Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 novembre 2015, n. 22545

Lavoro - Dipendenti postali - Illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro - Ricorso in cassazione - Disciplina aplicabile

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d'appello di Campobasso con sentenza resa pubblica in data 30/5/09, confermava la pronuncia del giudice di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da Greco Brigida nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità - con le consequenziali pronunce - del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 1/3/2000 al 30/6/2000 per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa dell'attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane". Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.

L'intimata non ha svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 1372, 1 comma, c. c., ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360 n.5 c.p.c. assumendosi l'erroneità della decisione in ordine all'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Con il secondo motivo si censura (per violazione di legge e vizio di motivazione) la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato oltre la scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell'acc. az. 25-9-1997 ed all'uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti accordi.

Con il terzo motivo, calibrato in relazione alle richieste economiche, si denuncia vizio di omessa pronuncia in ordine alla eccezione di aliunde perceptum regolarmente sollevata nei precedenti gradi di giudizio.

I motivi sono inammissibili in quanto non corredati da quesiti ex art. 366 bis c.p.c.

Preliminarmente va osservato che l'abrogazione dell'art. 366 bis cod. proc. civ. (intervenuta ai sensi della L. n. 69 del 2009, art. 47) è diventata efficace, per effetto della disposizione transitoria contenuta nell'art. 58, comma 5, della medesima legge, per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla data del 4 luglio 2009, con la conseguenza che per quelli relativi a provvedimenti anteriormente pubblicati tale norma, quale quello di cui si discute, è da ritenersi ancora applicabile (vedi Cass. 27 settembre 2010 n. 20323).

Sulla specifica questione va altresì rimarcato che è stato ritenuto manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale di tale disposizione per contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore disciplinare nel tempo l'applicabilità delle disposizioni processuali e non appare irragionevole il mantenimento della pregressa disciplina per i ricorsi per cassazione promossi avverso provvedimenti pubblicati prima dell'entrata in vigore della novella (Cass. 16 dicembre 2009 n. 26364).

Ciò premesso, non può sottacersi che i motivi di ricorso non si concludono con la formulazione del quesito di diritto che è previsto, a norma dell'art. 366 bis c.p.c., a pena di inammissibilità, per l'illustrazione di ciascun motivo nei casi previsti dall'art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3), e 4) ridondando tale carenza, in termini di inammissibilità del ricorso (cfr. Cass. 19 novembre 2014 n. 24597).

E, sempre sullo stesso versante, deve rimarcarsi altresì, la mancata elaborazione "della chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione" (ex art. 366 bis c.p.c.). E', invero, orientamento consolidato (cfr. Cass. SU 1 ottobre 2007 n. 20603, Cass.7 aprile 2008 n. 8897, Cass. 8 marzo 2013 n. 5858) che "allorché nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l'onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall'art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso ma anche formulando al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente la ammissibilità del ricorso".

Tale sintesi, come è dato evincere dall'art. 366 bis c.p.c., non si identifica con il requisito di specificità del motivo ex art. 366 co. 1 n. 4 c.p.c., ma assume una propria autonoma funzione volta a consentire la immediata rilevabilità del nesso eziologico tra la lacuna o incongruenza logica denunciata ed il fatto ritenuto determinante - ove correttamene valutato- ai fini della decisione favorevole al ricorrente.

In definitiva, la mancata osservanza dei dettami dì cui alla richiamata disposizione codicistica, induce alla emanazione di una pronuncia, in rito, di inammissibilità del ricorso.

Nulla per le spese, non avendo l'intimata svolto attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.