Giurisprudenza - TRIBUNALE DI ROMA - Sentenza 30 settembre 2015, n. 4245

Mansioni - Art. 2103 c.c. modif. dal D.Lgs. n. 81/2015 - Demansionamento - Illecito permanente - Valutazione

 

Svolgimento del procedimento

 

Con ricorso depositato l’11/2/15, P.E. conveniva in giudizio la Fondazione E., sua datrice di lavoro, formulando le seguenti conclusioni:

1) accertare e dichiarare l’illegittimità della Delibera Presidenziale n. 81 del 16 maggio 2014 e del successivo provvedimento attuativo del 20 maggio 2014 con i quali era stato disposto e attuato, il suo rientro dal distacco (disposto con delibera presidenziale del 29 marzo 2011) presso la E.R. Estate S.r.l., con contestuale assegnazione alla direzione dell’Area Assistenza e Servizi Integrativi presso la distaccante Fondazione E.;

2) accertare e dichiarare l’illegittimità del provvedimento datoriale del 24 giugno 2014 col quale era stato riformulato in qualità di quadro l’incarico di Coordinamento del gruppo lavorativo preposto alle attività inerenti gli studi, la ideazione, la possibile costituzione e la seguente gestione di un Fondo Sanitario Integrativo E. e anche in forma disgiunta dal Fondo stesso, della polizza sanitaria integrativa a favore degli iscritti;

3) accertare e dichiarare che le mansioni in concreto da lei svolte, a seguito e per effetto dei provvedimenti datoriali oggetto di impugnazione, a decorrere dal 14 gennaio 2015 non potevano ritenersi equivalenti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2103 c.c., a quelle precedentemente disimpegnate;

4) accertare e dichiarare l’illegittimità del comportamento datoriale, atteso che ella, a decorrere dal 20 maggio 2014, fino al 14 gennaio 2015, aveva subito una vera e propria sottrazione di mansioni, posto che la Polizza Sanitaria Integrativa di cui ella avrebbe dovuto occuparsi, di fatto, era divenuta operativa solamente nel mese di gennaio 2015, a distanza di nove mesi dal provvedimento di rientro dal distacco;

5) ordinare alla convenuta (previo annullamento dei provvedimenti sopra citati e oggetto di impugnazione) di ripristinare le mansioni in precedenza svolte e/o attribuire alla stessa mansioni equivalenti, ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui all’art. 2103 c.c.;

6) accertare e dichiarare il danno alla salute subito e subendo e condannare la controparte al relativo risarcimento alla salute nella misura non inferiore ad €. 50.00,00;

7) condannare la convenuta al risarcimento degli ulteriori danni di natura non patrimoniale: danno morale, danno all’immagine, alla dignità personale e professionale, nella misura ritenuta di giustizia;

8) condannare l’E. al risarcimento del danno da dequalificazione professionale nella misura ritenuta di giustizia.

La Fondazione E. si costituiva in giudizio e contestava la fondatezza del ricorso, del quale chiedeva il rigetto.

Il Giudice istruiva la causa escutendo tre testimoni ed acquisendo documentazione e all’odierna udienza, dopo la discussione, la decideva e dava lettura del dispositivo, pronunciando sentenza ai sensi dell’art. 429, primo comma, primo periodo, c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. - La ricorrente imputa alla resistente due diversi illeciti: il primo, consistente nell’aver disposto, nel maggio 2014, senza alcuna ragione organizzativa-produttiva e in violazione di buona fede e correttezza, il rientro dal distacco - disposto alcuni anni prima e, precisamente, nel marzo 2011 - presso la E.R. Estate s.r.l.; il secondo, consistente nella violazione dell’art. 2103 c.c., per averla lasciata praticamente inoperosa dal 20 maggio 2014 al 15 gennaio 2015 e, successivamente a quest’ultima data, per averle attribuito mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte presso la società distaccataria.

2. - Rispetto alla prima questione, ritiene il Tribunale che la convenuta, nel disporre il rientro dell’attrice dal distacco precedentemente disposto, non abbia violato alcuna norma.

