Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 01 dicembre 2015, n. 24424

Previdenza - Penzione aziendale - Calcolo - Computo dell’indennità di incentivazione - Differenze pensionistiche spettanti al de cuius

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 198/2006 il Tribunale di Napoli rigettava la domanda proposta da L.S. nei confronti di A. s.p.a. e di A. - Azienda Speciale in liquidazione, volta ad ottenere il computo della indennità di incentivazione, prevista dall’accordo sindacale del 2-9-1971, nella base di calcolo della pensione aziendale, e la condanna delle convenute al pagamento delle relative differenze pensionistiche.

Avverso la detta sentenza proponevano impugnazione principale il L. ed incidentale le Aziende, e la Corte d’Appello di Napoli con sentenza 10-3/28-4-2009, accoglieva la domanda e condannava le Aziende, in solido, al pagamento, in favore di C.G., L.B. M. e L.L., quali eredi di L.S., costituitisi in giudizio a seguito del decesso del loro congiunto, al pagamento delle differenze pensionistiche spettanti al de cuius.

In sintesi la Corte territoriale rilevava che l’indennità di incentivazione, quale elemento fisso e continuativo della retribuzione, doveva essere computata nel trattamento pensionistico aziendale ai sensi dell’art. 30 d.l. n. 55/1983, conv. nella L. n. 131/1983, che aveva equiparato dal 1-1-1987 i criteri di determinazione della base di calcolo di tale trattamento al sistema pensionistico della CPDEL. La Corte aggiungeva che l’indennità in questione era disciplinata dal Reg. org. dell’Azienda del 22-9-1945 e dai successivi accordi sindacali e relative delibere di ratifica, e che, con delibera n. 185/1975 della Commissione amministratrice si era dato atto esplicitamente del carattere definitivo dell’indennità stessa, corrisposta ininterrottamente dall’aprile 1972.

Per la cassazione della detta sentenza le Aziende proponevano ricorso con quattro motivi.

Gli intimati resistevano con controricorso.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 1926 del 29-1-2014, rigettava il ricorso e compensava le spese.

Avverso la detta sentenza hanno proposto ricorso per revocazione la ABC Acqua Bene Comune Napoli - Azienda Speciale, già A. s.p.a, e l’A. Azienda Speciale con un unico motivo.

C.G. e L.L. hanno resistito con controricorso. L.B. M. è rimasto intimato.

Infine l’ABC Acqua Bene Comune Napoli - Azienda Speciale, da un lato, e C.G. e L.L., dall’altro, hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

 

Con l’unico motivo le Aziende ricorrenti, dopo aver riportato il contenuto della delibera 404 del 1987 e il motivo del ricorso per cassazione proposto nel giudizio r.g. n. 11489/2010, conclusosi con la sentenza impugnata in questa sede, premesso che il L.S. è stato posto in quiescenza il 1-5-1986, sostengono che la detta sentenza "non ha considerato il motivo di ricorso come proposto né il quesito di diritto formulato né il fatto storico concretizzato dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, limitando la propria decisione all’affermazione della decorrenza degli effetti derivanti dallo stesso atto amministrativo dall’1-1-1987, in luogo della data di approvazione".

Secondo le ricorrenti "la mancata disamina dello specifico motivo e della peculiarità del fatto, costituente presupposto della controversia (data di collocamento in quiescenza del L.) ha condotto alla affermazione erronea della sussistenza di presupposto per il rigetto del motivo di ricorso e, conseguentemente, della conferma della fondatezza delle pretese formulate dal L.", laddove, ove la Corte avesse, per contro, compiutamente esaminato il motivo di ricorso" sarebbe pervenuta all’accoglimento dello stesso, "così come già ritenuto in altre pronunce".

Osserva il Collegio che il vizio denunciato non costituisce errore di fatto di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c..

La detta norma, infatti, richiamata, quanto alle sentenze emesse dalla Corte di Cassazione, dall'art. 391 bis cpc, prevede la revocazione "4) se la sentenza è l'effetto dì un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare".

Nell’interpretare tale disposizione questa Corte ha più volte affermato che "con riferimento alle sentenze emesse dalla S.C., l'errore di fatto idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395 n. 4 cod. proc. civ. deve: 1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente e immediatamente rilevabile e tale da aver indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto né in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo; 6) riguardare gli atti interni, cioè quelli che la Corte esamina direttamente, con propria autonoma indagine di fatto, nell'ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d'ufficio, e avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza della S.C., perché, se invece l'errore è stato causa determinante della decisione di merito, in relazione ad atti o documenti che ai fini della stessa sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati, il vizio che inficia la sentenza dà adito agli specifici mezzi di impugnazione esperibili contro le sentenze di merito." (v. Cass. 20-4-2005 n. 8295, cfr., fra le altre, Cass. 3-2-2006 n. 2425, Cass. 14-2-2007 n. 3264, Cass. S.U. 29-11-2013 n. 26777).

