Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 ottobre 2015, n. 22285

Contratto di agenzia - Recesso per giusta causa - Attestazioni di rischio non veritiere - Tempestività della contestazione - Illegittimità - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

1 - La sentenza attualmente impugnata, pronunciandosi sull’appello principale di I.A. s.p.a. e sull’appello incidentale di C.A.F., entrambi contro la sentenza del Tribunale di Roma n. 4646/2008, riformando parzialmente la sentenza appellata: 1) dichiara la legittimità del recesso intimato il 22 marzo 1995 al F. dal Consorzio Agenzia Generale I.A. (poi I.A. s.p.a.); 2) dichiara, pertanto, non dovute sia l’indennità sostitutiva del preavviso sia l'indennità di cui all’art. 12-bis AEC agenti I. del 1994.

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) da tempo la giurisprudenza è consolidata nel senso di ritenere applicabile al rapporto di agenzia il recesso per giusta causa ex art. 2119 cod. civ., orientamento che è stato confermato dal legislatore nel testo dell’art. 1751 cod. civ. di cui al d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303;

b) diversamente da quanto affermato dal primo giudice, nella specie (come risulta dalla lettera di comunicazione degli addebiti, del 22 marzo 1995) una delle ragioni poste a base del recesso in tronco non è stata quella delle sette attestazioni di rischio non rispondenti alla effettiva classe di merito spettante agli assicurati, ma l'assunzione e l’inserimento, da parte del F., nelle classi di merito di alcune polizze di auto-attestazioni di rischio degli assicurati poi disconosciute dalle relative compagnie assicurative (rispettivamente, T., L. G. e U.);

c) questa condotta deve ritenersi provata sulla base della documentazione prodotta dalla società, la cui genuinità ed efficacia probatoria non sono mai state contestate dall’agente, la cui linea difensiva si è attestata sulla possibilità della preponente di emettere, all’esito dei controlli di propria pertinenza, polizze in variazione, circostanza, quest’ultima, del tutto irrilevante ai fini della valutazione della gravità degli addebiti;

d) a prescindere dalla sicura tempestività della contestazione, peraltro da correlare alla condizione di autonomia e non di subordinazione dell’agente, la condotta suddetta è di per sé idonea a configurare la giusta causa del recesso;

e) quanto all’ulteriore addebito riguardante la scopertura della rata di premio relativa ad una polizza e l’omesso versamento alle mandanti della Compagnia del premio relativo ad altra polizza, a fronte dei puntuali rilievi mossigli dalla controparte, l’interessato non ha effettuato alcuna contestazione;

f) la complessiva reiterata condotta di cui si è detto - composta da sette attestazioni disconosciute dalle compagnie di provenienza e due mancati versamenti di premi - costituisce giusta causa di recesso per essersi compendiata nella violazione dei doveri fondamentali di lealtà e correttezza, cui gli agenti devono sempre attenersi, sicché, nella specie, la gravità della mancata osservanza di tali doveri non può considerarsi sminuita o attenuta dall’entità del valore economico degli affari procurati dall’agenzia, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza appellata;

g) inoltre, appare priva di rilevanza decisiva la intervenuta decisione della Commissione Albo Agenti, che ha concluso in senso favorevole al F. il procedimento disciplinare, sia perché si tratta di una decisione non opponibile alla preponente, che è terza rispetto al procedimento disciplinare, sia perché essa riguarda solo i profili di carattere deontologico e non coinvolge la diversa tematica della responsabilità contrattuale, che è alla base del recesso de quo:

h) alla dichiarata legittimità del recesso consegue la non debenza delle indennità correlate all’inesistenza della giusta causa, quindi sia l’indennità sostitutiva del preavviso sia l’indennità di cui all’art. 12-bis AEC (Accordo Economico Collettivo) per gli agenti di assicurazione del 1994, quest’ultima peraltro spettante solo nel caso in cui le parti abbiano proposto una procedura arbitrale;

i) restano dovute le altre indennità attribuite dal giudice di prime cure, le cui statuizioni al riguardo, riferite solo al quantum e non all’an, sono del tutto generiche;

l) il F., dopo aver proposto appello avverso la sentenza in oggetto con atto depositato il giorno 11 maggio 2009 ha proposto un successivo appello il 31 marzo 2011, in sede di memoria di costituzione in giudizio;

m) in base al principio della consumazione dell’impugnazione questo secondo atto di "appello" va dichiarato inammissibile, mentre restano assorbite dalle considerazioni dianzi svolte sulla legittimità del recesso le censure formulate dall’agente nel primo atto di appello, che è l’unico valido.

