Giurisprudenza - CORTE DI APPELLO DI TORINO - Ordinanza 06 marzo 2015

Prestazioni previdenziali o assistenziali - Controversie - Dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio - Violazione del principio di uguaglianza per irragionevolezza - Violazione di obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. - Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, art. 152, come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 - Costituzione, artt. 3 e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali

 

1. Con ricorso depositato il 1° febbraio 2013 M.L., in qualità di rappresentante ex lege del figlio minore M.D.D.A., ha evocato in giudizio avanti al Tribunale di Torino l'INPS, chiedendo la condanna dell'Istituto convenuto al ripristino della pensione SOS n. 47002767, revocata con provvedimento comunicato in data 11 ottobre 2012, e la declaratoria di illegittimità della contestuale richiesta di ripetizione di indebito per l'importo complessivo di euro 31.232,77, corrispondente agli importi erogati al minore nel periodo dal 1° settembre 2009 al 30 giugno 2012. La ricorrente esponeva che si trattava di reversibilità del trattamento pensionistico percepito, dal nonno materno del minore, M.V., deceduto il 10 agosto 2009; che il minore stesso aveva vissuto a carico del nonno, con il quale aveva convissuto insieme con la stessa madre, disoccupata e priva di reddito; che il padre non aveva mai provveduto al suo sostentamento, sì da essere stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale sin dal maggio del 2009; che la revoca era stata disposta avendo erroneamente ritenuto l'Istituto che la madre fosse titolare di reddito alla data di presentazione della domanda; che tale convinzione era infondata, non possedendo la madre altro che una quota di proprietà al 50% di un appartamento, attualmente locato, che le fruttava a titolo di canoni di affitto l'importo annuo lordo di euro 4.856,00 (pari ad euro 3.8202,00 netti); che ai sensi della sentenza n. 180 del 1999 della Corte costituzionale doveva ritenersi spettare al nipote il diritto alla reversibilità del trattamento pensionistico di cui già era titolare l'ascendente, in caso di bisogno del superstite determinato dalla condizione di non autosufficienza economica, con riferimento alle esigenze medie di carattere alimentare, alle fonti di reddito, ai proventi che derivano dall'eventuale concorso al mantenimento da parte di altri familiari;

che l'irrisorio reddito in capo alla madre non poteva escludere la sussistenza del requisito della «vivenza a carico» del nonno paterno;

che illegittima pertanto doveva ritenersi la determinazione dell'Istituto di sospendere l'erogazione della pensione e di procedere al recupero dell'Indebito.

2. Si è costituito l'INPS, sostenendo che la revoca della pensione di reversibilità era stata disposta non in considerazione del reddito del minore, bensì avuto riguardo al reddito della madre esercente la potestà genitoriale, in osservanza alla disposizione della circolare n. 213 del 18 dicembre 2000 dell'Istituto, per cui per riconoscere il diritto alla reversibilità in capo al nipote deve comunque essere accertata l'impossibilità di uno o entrambi i genitori di provvedere al mantenimento del figlio «in quanto non svolgono alcun tipo di attività e non beneficiano di altra fonte di reddito».

3. Il Tribunale, interrogata la madre del ricorrente, sentita la funzionaria dell'INPS della sede competente, che aveva confermato che il provvedimento dell'Istituto era stato adottato perché la madre non era risultata totalmente priva di redditi, pur ritenendo accertato che sino al decesso del nonno il nipote era a carico dello stesso, ha integralmente accolto il ricorso.

In presenza dell'incontestato presupposto della «vivenza a carico», il Tribunale ha ritenuto di dover disapplicare la previsione della circolare INPS che consente l'attribuzione della reversibilità ai nipoti solo laddove i genitori siano «totalmente privi di reddito»: ha infatti osservato la decidente che la stessa condizione non è richiesta in caso di reversibilità di una pensione diretta di cui sia titolare il genitore defunto, prevedendo la legge nulla più che un abbattimento dell'importo della pensione spettante al minore secondo certe percentuali, in caso di titolarità di reddito da parte del genitore sopravvissuto. 

