Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 ottobre 2015, n. 20424

Contratto a termine - Nullità - CCNL - Esigenze eccezionali - Prosecuzione del rapporto di lavoro - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 12-20/1/09 la Corte d’appello di Lecce - sezione lavoro, decidendo sull'impugnazione proposta da S.V. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Brindisi che aveva rigettato la domanda della medesima ricorrente volta alla dichiarazione di nullità del termine apposto ai contratti di lavoro intercorsi con la società P.I. s.p.a., ha accolto il gravame della lavoratrice ed ha dichiarato la nullità del termine concernente il primo contratto stipulato in relazione al periodo 1/6 - 31/10/99.

Nel contempo la Corte leccese ha riconosciuto il diritto dell’appellante alla prosecuzione del rapporto di lavoro ed ha condannato la società postale al risarcimento del danno, rapportato all’entità della retribuzione che la medesima lavoratrice avrebbe maturato per la qualifica posseduta a decorrere dalla notifica dell’atto introduttivo del giudizio, nonché alle spese del doppio grado, il tutto maggiorato degli accessori di legge.

La Corte di merito ha accertato che il contratto a termine di cui sopra, stipulato, per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione dell’ente come previste dall'art. 8 del c.c.n.l. del 26/11/94, era da considerare illegittimo, posto che lo stesso era stato concluso allorquando era stato superato il limite temporale del 30/4/1998 contemplato dalla contrattazione collettiva per il ricorso a tale tipologia contrattuale.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società P.I. s.p.a con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Resiste con controricorso S.V.

 

Motivi della decisione

 

1. Col primo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., nonché il vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., in quanto si sostiene l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui si è ritenuto che il potere riconosciuto alle parti collettive di introdurre nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle previste dalla legge, fosse soggetto a precisi limiti temporali, mentre l’art. 23 della legge n. 56 del 1987, contenente una sorta di delega in bianco a favore dell’autonomia collettiva, non prevedeva alcun termine finale al riguardo. Si chiede, quindi, di accertare se l’accordo collettivo del 25.9.1997, comprensivo delle successive proroghe, debba o meno interpretarsi, alla luce del complessivo comportamento successivo delle parti stipulanti, nel senso di escludere l’apposizione di un termine finale e perciò nel senso di dare copertura alle assunzioni a tempo determinato anche per periodi successivi al 30 aprile 1998.

Osserva la Corte che occorre partire dalla considerazione che nella fattispecie il contratto, il cui termine finale è stato dichiarato nullo dai giudici d’appello, fu concluso in relazione al periodo compreso tra l’1/6/1999 ed il 31/10/1999, per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" - ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 - in data successiva al 30 aprile 1998.

Tale considerazione - in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001) - è sufficiente a far ritenere infondata la doglianza espressa dalla società ricorrente in relazione alla nullità del termine apposto al contratto di cui sopra.

Al riguardo, sulla scia della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588), è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato"(v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378). In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.I. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-1-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n. 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979; Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29-7-2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), il motivo è da ritenere, quindi, infondato.

2. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1372, commi 1 e 2, cod. civ., nonché il vizio di motivazione di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., in quanto assume che la Corte d’appello avrebbe dovuto tener conto dei dati significativi della eccepita risoluzione del rapporto per mutuo consenso, quali la conclusione del rapporto senza contestazione alcuna da parte della lavoratrice, l’accettazione da parte di quest’ultima del T.F.R. e delle altre indennità connesse alla cessazione dello stesso, lo svolgimento di attività lavorativa presso terzi a conclusione del contratto oggetto di causa, la proposizione dell’azione giudiziale solo a distanza di anni dal termine del contratto.

Il motivo è infondato.

Invero, l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell’11/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell’11/12/02 e da ultimo Cass. Sez. lav. n. 1780 del 28/1/14 ) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicché la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contrasto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, c.c. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sé solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).

Comunque, consentendo l'ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sé, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell'imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe "contra legem" anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003).

Tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).

3. Col terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 210 e 421 c.p.c., nonché la nullità della sentenza e/o del procedimento (art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.), censure, queste, attraverso le quali ci si duole della ritenuta genericità della sollevata eccezione dell’aliunde perceptum e si evidenzia che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare con minor rigore le richieste probatorie in tal senso avanzate, considerata l’oggettiva difficoltà di un tale tipo di prova. A conclusione del motivo si formula il seguente quesito: "Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande o eccezioni, e segnatamente per la prova "dell’aliunde perceptum", il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale".

Tale motivo è inammissibile in quanto formulato in termini del tutto generici e astratti come, del resto, il quesito che lo conclude. In particolare, quest’ultimo non è pertinente al caso in esame perché si risolve nell'enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (cfr. Cass. n. 80/11; Cass. n. 9583/11).

Ciò è in contrasto con i principi enunciati da questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. S.U. n. 36/07) secondo cui il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio, dovendosi ritenere inesistente un quesito generico e non pertinente, con conseguente inammissibilità del relativo motivo, come nel caso di specie (per una analoga fattispecie cfr. Cass. n. 17674/11).

Parimenti, poi, del tutto generica e priva di autosufficienza è la censura relativa all’aliunde perceptum. Anche al riguardo la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato - cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).

Quanto alla lamentata omessa motivazione sulla richiesta di far esibire al lavoratore il libretto di lavoro e le buste paga si osserva che, al contrario, la Corte territoriale ha chiaramente evidenziato che era onere della parte datoriale che eccepiva la percezione, da parte della lavoratrice, di altri emolumenti, provarne l’esistenza.

Tra l’altro, non può non rilevarsi che la richiesta di esibizione del libretto di lavoro, oltretutto meramente esplorativa ed in contrasto con la corretta affermazione del principio del riparto degli oneri probatori, non è di per sé idonea a provare, anche dal punto di vista quantitativo, la causa di riduzione delle prestazioni a carico del datore di lavoro, per cui nemmeno avrebbe potuto essere considerata un punto decisivo della controversia ai fini del dedotto e non provato vizio di motivazione (per un caso analogo v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 9716 del 24/7/2000).

4. Col quarto motivo, proposto per violazione di norme di diritto e per vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che la domanda di condanna in ordine alle richieste economiche, accolta dal giudice di secondo grado, non appare supportata dal benché minimo elemento probatorio idoneo a soddisfare il precetto sancito dagli artt. 2697 e segg. cod. civ., non avendo la lavoratrice fornito la prova del danno conseguito alla nullità del termine.

A conclusione del motivo la ricorrente pone il seguente quesito di diritto: "Dica la Corte se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettività e di corrispettività delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retributivo pur in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria".

Tale motivo è inammissibile in quanto formulato, come quello precedente, in termini del tutto generici e astratti come, del resto, il quesito che lo conclude che si risolve nell'enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (cfr. Cass. n. 80/11; Cass. n. 9583/11).

Così risultato inammissibile il motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr; Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.