato dalle parti nel periodo di riferimento in euro 1.274.667,65, con un risultato, quanto alla percentuale del 5% prevista dalla convenzione, di euro 42.488,92.

3.3. Il ricorrente, nel censurare tale statuizione, deduce, in particolare, che la Corte d’Appello ha omesso di interpretare la singola norma del contratto mediante la complessiva interpretazione dell’intero regolamento contrattuale "associazione in partecipazione", laddove interpreta i concetti di partecipazione agli utili dell’associato all’impresa dell’assodante (art. 2549 cc) mediante il concetto di partecipazione agli utili della società, così come regolato dal novellato art. 2432 cc. Erroneamente sarebbe stato traslato il concetto di utile a quello di reddito netto.

Il quesito di diritto è così precisato: se l’accordo che stabilisce che la partecipazione dell’associato all’utile di una parte dell’attività professionale dell’associante è dovuto in misura proporzionale al reddito di quest’ultimo, possa legittimamente essere interpretato nel senso che detta partecipazione debba essere commisurata al reddito netto dell’assodante, nonostante che, sia dal tenore letterale della clausola del contratto, sia dalla comune intenzione delle parti (art. 1362 cc), sia dalla complessiva interpretazione di tutte le clausole (art. 1363 cc), sia infine dalla natura e dall’oggetto del contratto (art. 1369 cc), si possa agevolmente evincere che, al contrario, il reddito su cui calcolare la misura del corrispettivo debba essere rappresentato, come correttamente deciso dalla sentenza di primo grado, dal saldo contabile tra i ricavi ed i costi imputabili alla attività convenzionalmente pattuita come oggetto dell’associazione; se sia legittima l’applicazione dell’art. 2432 cc alla partecipazione agli utili di cui all’art. 2549 cc; se in relazione al contratto de quo, al fine di commisurare il corrispettivo dell’associazione in partecipazione, sia legittimo prendere in considerazione una sola parte del reddito dell’assodante, decurtato degli interi oneri fiscali da quest’ultimo subiti.

3.4. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Secondo un principio più volte affermato da questa Corte (v., ex multis, Cass. n. 17088 del 2008; n. 16036 del 2008; n. 15795 del 2008) l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, qualora gli accordi intercorsi tra le parti siano consacrati in un atto scritto, e per vizi di motivazione, qualora quella adottata sia contraria a logica e incongrua, tale, cioè, da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione.

Ancora, deve essere considerato che, (Cass., sentenza n. 5102 del 2015) in tema di interpretazione dei contratti, la comune volontà dei contraenti deve essere ricostruita sulla base di due elementi principali, ovvero il senso letterale delle espressioni usate e la "ratio" del precetto contrattuale, e tra questi criteri interpretativi non esiste un preciso ordine di priorità, essendo essi destinati ad integrarsi a vicenda.

Posto ciò, osserva il Collegio che la ricostruzione della effettiva volontà delle parti, e quindi del concreto atteggiarsi del rapporto intercorso tra le stesse, appare correttamente e coerentemente motivata dalla Corte territoriale, con argomentazioni che si sottraggono alle censure sollevate dal ricorrente con il motivo proposto.

La Corte d’Appello, avuto riguardo alla scrittura privata intervenuta tra le parti, e in particolare al punto 7 che precisava che l’apporto era costituito esclusivamente da prestazione di lavoro (non essendo previsto in capo all’associato né un potere gestorio, né un potere di controllo), ha statuito, fondando su ciò la corretta introduzione del giudizio da parte del Salerno con il rito del lavoro, che l’accordo aveva natura di contratto misto, associativo in parte e di collaborazione di lavoro dall’altra, e ha rilavato che proprio le parti assumevano il reddito dell’assodante quale parametro per determinare la percentuale di attribuzione degli utili.

Correttamente, quindi, e con congrua motivazione il giudice di secondo grado, nell’interpretare il punto 4 dell’accordo, come si è detto a causa mista, ha ritenuto legittimo il riferimento al reddito dell’associante (laddove, stricto iure, l’art. 2549 cc prevede che rassodante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto), ritenendo, tuttavia, che la condizione di partecipazione agli utili potesse essere soddisfatta nel tener conto del reddito netto del Centro.

D’altro canto se, come affermato da questa Corte (Cass., n. 2884 del 2012), non snatura la causa del contratto che l’associato non partecipi anche alle perdite (ferma la condivisione del rischio d’impresa), atteso che l’art. 2554 cc, primo comma, espressamente prevede una forma particolare di cointeressenza nella quale vi è la possibilità che le parti escludano l’associato dalla partecipazione alle perdite, e se l'art. 2553 cc, consente alle parti di determinare la quantità di partecipazione dell'associato agli utili, qualora, come nel caso di specie non risulti la partecipazione dell'associato alle perdite, risponde al sinallagma contrattuale voluto dalle parti, nel ricondursi almeno in parte allo schema negoziale dell’associazione in partecipazione, l’interpretazione della clausola dell’accordo in esame nel senso di una partecipazione percentuale al reddito netto e non al reddito lordo, come statuito dalla Corte d’Appello.

Peraltro l’art. 2102 cc, richiamato dall'art. 2554 cc, che disciplina la già citata cointeressenza impropria, fa riferimento "agli utili netti dell’impresa".

4. Può passarsi all’esame del primo motivo di ricorso. Quest’ultimo è inammissibile in quanto privo del requisito dell’autosufficienza.

Ed infatti, come esposto nella sentenza di appello, il (...) veniva sentito nel giudizio di primo grado, in sede di interrogatorio libero, all’udienza del 23 novembre 2007.

Il Tribunale attribuiva a quanto riferito dal (...) e cioè di aver corrisposto quale partecipazione agli utili l’importo di euro 31.921,61, valore confessorio.

Tale statuizione veniva censurata in appello dal (...) e il giudice di secondo grado, proprio perché le dichiarazioni in questione venivano rese in sede di interrogatorio libero, riteneva, correttamente, che alle stesse non poteva che attribuirsi mero valore indiziario.

L’odierno ricorrente nel dedurre che era intervenuto interrogatorio formale, il cui esito, la confessione, ha valore di prova legale, non riproduce gli atti o i verbali di causa con il deferimento dello stesso e il relativo espletamento, con conseguente inammissibilità della censura che non contiene in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro cento per esborsi, euro tremila per compensi professionali, oltre accessori di legge.