Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 novembre 2015, n. 23966

Contratto a termine - Nullità - Risoluzione per mutuo consenso - Insussistenza dei presupposti

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 19/1/06 il Giudice del lavoro del Tribunale di Grosseto accoglieva la domanda proposta da M.A. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 30/12/97 al 31/1198 per "esigenze eccezionali...".

Detta pronuncia veniva confermata dalla Corte d'Appello di Firenze con sentenza depositata il 25/6/09, che respingeva l'appello proposto dalla società essenzialmente sul rilievo della mancata dimostrazione da parte della stessa, del rispetto del limite di contingentamento fissato dalle parti sociali e della insussistenza dei presupposti per la declaratoria di risoluzione del rapporto inter partes in ragione del mutuo consenso.

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi corredati da quesiti di diritto ed illustrati da memoria ex art.378 c.p.c. L'intimata non ha svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo mezzo di impugnazione, la società ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 1372, I comma, c. c., ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, assumendo l'erroneità della decisione in ordine all'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Il motivo è privo di fondamento.

1.2. Deve rilevarsi come questa Corte abbia più volte affermato il principio alla cui stregua "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (vedi, ex plurimis, Cass. 31-3-15 n.6549, Cass. 13-8-14 n.17940, Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

1.3 Nella specie la Corte d'Appello ha osservato, con motivazione esente da vizi di ordine logico, e corretta sul piano giuridico, che il decorso del tempo è solo uno dei possibili elementi oggetto della indagine giudiziale, cui devono aggiungersi elementi positivi ed univoci che obiettivamente depongano per l'avvenuto scioglimento del contratto.

Ha, quindi, rimarcato che la società Poste Italiane "avrebbe dovuto dedurre e chiedere di provare l'evenienza di quegli elementi ulteriori - rispetto al mero trascorrere del tempo - che, secondo la giurisprudenza di legittimità concretano un comportamento concludente indicativo della volontà di sciogliere definitivamente il rapporto. In difetto assoluto di allegazione e conseguentemente di prova di tali circostanze, l'eccezione va disattesa".

La statuizione emessa dalla Corte territoriale, in quanto sorretta da congrua motivazione e coerente con i dicta giurisprudenziali emessi sulla delibata questione, si sottrae alla critica formulata che va, pertanto, respinta.

2. Con il secondo motivo la ricorrente critica la sentenza impugnata perché nell'affermare l'illegittimità del contratto a termine per violazione della quota numerica prevista dall'art. 8 ccnl 26-11-94, ha ritenuto che l'onere di fornire la prova in proposito incombeva sulla società anziché sulla lavoratrice, la quale aveva dedotto l'illegittimità del contratto.

Il motivo non merita accoglimento.

2.1 Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, "nel regime di cui alla legge 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall'art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l'indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell'apposizione del termine nei contratti stipulati in base all'ipotesi individuata ex art. 23 citato, l'indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L'onere della prova dell'osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui all'art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro." (v. Cass. 19-1-2010 n. 839 e numerose successive).

E nella specie, tale dimostrazione non risulta fornita. Va pertanto respinto detto secondo motivo.

3. Con il terzo mezzo di impugnazione, calibrato in ordine alle richieste economiche sotto il profilo della violazione di legge la società deduce che nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la prova dell'effettivo danno subito, e che neppure vi sarebbe stata una concreta offerta della prestazione con conseguente mora accipiendi del datore di lavoro.

Tale motivo risulta del tutto generico e astratto (così come, peraltro, il relativo quesito conclusivo formulato ex art. 366 bis applicabile ratione temporis, cfr. fra le altre Cass. 21-2-2012 n. 2499, 2615/2012, 12954/2012, 15461/2012, 1211/2013, 3819/2013, 18735/2013) nonché privo di autosufficienza.

Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha confermato la pronuncia di prime cure di condanna della società al pagamento della retribuzione maturata dalla messa in mora (tentativo obbligatorio di conciliazione), la ricorrente censura tale decisione in modo assolutamente generico, senza riportare il testo dell'atto che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato la offerta della prestazione e la messa in mora.

La ricorrente censura poi la sentenza per non avere tenuto conto dell'eccezione di aliunde perceptum formulata nel giudizio di merito, e per avere omesso i giudici del gravame, di attivare i doverosi poteri istruttori ex art. 421 c.p.c.

Il motivo, così riassunto, conclude poi con la formulazione di un quesito più volte ritenuto inidoneo ed inammissibile da questa Corte (v. fra le numerose altre Cass. 10-1-2011 n. 325).

Del resto anche la relativa censura risulta assolutamente generica e priva di autosufficienza, non essendo riportati i termini né i tempi entro i quali abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum.

Così risultato inammissibile, in specie, l'ultimo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall'art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest'ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto.

Nessuna statuizione va emessa in relazione alle spese del presente giudizio di cassazione, non avendo l'intimata svolto attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.