2 - Il ricorso di C.A.F. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, G.I. s.p.a. (già I.A. s.p.a.) e deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Motivi della decisione

 

I - Sintesi dei motivi di ricorso

1. - Il ricorso è articolato in quattro motivi.

1.1. - Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ.

Si contesta l’affermazione della Corte d’appello in ordine alla sussistenza della giusta causa del recesso e si sostiene che tale statuizione sarebbe fondata sulla mancata considerazione dei seguenti elementi:

1) il funzionamento delle polizze RC Auto con classe di merito bonus malus, da cui si desume che all’epoca dei fatti gli agenti non avevano modo di verificare, presso le compagnie concorrenti, la rispondenza al vero delle dichiarazioni degli assicurati, potendo solo la Direzione della Compagnia, nell’ambito di uno scambio di informazioni tra imprese, chiedere il conforto circa la genuinità delle attestazioni di rischio, cui può seguire la riclassificazione della polizza, da parte dell’impresa assicuratrice ex art. 7 d.P.R. n. 45 del 1981;

2) gli artt. 1892 e 1893 cod. civ., da cui risulta che l’agente non può eseguire alcuna indagine sulla veridicità o meno delle attestazioni di rischio, dovendo limitarsi a rilevarne l’evidente contraffazione, onde l’assenza di dolo o colpa grave dell’agente;

3) la relativa frequenza del fenomeno delle attestazioni di rischio non veritiere, spesso di non agevole accertamento (come è accaduto nella specie, in cui le indagini della Compagnia hanno avuto una durata di un anno e mezzo), a fronte della quale, ancor più trascurabile sarebbe da valutare la presente vicenda in cui le uniche prove fornite dalla preponente si riferiscono a tre sole attestazioni di rischio relative a tre polizze, in un periodo compreso tra il 1993 e il 1995, nel quale l’agenzia del F. ha stipulato migliaia di polizze;

4) l’assenza, quindi, di un inadempimento del F., agente con anzianità di servizio ventennale, all’epoca dei fatti.

In definitiva, si sostiene che la Corte territoriale avrebbe violato l’art. 2119 cod. civ. perché, nella specie, sono carenti il presupposto soggettivo della condotta, quello della gravità del fatto e quello della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso.

1.2. - Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 1746 cod. civ., anche in relazione all’art. 2119 cod. civ.

Si ricorda che nel sistema delineato dalla legge n. 48 del 1979 - istitutiva dell’Albo nazionale degli agenti di assicurazione e abrogata dal d.lgs. n. 209 del 2005 - all’ISVAP e al Ministero dell’industria era affidato il compito della valutazione dell’operato degli agenti dal punto di vista deontologico, con possibilità di irrogazione delle sanzioni del richiamo, della censura ovvero della vigilanza della radiazione. Se, però, la condotta dell’agente veniva considerata corretta sul piano disciplinare, era disposta l’archiviazione del relativo procedimento, come è accaduto nella specie.

Conseguentemente, il ricorrente reputa erronea la statuizione della Corte romana, secondo cui tale decisione sarebbe priva di rilevanza decisiva per il presente giudizio, visto che in esso si discute di una mancanza di diligenza professionale del F., in quanto il Giudice di appello ha ritenuto sussistere la giusta causa proprio ascrivendogli la violazione di regole deontologiche, la cui ricorrenza è stata affermata sulla base di un esame del solo elemento oggettivo della condotta, cioè senza dare alcun rilevo all’elemento soggettivo, del dolo o della colpa, peraltro mai dedotto validamente dalla Compagnia.