Con riferimento, in particolare, all'omessa pronuncia da parte della Corte di Cassazione su un motivo di ricorso è stato, poi, più volte chiarito che l'unico mezzo di impugnazione esperibile avverso la relativa sentenza è, ai sensi dell'art. 391 bis c.p.c., e art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, la revocazione per l'errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità, errore che presuppone l'esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l'altra dagli atti e documenti di causa, (v. Cass. 21-7-2011 n. 16003, Cass. 20-11-2009 n. 24512). Nel contempo è stato, però, anche precisato che in tema di revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione, configurabile solo nelle ipotesi in cui essa sia giudice del fatto ed incorra in errore meramente percettivo, non può ritenersi inficiata da errore di fatto la sentenza della quale si censuri la valutazione di uno dei motivi del ricorso ritenendo che sia stata espressa senza considerare le argomentazioni contenute nell'atto d'impugnazione, perché in tal caso è dedotta un’errata considerazione e interpretazione dell'oggetto di ricorso, (v. Cass. 12-5-2011 n. 10466). Del resto è stata costantemente esclusa la configurabilità dell'errore revocatorio quando la decisione della Corte sia conseguenza di una pretesa errata valutazione od interpretazione dei motivi di ricorso (v. fra le altre Cass. 15-5-2002 n. 7064, Cass. 28- 6-2005 n. 13915) ovvero quando vengano dedotti errori di giudizio concernenti i motivi di ricorso esaminati dalla sentenza della quale è chiesta la revocazione (v. Cass. 9-12-2013 n. 27451, Cass. 15-6-2012 n. 9835), così come è stata esclusa in ogni caso, la prospettabilità di una revisione di questioni già precedentemente sollevate e decise, sollecitandosi, in sostanza, un inammissibile riesame del precedente giudizio di cassazione (v. fra le altre Cass. 21-4-2006 n. 9396).

In definitiva, quindi, l'errore, in tal caso, per essere meramente percettivo, deve cadere effettivamente sull'esistenza (o sull'inesistenza) di un motivo di ricorso, e non anche sulla interpretazione o valutazione dello stesso (v. Cass. S.U. n. 26777/2013 cit., cfr. fra le altre Cass. 13-1-2010 n. 362). Ove, infatti, "il ricorrente deduca, sotto la veste del preteso errore revocatorio, l'errato apprezzamento da parte della Corte di un motivo di ricorso - qualificando come errore di percezione degli atti di causa un eventuale errore di valutazione sulla portata della doglianza svolta con l'originario ricorso - si verte in un ambito estraneo a quello dell'errore revocatorio" (v. Cass. 4-3-2009 n. 5221).

Orbene nel caso in esame le ricorrenti seppure lamentano che la sentenza Quest’ultima, infatti, ha respinto il quinto motivo di ricorso - con il quale le ricorrenti, denunciando violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., avevano ribadito la "inapplicabilità della delibera n. 104/87 al L., aggiungendo che l’equiparazione della base imponibile dianzi indicata decorreva, per espressa previsione della stessa delibera, dal 1-1-1987, data questa successiva a quella di collocamento a riposo del L." - affermando la applicabilità della citata delibera anche ai dipendenti già in quiescenza.

In sostanza, quindi, l’errore che le ricorrenti lamentano in questa sede non solo cade su un punto controverso sul quale la Corte si è già pronunciata, ma in effetti prospetta un errore di giudizio (e non di fatto), non meramente percettivo, bensì, in sostanza di apprezzamento e di valutazione del relativo motivo di ricorso, esaminato.

Peraltro, come hanno evidenziato le controricorrenti, la circostanza di fatto del collocamento a riposo del L. in epoca anteriore alla approvazione della delibera citata è stata esattamente percepita dalla Corte, la quale è pervenuta alla decisione proprio in ragione della affermata applicabilità della delibera stessa anche al personale già in quiescenza.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile e le ricorrenti, in base alla soccombenza, vanno condannate al pagamento delle spese in favore delle controricorrenti, con attribuzione al difensore per dichiarato anticipo. Non deve, peraltro, provvedersi sulle spese nei confronti di L.B. M. che non ha svolto attività difensiva.

Infine, trattandosi di ricorso notificato successivamente al termine previsto dall’art. 1, comma 18, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della citata legge n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna le ricorrenti a pagare alle controricorrenti le spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali e accessori di legge, con attribuzione all’avv. G.P.; nulla per le spese nei confronti di L.B. M. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.