Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 25 novembre 2015, n. 24024

Tributi - Imposta sui redditi - Contratti di management risk di natura aleatoria - Pagamento di rilevanti importi ad una società estera a garanzia di rischi di dubbia esigibilità - Abuso del diritto - Carenza di motivazione della sentenza di merito

 

Svolgimento del processo

 

La controversia concerne l'impugnazione da parte della società contribuente di avvisi di accertamento per IRES, IRAP e IRPEG per gli anni dal 2004 al 2008 e della successiva conseguente cartella di pagamento. L'attività accertativa prendeva origine dall’arresto di un notaio svizzero nel cui computer erano stati rinvenuti files relativi anche alla società contribuente in ordine alla sottoscrizione di contratti di cointeressenza e partecipazione predisposti al supposto fine di contabilizzare formalmente costi per la riduzione degli utili da sottoporre a tassazione.

La società contribuente eccepiva la nullità della cartella per carenza di motivazione e per intervenuta decadenza ex art. 17, comma 1, d.P.R. n. 602 del 1973, nonché per violazione del principio della trasparenza in ordine al calcolo degli interessi e dei compensi di riscossione: contestava, riguardo agli avvisi di accertamento, la violazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, 3, L. n. 241 del 1990 e 7, L. n. 212 del 2000, oltre ad eccepire l’inutilizzabilità e inopponibilità degli atti acquisiti presso il notaio svizzero e metteva in risalto che i contratti sottoscritti erano comunque legittimi, mentre restava indimostrata l'incidenza dei costi. Resistevano il concessionario e l’amministrazione che eccepivano tra l'altro il reciproco difetto di legittimazione passiva.

La Commissione adita, riuniti i ricorsi, li rigettava, condannando la società contribuente alle spese nei confronti dell’Ufficio, In sede di appello si riproponevano sostanzialmente le posizioni assunte dalle parti nel precedente grado di giudizio; in via incidentale, l'amministrazione insisteva sul proprio difetto di legittimazione passiva in ordine alle eccezioni relative alla cartella di pagamento. La Commissione regionale, con la sentenza in epigrafe, rigettava l'appello principale della società contribuente e confermava integralmente la sentenza di prime cure: condannava la società contribuente alle spese del grado nei confronti dell’Ufficio e del concessionario.

Avverso tale sentenza, la società contribuente propone ricorso per cassazione con tre motivi. Resistono con controricorso l'Agenzia dell’entrate e il concessionario (...) S.p.A., già (...) S.p.A.

 

Motivazione

 

Con il primo motivo, la società ricorrente denuncia sotto il profilo del vizio di violazione di legge e sotto il profilo del vizio di motivazione il capo della sentenza impugnata relativo alla riconosciuta legittimità della cartella, evidenziandone la supposta erroneità per la non conformità della cartella stessa ai requisiti della sufficiente motivazione, alla violazione del principio di trasparenza circa il calcolo degli interessi c dei compensi di riscossione e ribadendo l'accezione di decadenza ex art. 17, d.P.R. n. n. 602 del 1973.

La censura non è fondata per quanto attiene al supposto difetto di motivazione della cartella, trattandosi di cartella emessa sulla base di un avviso di accertamento già notificato e, peraltro, già impugnato dalla società contribuente; sicché basta a sorreggerne la motivazione il richiamo all’avviso di accertamento presupposto (v. Cass. S.U. n. 11722/10, Cass. n. 11466/11, Cass. n. 2372/13), richiamo che non c contestato vi fosse riportato.

La censura è invece fondata per quanto attiene al difetto di motivazione della sentenza impugnata sul punto relativo al principio di trasparenza sul calcolo degli interessi e dei compensi di riscossione: il giudice a quo si limita sul punto a dire che la cartella contiene tutte le indicazioni previste dalla normativa vigente circa "il calcolo degli interessi e la determinazione dèi compensi che competono all’Esattore", senza precisare quali siano le indicazioni alle quali egli fa riferimento e quali siano le ragioni per le quali il giudice stesso ha ritenuto che in merito fosse stata osservata la non meglio identificata "normativa vigente". Si tratta di una motivazione apodittica e sostanzialmente apparente.

Nessuna specifica censura è, invece, articolata nel motivo in esame in ordine alla supposta decadenza dell’amministrazione dal potere di riscossione, sicché non può darsi ingresso all’esame della relativa questione.