Il ricorrente aggiunge che inesatta e comunque irrilevante sarebbe anche la affermazione della Corte territoriale secondo cui egli non avrebbe validamente contestato l’ulteriore addebito riguardante la scopertura della rata di premio relativa ad una polizza e l’omesso versamento alle mandanti della Compagnia del premio relativo ad altra polizza, tanto più che le circostanze richiamate - se dimostrate - proverebbero il mancato pagamento da parte dell’agente di una somma pari ad euro 900 circa, a fronte di un suo credito, nei confronti della Compagnia di più di euro 190.000.

Pertanto, anche da questo punto di vista, dovrebbe escludersi la sussistenza della giusta causa del recesso.

1.3. - Con il terzo motivo si denuncia violazione della norma collettiva, di cui all’art. 12-bis dell’AEC (Accordo Economico Collettivo) per gli agenti di assicurazione del 1994.

Subordinatamente all’accoglimento del primo motivo, si rileva che, come sostenuto nell’appello incidentale proposto il 31 marzo 2011, data la palese pretestuosità del recesso, l’indennità prevista nell’indicata norma contrattuale avrebbe dovuto essergli riconosciuta nell’ammontare massimo e non soltanto in una somma pari al 50% del totale, come stabilito dal primo giudice.

Infatti, il citato art. 12-bis prevede la possibilità di graduare l’entità della indennità - da zero ad un massimo - "in relazione ai motivi addotti".

1.4. - Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 32 Cost., 2043 e 2119 cod. civ.

Sempre subordinatamente all’accoglimento del primo motivo il ricorrente chiede anche il riconoscimento del proprio diritto al risarcimento del danno alla salute conseguente al recesso subito, censura formulata nel proprio atto d’appello dell’11 maggio 2009 e dichiarata assorbita dalla Corte romana.

II - Esame delle censure

2. - I primi due motivi di ricorso - da trattare insieme, perché intimamente connessi - non sono da accogliere, in quanto con essi, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell’intestazione di entrambi i motivi, nella sostanza, si esprime un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello e si invoca, di conseguenza, un diverso apprezzamento delle stesse.

Va, invece, rilevato che, non ravvisandosi nell’iter argomentativo del Giudice d’appello violazioni di legge ed incongruenze o deficienze motivazionali, i suddetti motivi devono essere disattesi.

3. - Deve essere, infatti, sottolineato come, dalla sentenza impugnata, risulti che la Corte romana ha effettuato il giudizio relativo alla sussunzione dei fatti addebitati all’agente nella previsione legale di cui all’art. 2119 cod. civ. in modo logico e conforme alla giurisprudenza di questa Corte in materia.

In particolare, il Giudice d’appello ha tenuto conto del consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui - ai fini dell’applicabilità dell’art. 2119 cod. civ. al rapporto di agenzia - per la valutazione della gravità della condotta che può dare luogo a giusta causa di recesso, si deve considerare che nel contratto di agenzia il rapporto di fiducia assume maggiore intensità, rispetto al rapporto di lavoro subordinato, in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività svolta dall’agente, per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali. Di conseguenza, per la legittimità del recesso nel rapporto di agenzia, è sufficiente un fatto di minore consistenza, rispetto al tipo di comportamento normalmente richiesto per il licenziamento per giusta causa del lavoratore subordinato (vedi, per tutte: Cass. 4 giugno 2008, n. 14771; Cass. 26 luglio 2014, n. 11728).

Ne consegue che, pur nella configurazione del giudizio di applicazione delle clausole generali (come, appunto, la giusta causa del recesso) come giudizio di diritto - sull’assunto secondo cui nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica (che, per la sua stessa struttura, si limita ad esprimere un parametro generale) il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, dando concretezza a quella parte mobile (elastica) della medesima, introdotta per consentire alla norma stessa di adeguarsi ai mutamenti del contesto storico-sociale (Cass. SU 22 febbraio 2012, n. 2572; Cass. 13 maggio 2005, n. 10058; Cass. 6 aprile 2006, n. 8017; Cass. 17 agosto 2004, n. 16037; Cass. 10 febbraio 2014, n. 2883; Cass. 9 dicembre 2013, n. 27440) - resta il fatto che, nella specie, la Corte romana ha effettuato tale giudizio in modo giuridicamente corretto, avendo dato peculiare rilievo alla idoneità dei comportamenti addebitati all’agente - ancorché, in sé considerati, di minore consistenza rispetto al tipo di comportamento normalmente richiesto per il licenziamento per giusta causa del lavoratore subordinato - a ledere l’elemento fiduciario, che, come si è detto, assume nel rapporto di agenzia maggiore intensità, essendo il presupposto sul quale si basa il conferimento del mandato agenziale da parte della Compagnia.