In effetti, proprio perché, come pure ricorda la P. nel proprio ricorso, requisito di legittimità del distacco (peraltro per sua natura necessariamente temporaneo) è la sussistenza di un interesse del datore di lavoro a che il suo dipendente svolga la propria attività lavorativa a disposizione di altro soggetto, è evidente che, una volta che, sulla base di scelte imprenditoriali insindacabili nella presente sede, la parte datoriale ritenga che sia venuto meno il proprio interesse a che il dipendente lavori presso il terzo o che comunque sussista il proprio interesse a che lo stesso dipendente torni ad operare presso la sua azienda, ben possa essere disposta la cessazione del distacco.

E che la convenuta avesse un interesse a che la P. tornasse a lavorare presso di sé è ampiamente dimostrato dalle vicende successive al rientro della ricorrente. Infatti costei è stata destinata alla sostituzione di una collega che, di lì a pochi mesi, sarebbe dovuta andare in pensione; l’anticipo, rispetto alla data di pensionamento della collega, con il quale è stato disposto il rientro della P. si spiega agevolmente considerando che la ricorrente aveva necessità di impratichirsi del lavoro, per lei nuovo, oltre che per l’opportunità che ella fosse presente nella fase in cui si stava svolgendo la gara per il rinnovo della polizza assicurativa, procedura di affidamento che era nuova per la Fondazione (ed evidentemente destinata a ripetersi in futuro).

Né profili di illegittimità della condotta datoriale in esame possono essere desunti dalla constatazione che, tra i tanti dipendenti della Fondazione distaccati presso la s.r.l., solamente per la P. (o, eventualmente, come dedotto dalla resistente, solo per altri due lavoratori) sia stato disposto il rientro dal distacco. Infatti, una volta appurato che la cessazione del distacco nei confronti della ricorrente sia stata determinata da attendibili esigenze organizzative della datrice di lavoro, non v’è spazio per alcuna doglianza della lavoratrice circa il mancato coinvolgimento, nell’operazione di rientro, di altri colleghi pure in posizione di distacco, appunto perché nell’ordinamento non è rinvenibile alcuna norma che protegga un supposto interesse del lavoratore distaccato a che la parte datoriale proceda ad una sorta di valutazione comparativa tra tutti i dipendenti in posizione di distacco al fine di scegliere quella da far rientrare. Né, del resto, è possibile individuare i criteri sulla base dei quali una simile comparazione dovrebbe essere condotta. Quest’ultima considerazione vale anche ad escludere che un simile obbligo di comparazione sia desumibile dai generali canoni di buona fede e correttezza; ma comunque, rispetto a questi ultimi, vale anche la dirimente considerazione secondo la quale, ammesso e non concesso che essi vincolino la scelta datoriale di disporre il rientro di uno piuttosto che altro dipendente ed ammesso e non concesso che nella presente fattispecie essi sarebbero stati violati, resta pur sempre il fatto che la violazione di quei criteri non comporta l’invalidità dell’atto datoriale (ma solamente una valutazione della condotta della parte datoriale in termini di inadempimento contrattuale), con conseguente infondatezza di qualsiasi pretesa del dipendente di essere restituito alla posizione di distacco.

3. - Passando ora all’esame delle doglianze formulate dalla ricorrente circa il dedotto demansionamento subito a partire dal 20 maggio 2014, si rileva che, nelle note depositate in vista dell’udienza di discussione, la convenuta ha eccepito che, a seguito della modifica dell’art. 2103 c.c. disposta dal d.lgs. n. 81 del 2015, nessun demansionamento potrebbe essere riconosciuto in epoca successiva all’entrata in vigore della predetta novella con la conseguenza, da un lato, che nessun danno sarebbe configurabile a partire dal 25 giugno 2015 e, dall’altro, che non potrebbe comunque essere pronunciata la condanna della datrice di lavoro all’assegnazione di mansioni equivalenti a quelle svolte presso la società distaccataria.

Tale eccezione è fondata.