Con il secondo motivo, la società ricorrente censura sotto il profilo del vizio di violazione di legge e sotto il profilo del vizio di motivazione quanto affermato dal giudice a quo in ordine alla eccepita carenza di motivazione degli avvisi di accertamento.

In proposito occorre considerare che gli avvisi di accertamento in questione sono basati su di un processo verbale di verifica noto alla società contribuente. Orbene se, da un lato, tale circostanza può far ritenere, secondo il costante orientamento di questa Corte, sufficiente il rinvio al suddetto processo verbale a sorreggere la motivazione dell’atto impositivo, dall'altro, occorre rilevare che la motivazione della sentenza impugnata è sul punto decisamente incongrua ad esplicitare le ragioni della decisione.

Afferma, infatti, il giudice a quo, che "l’Ufficio, pur riprendendo il percorso logico-giuridico esposto nei pvc, ha elaborato e articolato una propria valutazione che ha portato ad una esauriente ricostruzione del reddito e ha configurato e quantificato, in modo altrettanto sufficiente, le sanzioni che si ritenevano di applicare, consentendo, come del resto è avvenuto, alla società contribuente di difendersi compiutamente su tutti i rilievi mossi". Si tratta ancora una volta di una motivazione apodittica costruita con inspiegati giudizi di valore - "esauriente", "sufficiente", "compiutamente" - che pretendono, invece, una presupposta spiegazione, nel caso non data, del perché una "ricostruzione del reddito" sia "esauriente", perché una "quantificazione delle sanzioni" sia "sufficiente", perché una difesa possa dirsi consentita "compiutamente".

Quest’ultimo punto, peraltro, sembra voler far propria quella lesi che giustifica la sufficienza della motivazione dell’atto impositivo - al quale si riconosca il carattere di provocatio ad opponendum - dalla circostanza che il contribuente abbia potuto svolgere le proprie difese. Ma questa è una visione riduttiva del ruolo della motivazione, che pur leggendolo in funzione dell'esercizio del diritto di difesa, finisce per legittimare un possibile, ma inammissibile, giudizio ex post della sufficienza della motivazione argomentata dalla difesa comunque svolta in concreto dal contribuente, piuttosto che un giudizio ex ante argomentato sulla rispondenza degli elementi enunciati nella motivazione a consentire ex se l’esercizio effettivo del diritto di difesa. In realtà, l’obbligo di motivazione dell’atto impositivo "persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all'interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa" (Casa. 12 luglio 2006, n. 15842; v. in senso conforme Cass. 27 novembre 2006, n. 25064; Cass. 30 ottobre 2009, n. 23009).

Deve, pertanto, ritenersi fondata la censura per vizio di motivazione della sentenza impugnata sul capo relativo alla valutazione della sufficienza della motivazione dell’atto impositivo.

Con il terzo motivo, la società contribuente denuncia sotto il profilo del vizio di violazione di legge e del vizio di motivazione quanto affermato dal giudice di merito in ordine alla ricostruzione, sotto vari aspetti e con riferimento alle diverse eccezioni sollevate dalla società contribuente, della fattispecie esaminata in giudizio.

Il motivo è fondato. La motivazione della sentenza impugnata si risolve sostanzialmente nella seguente considerazione; "non si capisce la logica economica, commerciale o di mercato che avrebbe indotto la società appellante a sottoscrivere i contratti di management risk di natura aleatoria che comportavano il pagamento di rilevanti importi ad una società estera a garanzia di rischi di dubbia esigibilità con evidenti margini di indeterminatezza e di controvertibilità tali da rendere assolutamente improbabile qualsiasi azione di recupero in caso si fossero effettivamente registrate le perdite gestionali che sottendevano assicurare. E’ evidente, pertanto, la natura prettamente elusiva dei contratti sopraindicati e dell’abuso del diritto perpetuato (sic) a prescindere dal fatto che le somme versale siano in realtà rientrate nella disponibilità della società appellante a mezzo i versamenti operati sul conto corrente del suo legale rappresentante dell’epoca".

