Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 ottobre 2015, n. 22288

Contratto a termine - Nullità - CCNL - Esigenze di carattere straordinario - Specificità del settore

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d'appello di Roma, con sentenza resa pubblica in data 3/9/09 confermava la decisione del Tribunale della stessa sede di rigetto della domanda proposta da G.M. ed intesa alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con P.I. s.p.a. per il periodo dal 1.10.2001 al 31.1.2002 ai sensi dell’art. 25 del CCNL 11.1.2001 per "esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi comprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all'introduzione o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi".

La Corte territoriale riteneva infondata la domanda originaria in considerazione della legittimità del termine apposto al contratto de quo, alla stregua del consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il legislatore ha conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, consentendo alle parti stipulanti di esprimersi secondo le specificità del settore produttivo e autorizzando P.I. s.p.a. a ricorrere allo strumento del contratto a termine, senza altre limitazioni.

Circa, poi, il dedotto mancato rispetto della clausola di contingentamento, la Corte distrettuale, al di là della genericità della contestazione, rimarcava che i dati forniti da P.I. alla stregua della documentazione prodotta in primo grado, deponevano nel senso del rispetto delle quote numeriche di assunzione di personale a tempo determinato.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso G.M. affidato a due motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. La s.p.a. P.I. resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo, per violazione e falsa applicazione di plurime disposizioni di legge, si critica la sentenza impugnata per aver interpretato la disposizione di cui all'art. 25 c.c.n.l. 11 gennaio 2001, nel senso di consentire nel corso del periodo di validità del contratto collettivo, la stipula di contratti individuali di lavoro a termine, prescindendo dalla verifica in concreto del rispetto delle ipotesi generali ed astratte previste dalle parti sociali nella contrattazione collettiva di settore.

1.1 La censura è priva di fondamento.

Deve infatti rilevarsi che con riferimento all'art. 25 del CCNL 11.1.1 - al pari di quanto previsto per l’art. 8 del CCNL 26.11.94 - la giurisprudenza di questa Corte ha legittimato l'interpretazione secondo cui il legislatore ha conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, non imponendo al potere di autonomia i limiti ricavabili dal sistema della L. n. 230 del 1962, ma consentendo alle parti stipulanti di esprimersi secondo le specificità del settore produttivo e autorizzando P.I. s.p.a. a ricorrere (nei limiti della percentuale fissata) allo strumento del contratto a termine, senza altre limitazioni.

L'assenza di ogni pregiudiziale collegamento con la disciplina generale del contratto a termine giustifica l'interpretazione che il raccordo sindacale autorizza la stipulazione dei contratti di lavoro a termine pur in mancanza di collegamento tra l'assunzione del singolo lavoratore e le esigenze di carattere straordinario richiamate per giustificare l'autorizzazione, con riferimento alla specificità di uffici e di mansioni (vedi fra le altre, Cass. 1.7.14 n. 14983, Cass. 26.9.07 n. 20157 e 20162, 1.10.07 n. 20608).

Agli enunciati principi si è attenuta la Corte distrettuale con statuizione che non resta, pertanto, scalfita dalla formulata censura.

2. Con il secondo mezzo di impugnazione, per violazione di plurime disposizioni di legge nonché dell'art. 25 c.c.n.l. 2001, si stigmatizza la pronuncia impugnata con riferimento alla violazione della cd. clausola di contingentamento. Si assume che la Corte di appello non abbia pronunciato sul capo della domanda relativo alla dedotta violazione -da parte di P.I. del limite percentuale (5%) di assunzioni a termine stabilito dall'art. 25, comma 3, cit. evidenziandosi che la società, sulla quale incombeva l'onere probatorio, non aveva dimostrato di aver rispettato il detto limite.

2.1 II motivo è infondato.

Ed invero, premesso che, nel regime della L. 28 febbraio 1987, n. 56 - in base alle regole di cui alla L. 18 aprile 62, n. 230, art. 3 per cui incombe al datore dimostrare l'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione del termine - è onere del datore di lavoro indicare il numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, in modo da consentire la verifica del rapporto percentuale esistente tra i lavoratori stabili e quelli a termine (vedi, fra le altre, Cass. 19.1.10 n. 839), è d'uopo rilevare che la Corte territoriale ha ritenuto dimostrata l’osservanza del limite percentuale alla luce del contenuto della documentazione prodotta in primo grado da P.I. Detta statuizione resiste alle critiche formulate dal ricorrente circa la non pertinenza della documentazione rispetto alla fattispecie (in quanto recante l'indicazione del numero dei contratti a tempo indeterminato stipulati da P.I. nella regione Basilicata nell'anno 1999 e l'indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo determinato nel corso dell'anno 2001).

2.2 II motivo difetta, invero, del requisito di autosufficienza per essere carente la descrizione della vicenda processuale, da cui potere evincere in quali termini la questione venne trattata in primo grado e quali furono le doglianze riproposte in sede di gravame avverso la sentenza del Tribunale.

Non risulta che fosse stata denunciata l'omessa pronuncia da parte del primo giudice; né è dato conoscere quale altra specifica doglianza fosse stata mossa dall'appellante, onde potere valutare il grado di pertinenza e congruenza, rispetto ad essa, della motivazione svolta dal giudice di appello, presupposto imprescindibile per potere procedere alla valutazione delle censure mosse a tale sentenza dall'odierna ricorrente. Tale omissione integra violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale trova la propria ragion d'essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr, Cass. 10-1-12 n. 86) e altresì di permettere alla Corte di Cassazione di verificare se una determinata questione possa ancora ritenersi sub iudice (cfr., Cass. 14-3-11 n. 5970).

Non potendosi quindi stabilire il thema decidendum nel giudizio di secondo grado e se questo involgesse - e in quali termini - anche la questione della inidoneità probatoria della documentazione offerta in primo grado dalla società P., non vi sono i presupposti per valutare se tale questione, nei termini in cui è stata affrontata ed esaminata dal giudice di appello, fosse affetta dai vizi denunciati dall'attuale ricorrente.

2.3 Non da ultimo, va considerato che la doglianza risulta formulata promiscuamente, ex art. 360 comma primo nn. 3 e 5, con modalità che ridondano in termini di inammissibilità del motivo, giacché con la proposizione di censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, si realizza una negazione della regola di chiarezza posta dall'art. 366 c.p.c. affidandosi alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione (vedi fra le tante, Cass. Sez. Lav. 26-3-2010 n. 7394 cui adde Cass. 8-6-2012 n. 9341, Cass. 20-9-2013 n. 21611).

2.4 Neanche può prescindersi dal rilievo di ragioni di improcedibilità del ricorso, stante la mancata produzione del c.c.n.l. 11.1.2001. Va, sul punto, richiamato il fermo orientamento espresso da questa Corte, e che va qui ribadito, in base al quale, ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all'art. 366 c.p.c., è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame (vedi Cass. 6-3-2012 n. 4220, Cass. 9-4-2013 n. 8569, cui adde Cass. 24-10-2014 n. 22607).

Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità. In altri termini, il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi, come nella specie, della erronea valutazione di un accordo sindacale da parte del giudice di merito, ha il duplice onere - imposto dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 - di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il contratto in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto dello stesso.

Nello specifico, non risulta adempiuto il primo di tali oneri, non essendo indicato in quale parte del fascicolo sia rinvenibile il contratto collettivo 11.1.2001.

In definitiva, il ricorso è respinto.

Il governo delle spese del presente giudizio segue il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.