Com’è noto, l’art. 3 del citato d.lgs. n. 81 ha integralmente sostituito l’art. 2103 c.c. Tra le tante novità introdotte dal legislatore, alcune riguardano anche l’esercizio del c.d. jus variandi orizzontale, vale a dire lo spostamento del dipendente a mansioni equivalenti. Mentre il previgente testo della norma consentiva una simile variazione a condizione che le nuove mansioni fossero «equivalenti alle ultime effettivamente svolte», quello attualmente in vigore permette l’assegnazione di «mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Il giudizio di equivalenza, pertanto, deve essere condotto assumendo quale parametro non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza dal dipendente, bensì solamente le astratte previsioni del sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto. Ne consegue che, a differenza che nel passato, è oggi legittimo lo spostamento del lavoratore a mansioni che appartengono allo stesso livello di inquadramento cui appartenevano quelle svolte in precedenza dallo stesso dipendente, non dovendosi più accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente (come ritenuto in passato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità: v., tra le più recenti, Cass. n. 17624 e n. 4989 del 2014).

In sostanza il legislatore del 2015 ha esteso al settore del lavoro alle dipendenze di privati un regime analogo a quello previsto dall’art. 52 d. lgs. n. 165 del 2001 per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: così come quest’ultima norma, disponendo genericamente che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento [...]», assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 7106 del 2014, n. 18283 del 2010, n. 11405 del 2010), alla stessa maniera il nuovo art. 2103 impone di arrestare la verifica dell’equivalenza delle nuove mansioni rispetto a quelle precedentemente svolte all’accertamento del formale livello di inquadramento del lavoratore interessato e alla riconducibilità delle nuove mansioni a quel livello.

Premesso che, in difetto di qualsiasi norma transitoria, sicuramente la descritta novella legislativa si applica anche ai rapporti di lavoro già in corso alla data della sua entrata in vigore, resta da appurare se essa abbia rilevanza rispetto a mutamenti di mansioni disposti (come quello oggetto della presente controversia) prima del 25 giugno 2015 e in atto ancora dopo quella data.

Ritiene il Tribunale che all’interrogativo debba darsi risposta affermativa.

In effetti il demansionamento del lavoratore costituisce una sorta di illecito "permanente", nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto di svolgere (la giurisprudenza di legittimità ha adottato una simile concezione della dequalificazione allorché ha dovuto individuare il giudice munito di giurisdizione nelle controversie interessanti dipendenti pubblici contrattualizzati in caso di demansionamento iniziato prima e proseguito dopo il 30 giugno 1998, data che segna il discrimine tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria nel contenzioso del lavoro pubblico ex art. 45, co. 17, d.lgs. n. 80 del 1998: v., ad esempio, Cass. n. 1141 del 2007).

Conseguentemente, la valutazione della liceità o meno della condotta posta in essere dal datore di lavoro nell’esercizio del suo potere di assegnare e variare (a certe condizioni) le mansioni che il dipendente è chiamato ad espletare va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno; con l’ulteriore conseguenza che l’assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento, può non esserlo più in un momento successivo.

Orbene, applicando una simile impostazione alla fattispecie oggetto della presente controversia, occorre concludere per la sicura infondatezza delle doglianze sollevate dalla ricorrente con riferimento al periodo successivo all’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2015. Infatti, come già segnalato, dopo tale data è comunque legittima l’assegnazione di nuove mansioni che siano riconducibili al livello di inquadramento cui appartiene il dipendente. E la P., nel proprio atto introduttivo della lite, non ha neppure dedotto che le mansioni assegnatele al momento del rientro dal distacco non siano riconducibili a quelle previste dal ccnl per il livello "Area Quadri" alla quale ella appartiene.

Per le ragioni appena esposte, nulla spetta alla ricorrente a titolo di risarcimento del danno per demansionamento per il periodo successivo al 24 giugno 2015, né può essere accolta la domanda di condanna della datrice di lavoro all’assegnazione di mansioni diverse da quelle attualmente svolte.

4. - Resta da verificare la correttezza dell’operato della convenuta nel periodo compreso tra il maggio 2014 e il giugno 2015.

