Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE- Sentenza 23 novembre 2015, n. 23863

Lavoro - Dipendenti postali - Contratto a termine - Nullità - Sussistenza di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato

Svolgimento del processo

Con sentenza pubblicata l'8.6.09 la Corte d'appello di Venezia rigettava il gravame di Poste Italiane S.p.A. contro la sentenza n. 522106 con cui il Tribunale della stessa sede, dichiarata la nullità del termine apposto al primo contratto di lavoro intercorso tra P.T. e la suddetta società nel periodo 6.11.2000 - 24.1.2001, aveva accertato l'esistenza fra le parti d'un rapporto lavorativo a tempo indeterminato dal 6.11.2000, con condanna di Poste Italiane S.p.A. a corrispondere alla lavoratrice le retribuzioni maturate dalla messa in mora accipiendi (17.2.05) fino alla riammissione in servizio, detratto l'aliunde perceptum.

Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a dieci motivi.

L'intimata resiste con controricorso.

Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1 - Il primo motivo denuncia nullità della sentenza e/o del procedimento in connessione con l'art. 112 c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso di pronunciare sull'eccezione di intervenuta cessazione della materia del contendere in ordine alla questione della riammissione in servizio della lavoratrice, che dopo la pronuncia di prime cure aveva espressamente rinunciato al ripristino del rapporto con la società.

Il motivo è infondato per l'assorbente rilievo che la declaratoria di cessazione della materia del contendere presuppone che il fatto sopravvenuto abbia totalmente eliminato la materia della lite, facendo venir meno le ragioni stesse del contrasto tra le parti e, con ciò, l'interesse ad agire e a contraddire e la conseguente necessità di una pronuncia del giudice sull'oggetto della controversia, nel senso che - per l'attore - è necessario che la situazione sopravvenuta soddisfi in modo pieno e irretrattabile il diritto esercitato, così da non residuare alcuna utilità alla pronuncia di merito (in questo senso v. Cass. 20.3.2009 n. 6909; Cass. 21.2.2007 n. 4034).

Al contrario, nella vicenda processuale in esame permane un'indubbia utilità, per la controricorrente, della conferma della statuizione di merito che, dichiarando la nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato il 6.11.2000, ha condannato Poste Italiane S.p.A. a pagare le retribuzioni maturate dal 9.8.04.

Ovviamente, resteranno escluse le retribuzioni successive alla data delle dimissioni.

Non solo: non può farsi luogo a declaratoria di cessazione della materia del contendere per sopravvenuta carenza di interesse delle parti se non quando i contendenti si diano reciprocamente atto dell'intervenuto mutamento della situazione e sottopongano al giudice conclusioni conformi (espressamente in tal senso v., ex aliis, Cass. 8.11.2007 n. 23289; Cass. 22.12.2006 n. 27460; Cass. 22.5.2006 n. 11931; Cass. S.U. 26.7.2004 n. 13969; Cass. 24.6.2000 n. 8607), il che non è avvenuto nel caso in esame.

2- Con il secondo motivo il ricorso denuncia nullità della sentenza e/o del procedimento in connessione con l'art. 112 c.p.c. e l'art. 1372 c.c., per non avere la Corte territoriale pronunciato sull'eccezione - coltivata anche in appello - di risoluzione del contratto per mutuo consenso ravvisabile in fatti concludenti costituiti, nel caso di specie, nell'avere la lavoratrice lasciato decorrere circa tre anni dalla cessazione del rapporto prima di agire in giudizio.

Il motivo va disatteso per l'assorbente rilievo dell'infondatezza dell'eccezione relativa alla risoluzione per mutuo consenso.

Invero, la giurisprudenza di questa S.C. - cui va data continuità - è ormai consolidata nello statuire che nel rapporto di lavoro a tempo determinato la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a far ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Affinché possa configurarsi una tale risoluzione è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, tenuto conto, altresì, del fatto che l'azione diretta a far valere l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l'assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex artt. 1418 e 1419 cpv. c.c., per sua natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege deI rapporto cui era stato apposto illegittimamente il termine (cfr., ex aliis, Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. 1.2.2010 n. 2279).

Ed ancora, afferma Cass. n. 9583/2011 che grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l'onere di provare le circostanze da cui ricavare la volontà chiara e certa delle parti far cessare definitivamente ogni rapporto di lavoro (v., sempre in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).

Tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all'esame di questa S.C., ritenuto giuridicamente corretta l'affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non è sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.

Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: "D'altra parte, come è noto, l'azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l'assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell'art. 1422 cc., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sé solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15112/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824). Comunque, consentendo l'ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l'azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l'estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell'imprescrittibilità dell'azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l'esercizio del diritto o dell'azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa delle parti di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). È, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell'112/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 617/2007)." (v., altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).

Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o, comunque, a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Né è indicativa d'un intento risolutorio la condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque a cercare un'occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione) o abbia accettato il pagamento del TFR, trattandosi di comportamenti non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dall'illegittima apposizione del termine.

3- Con il terzo e il quarto motivo il ricorso denuncia vizio di motivazione in quanto la sentenza impugnata avrebbe dapprima riconosciuto e, poi, negato la pienezza dell'autonomia delle parti sociali di fronte alla delega ex art. 23 legge n. 56/87, non considerando che la delega loro conferita ex lege non incontra limiti, neppure di durata.