La "premessa" di siffatta conclusione è, nel ragionamento del giudice d'appello, costituita da: a) "il divieto dell’abuso del diritto nasce dal principio generale del diritto comunitario ... e si concretizza nel disconoscere effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali"; b) "l’onere della prova a dimostrare l'esistenza di ragioni economiche che giustificano le operazioni ritenute elusive, compete al contribuente" (prova che, quest’ultimo, nel caso di specie non avrebbe dato); c) "l'abuso del diritto può essere rilevato d'ufficio dal Giudice" (ciò giustificherebbe la mancanza di ultrapetizione della decisione adottata, nonostante che l’Ufficio non avesse mosso una specifica contestazione di elusività dell’operazione posta in essere dal contribuente).

Orbene è certamente vero che secondo il consolidato orientamento di questa Corte, "la fattispecie dell’abuso del diritto e la sua valutazione da parte del giudice nazionale rappresenta un principio generale vigente nel l'ordinamento italiano, con radici comunitarie e costituzionali (art. 53 Cost.), che non trova di per sé ostacolo nella mancata allegazione di tale situazione da parte dell’Amministrazione finanziaria e può quindi essere rilevato d’ufficio in sede giurisdizionale" (Cass.. n. 5380 del 2015). Tuttavia, altrettanto consolidato è l’orientamento secondo cui "in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l'operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe, sul l'Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale" (Cass. n. 4603 del 2014).

Ma non basta. La fattispecie dell’abuso del diritto nel nostro ordinamento non opera tout court nel caso di accertamento che concernano la materia delle imposte sui redditi (come c nel caso di specie). In tale materia occorre tener conto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il legislatore, con l’art. 37-bis, d.P.R. n. 600 del 1973, ha scelto di "tipizzare la figura dell’abuso del diritto convogliandola su specifici elementi caratterizzanti e determinate operazioni negoziali, in assenza dei quali non sono configurabili (si ripete nella materia delle imposte sui redditi) altre ipotesi (atipiche) di pratiche abusive: l’intento legislativo è stato, infatti, quello di ridurre quanto più possibile, in una materia - quella dei tributi diretti - di particolare rilevanza fiscale e nella quale non operano vincoli comunitari, il margine di errore valutativo nell’attività di accertamento degli Uffici finanziari, avuto riguardo alla notevole elasticità dei margini interpretativi del fenomeno negoziale altrimenti consentita dalla stessa indeterminatezza della nozione di "abuso del diritto" e degli elementi che lo caratterizzano, rispondendo pertanto l’intervento normativo alla esigenza (1) di limitare il rischio di una indiscriminata applicazione della figura dell’abuso del diritto a qualsiasi fattispecie negoziale (con il conseguente rischio di frequenti ed inevitabili valutazioni contraddittorie di una medesima fattispecie negoziale compiute dai diversi Uffici), evitando la insorgenza dì controversie tributarie su accertamenti fiscali che potrebbero presentare elevati rischi di alcatorietà per l’Ufficio finanziario, nonché (2) di evitare che i contribuenti vengano ad essere sottoposti ad inutili e complessi accertamenti fiscali, a discapito di altre - e più utili - in termini di risultati conseguibili attività di verifica e controllo" (Cass. n. 405 del 2015). Ciò significa che l’indagine per la valutazione della fattispecie "abuso del diritto" non può fermarsi all’affermazione del principio astratto, cui si riferisce il primo comma dell’art. 37 bis, d.P.R. n. 600 del 1973, ma occorre che venga identificala anche la specifica ipotesi di "pratica abusiva", tra quelle indicate nel terzo comma della medesima disposizione, che eventualmente ricorra nel caso di specie.

Nulla di tutto ciò emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, la quale in modo sostanzialmente apodittico colloca, ex officio, la fattispecie nel generale quadro del c.d. "’abuso del diritto", nonostante l'Ufficio non abbia dedotto l’antieconomicità delle operazioni contestate e soprattutto senza che l'Ufficio medesimo abbia dato prova, come era suo onere, del disegno elusivo, nonché delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica dì mercato ed utilizzati solo per pervenire al risultato di conseguire un indebito perché tale ne deve essere la natura - risparmio fiscale. In buona sostanza il giudice a quo ritiene provato quel che l'Ufficio avrebbe dovuto provare e nemmeno ne dà una congrua e convincente spiegazione.

Per tali considerazioni il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale del Veneto, che provvederà anche in ordine alle spese della presente fase del giudizio.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale del Veneto.