4. - D’altra parte, va sottolineato che - essendo il F. titolare di una agenzia che, nel periodo considerato, ha curato per la Compagnia un complessivo rilevantissimo volume di affari, sulla base di una ventennale esperienza lavorativa, secondo quanto risulta dal presente ricorso - nella valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva alla condotta contestata (contraria agli obblighi che gli incombono), si deve tenere conto anche del "disvalore ambientale" della condotta stessa, derivante dal fatto che, in virtù della posizione professionale rivestita dall’agente, il suo comportamento trasgressivo si deve considerare potenzialmente idoneo ad assurgere a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto dei suddetti obblighi, nell’ambito dell’azienda, secondo quanto più volte affermato da questa Corte (Cass. 5 gennaio 2015, n. 13; Cass. 6 giugno 2014, n. 12806; Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208).

5. - In questa situazione, appare del tutto congrua e logica anche la statuizione della Corte d’appello secondo cui, nel presente giudizio, non è attribuibile "rilevanza decisiva" alla intervenuta decisione della Commissione Albo Agenti, che ha concluso in senso favorevole all’agente il procedimento disciplinare.

Tale statuizione, infatti, oltre ad essere ben argomentata è del tutto conforme al consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui il tipo di valutazioni del giudice circa la cessazione del rapporto fiduciario formulate sul piano del rapporto di lavoro, tanto più nell’ipotesi di un rapporto di lavoro connotato da indubbi profili di autonomia (come accade nel caso del rapporto di agenzia), può giustificare una divaricazione con il giudizio dato in sede disciplinare, nel quale la valutazione è fondata su presupposti diversi (arg. ex Cass. 14 luglio 2001, n. 9590).

Non va, del resto, dimenticato che, in linea generale, è jus receptum che neppure dalla sentenza penale irrevocabile di assoluzione dibattimentale discenda l’automatica conseguenza della preclusione alla cognizione della domanda da parte del giudice civile e, in particolare, del giudice del lavoro, anche al fine della affermazione della legittimità dell’irrogato licenziamento, in quanto i fatti accertati nella suddetta sentenza, ancorché non decisivi ai fini delle responsabilità penale, possono conservare rilevanza, ai sensi dell’art. 654 cod. proc. pen., ai fini del rapporto di lavoro (Cass. 29 novembre 2004, n. 22484; Cass. 5 gennaio 2015, n. 13).

5. - Di qui il rigetto dei primi due motivi di ricorso.

6. - I rimanenti due motivi sono inammissibili, perché entrambi espressamente proposti subordinatamente all’accoglimento del primo motivo.

Va, peraltro, aggiunto, per precisione, che si tratta di censure che sono, in sé, inammissibili, perché:

a) la richiesta dell’ammontare massimo di cui all’art. 12-bis dell’AEC (Accordo Economico Collettivo) per gli agenti di assicurazione del 1994, del cui mancato accoglimento ci si lamenta nel terzo motivo, è stata fatta, per ammissione dello stesso ricorrente, nel secondo c.d. appello incidentale (del 31 marzo 2011), dichiarato inammissibile dalla Corte territoriale, in applicazione del principio della consumazione della impugnazione e la relativa statuizione non viene qui messa in discussione;

b) la censura formulata nel quarto motivo si risolve in una generica richiesta di valutazione dei fatti prospettata, senza neppure il rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, avverso un rigetto implicito - per effetto del disposto assorbimento - da parte della Corte romana del corrispondente motivo d’appello, preceduto da un rigetto esplicito del primo giudice.

IV - Conclusioni

7. - In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione - liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 (cento/00) per esborsi, euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.