I due motivi (da esaminarsi congiuntamente perché connessi) sono inammissibili vuoi perché si collocano all'esterno dell'area dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. - in quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacché quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 ult. co c.p.c.), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire - vuoi perché risultano sforniti del momento di sintesi del fatto controverso e decisivo, necessario ex art. 366-bis c.p.c. (applicabile ratione temporis, nel caso di specie) per circoscriverne puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 1°.10.07 n. 20603; Cass. Sez. III 25.2.08 n. 4719; Cass. Sez. III 30.12.09 n. 27680).

4- Con il quinto, sesto e settimo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 legge n. 230/62, 23 legge n. 56/87 e dei vari accordi collettivi succedutisi tra il 26.11.94 e il 18.1.2001, nonché vizio di motivazione, avendo la gravata pronuncia erroneamente ritenuto che essi prevedessero un limite temporale alle assunzioni a termine pur essendosi le parti collettive dato reciprocamente atto del perdurare delle esigenze aziendali che consentivano la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato.

I tre motivi - da esaminarsi congiuntamente perché connessi - sono infondati.

L'impugnata sentenza non ha affatto statuito la necessità di un qualche limite temporale alla possibilità di assunzione a termine, ma ha semplicemente attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto di lavoro in oggetto è stato stipulato - ai sensi dell'art. 8 CCL 26.11.94, come integrato dall'accordo aziendale 25.9.97 - in data successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno la copertura autorizzatoria prevista dalla stessa autonomia collettiva.

Tale considerazione - in base all'indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCL del 2001 e al d.lgs. n. 368/2001) - è sufficiente a sostenere l'affermata nullità del termine apposto al contratto de quo.

A tale riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588 è stato precisato che l'attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 legge n. 56/87, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230/62, discende dall'intento del legislatore di considerare l'esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l'unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all'autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063; cfr., altresì, Cass. 20.4.2006 n. 9245; Cass. 7.3.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).

Ove però - come accaduto nel caso di specie - un limite temporale (quello del 30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v., ex allis, Cass. n. 316/2011; Cass. 23.8.2006 n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745; Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l'accordo sindacale del 25.9.97, integrativo dell'art. 8 CCL 26.11.94, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16.1.98, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell'ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30.4.98; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine avvenute dopo il 30.4.98, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l'ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti in contratti a tempo indeterminato, in forza dell'art. 1 legge n. 230/62 (cfr., ex aliis, Cass. n. 316/2011, cit.; Cass. 1.10.2007 n. 20608; Cass. 28.1.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008 n. 21062; Cass. 27.3.2008 n . 7979; Cass. n. 18376/2006).

In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la statuita declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, il che assorbe ogni ulteriore argomentazione a riguardo svolta nel motivo in esame.

Quanto all'accordo 18.1.2001, esso è irrilevante nel caso di specie perché successivo alla stipula del primo contratto a termine invalidamente pattuito.

5- Con l'ottavo motivo il ricorso denuncia violazione dell'art. 23 legge n. 56/87, dell'art. 8 CCL 26.11.94, dell'accordo integrativo 25.9.97, degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., per avere la gravata pronuncia ritenuto che la società ricorrente avrebbe dovuto provare non solo l'effettività dell'esigenza di ristrutturazione sul piano generale, ma anche l'incidenza del processo riorganizzativo sull'unità produttiva cui era stata addetta la lavoratrice.

Il motivo è inammissibile sia perché censura una mera motivazione ad abundatiam operata dalla gravata pronuncia sia perché comunque superato dalla sopra evidenziata nullità del termine in quanto apposto dopo la data del 30.4.98.

6- Con il nono motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli arti 1206, 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099 c.c., perché la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine all'effettiva messa in mora del datare di lavoro, e formula il seguente quesito di diritto: "Se, per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore - a seguito dell'accertamento giudiziale dell'illegittimità del contratto a termine stipulato - ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all'art. 1206 e segg. cod. civ."

Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere con il decimo motivo, sotto forma di vizio di motivazione.

Il nono motivo è inammissibile perché si risolve nell'enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v., fra le altre, Cass. 4.1.2011 n. 80). Infatti, il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base a consolidata giurisprudenza di questa Corte deve essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass. S.U. 5.1.07 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto, è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l'errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30.10.2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7.4.2009 n. 8463).

Né può ignorarsi che, nella specie, anche l'illustrazione del motivo risulta generica perché non chiarisce per quale ragione non costituirebbe rituale offerta della prestazione lavorativa (come, invece, ritenuto in sede di merito) quella evincibile dalla lettera di attivazione del tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c.

Quanto al vizio di motivazione dedotto con il decimo motivo, esso è inammissibile per mancanza del prescritto momento di sintesi.

7- L'inammissibilità degli ultimi due motivi assorbe la questione, ventilata da Poste Italiane S.p.A. in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., relativa all'eventuale incidenza, nella vicenda in esame, del sopravvenuto art. 32, commi 5, 6 e 7, legge 4.11.2010 n. 183: peraltro, per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso è necessario non solo che quest'ultima sia pertinente alle questioni oggetto di censura (in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso: cfr. Cass. 8.5.2006 n. 10547; Cass. 27.2.2004 n. 4070), ma anche che il motivo investa il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta (il che non si verifica nel caso odierno poiché gli ultimi due motivi di impugnazione sono, appunto, inammissibili).

8- In conclusione il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione ex art. 93 c.p.c. in favore dei difensori, antistatari.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in curo 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, spese da distrarsi in favore degli avv.ti B.C. e S.B., antistatari.