In proposito osserva il Tribunale che la prova testimoniale espletata ha confermato che, al momento del rientro dal distacco, la ricorrente fu assegnata all’ufficio che si occupava della polizza sanitaria integrativa a favore dei medici iscritti alla Fondazione (testi concordi), essendo chiaro fin dall’inizio che ella era destinata a sostituire la collega che in quel momento dirigeva quell’ufficio quando, di lì a qualche mese, la stessa sarebbe andata in pensione (deposizione P.). Si trattava di un periodo particolare, poiché per la prima volta la Fondazione aveva disposto che la Compagnia assicuratrice sarebbe stata scelta all’esito di un’apposita gara di appalto (deposizione P.). Sia per questo motivo, sia perché si trattava di un settore di attività sconosciuto alla P., costei fu inizialmente impegnata nello studio delle precedenti polizze (deposizione P.) e, in generale, della documentazione relativa all’attività che veniva svolta da quella struttura (deposizione F.); inoltre la P. fu sempre coinvolta dal dirigente responsabile dell’Area cui afferiva quell’ufficio in tutte le riunioni convocate su materie di competenza dell’ufficio (deposizioni C., F.). Seppure la precedente responsabile dell’ufficio era destinata ad andare in pensione solamente il 31 marzo 2015, già dal momento dell’aggiudicazione della gara d’appalto (e, cioè, dal novembre 2014: deposizione C.), la P. iniziò a svolgere operativamente tutti i compiti di responsabile della struttura che si occupava della polizza in discorso (deposizioni C., P.). Si è trattato di gestire tutte le problematiche derivanti dalla nuova polizza (curando i rapporti con i rappresentanti della Compagnia assicuratrice e con i medici assicurati) e di coordinare l’attività di due impiegati (deposizione F.).

Tanto appurato, ritiene il Giudice che le mansioni svolte dalla ricorrente dopo il rientro presso la Fondazione, così come descritte sopra, ben possano essere considerate equivalenti a quelle espletate presso la società distaccataria. Si tratta, infatti, di coordinare l’attività di una struttura che si occupa di uno dei servizi che la Fondazione offre ai propri iscritti e che comporta la necessità di affrontare e risolvere questioni aventi significativa rilevanza giuridica (come normalmente sono quelle scaturenti dalla gestione di un contratto di assicurazione). È evidente l’analogia con l’attività espletata presso la distaccataria, consistente anch’essa nel coordinamento di una struttura che si occupava di un settore (la gestione degli immobili di proprietà della convenuta) che comportava l’analisi e la risoluzione di questioni di natura giuridica. Né può indurre a conclusione diversa la constatazione che, nei primi mesi successivi al rientro dal distacco, l’attività svolta dalla P. sia consistita soprattutto nello studio della documentazione relativa alle competenze del nuovo ufficio. Si è trattato, infatti, del periodo destinato all’acquisizione delle conoscenze e delle prassi necessarie per svolgere efficacemente i nuovi compiti assegnati dalla datrice di lavoro e, in particolare, quello di coordinamento della struttura.

Il ricorso deve dunque essere integralmente respinto.

5. - Quanto alle spese processuali, reputa il Tribunale che esse debbano essere compensate.

Com’è noto, l’attuale versione dell’art. 92 c.p.c. (introdotta dal d.l. n. 132 del 2014 e applicabile alle cause introdotte, come quella presente, dopo il 10 dicembre 2014) limita le ipotesi di compensazione a quelle della «assoluta novità della questione trattata» e del «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti». L’attuale controversia può essere ricondotta alla prima delle predette due ipotesi, considerato che la decisione sfavorevole all’attrice è stata condizionata, almeno per una parte, dalla novella legislativa che ha interessato l’art. 2103 c.c. intervenuta successivamente all’introduzione della causa. Trattasi di una circostanza che ha determinato senza dubbio una «assoluta novità della questione trattata», proprio perché non è neppure ipotizzabile che, prima dell’instaurazione della controversia, le nuove disposizioni normative introdotte dal legislatore potessero essere già state esaminate dalla giurisprudenza.

 

P.Q.M.

 

Definitivamente pronunciando:

1) respinge il ricorso;

2) compensa tra le parti le spese processuali.