4. Contro tale sentenza ha proposto appello l'INPS, eccependo preliminarmente l'inammissibilità del ricorso e nel merito chiedendone il rigetto. L'eccezione di inammissibilità, in particolare, è stata formulata ai sensi dell'art. 152, disp. att. c.p.c., nella versione come modificata dall'art. 38, comma 1, lett. b), n. 2), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111, applicabile ratione temporis (il ricorso è stato depositato il 1° febbraio 2013).

Nell'atto di appello l'Istituto ha evidenziato la totale carenza di ogni specificazione, nell'atto introduttivo, e poi comunque anche nel corso del giudizio, del valore della causa, secondo quanto richiesto «a pena di inammissibilità», dall'ultimo periodo dell'art. 152, disp. att. c.p.c. Ritenendo tale inammissibilità, in mancanza di ogni ulteriore specificazione legislativa, sollevabile in ogni stato e grado della controversia, ha chiesto alla Corte di volersi pronunciare sul punto con una pronuncia in rito.

L'appellata, costituendosi in giudizio, ha chiesto respingersi la suindicata eccezione e confermarsi nel merito la decisione di primo grado.

Questa Corte, ritenutane l'opportunità, ha invitato le parti alla discussione a proposito di eventuali profili di incostituzionalità dell'art. 152 disp. att. c.p.c. in esito alla quale, all'udienza del 3 marzo 2015, si è riservata.

6. Preliminare al merito della controversia risulta la decisione sulla sollevata eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dall'Inps. 

La parte attrice ha omesso infatti di formulare apposita dichiarazione relativa al valore della prestazione dedotta in giudizio, che l'art. 152 disp. att. c.p.c., a seguito della modifica introdotta con l'art. 38, comma 1, lett. b), n. 2, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, prescrive che, «a pena di inammissibilità del ricorso», debba essere formulata «nelle conclusioni dell'atto introduttivo».

L'INPS sostiene che tale omissione - pacifica - comporta irreparabilmente la sanzione dell'inammissibilità del ricorso, che può e deve essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento. E dunque chiede a questa Corte di appello che, senza procedere all'esame del merito, applichi la disposizione di legge richiamata.

7. A tal proposito, questa Corte preliminarmente osserva: il tenore letterale della norma che, dopo aver vincolato il giudice ad una liquidazione delle spese nei giudizi per prestazioni previdenziali che non superi il valore della prestazione dedotta in giudizio, sancisce che «A tal fine, la parte ricorrente, a pena di inammissibilità del ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l'importo nelle conclusioni dell'atto introduttivo», ne comporta una applicazione obbligata in tutti i casi in cui la parte non abbia assolto all'obbligo di legge. Questo deve avvenire anche quando non solo l'eccezione sia stata sollevata per la prima volta in grado di appello, ma anche se è incontroverso che nel caso specifico la liquidazione delle spese è immune dal superamento del limite posto dal paragrafo precedente della stessa disposizione. Nel presente grado di appello l'INPS, dopo aver operato a sua volta la dichiarazione a proposito del valore («indeterminato») della controversia all'atto del deposito del ricorso ai fini della corresponsione del Contributo unificato, fra i motivi di appello non ha inserito alcuna doglianza sulla liquidazione delle spese stesse, quale operata dal primo giudice, sì che la stessa (in importo pari ad euro 1.800,00, comprensivo di diritti, onorari e spese) deve ritenersi corretta, e non eccessiva rispetto ai limiti individuabili ai sensi del D.M. n. 140/2012, applicabile al momento della decisione. Comunque, da questa Corte non potrebbe nemmeno più essere scrutinata in caso di esame del merito e di conferma della decisione di primo grado, per mancanza di specifico motivo di appello.

8. Tanto premesso ritiene il collegio di non poter aggirare in via interpretativa l'applicazione della disposizione richiamata, stante la chiarezza della sua formulazione. 

Come condivisibilmente precisato dall'INPS nel suo ricorso, l'inammissibilità del ricorso è difetto di tale gravità da escludere la «potestas judicandi» del giudice (v., da ultimo, Cass., sent. n. 27049/2014: «La declaratoria di inammissibilità dell'atto introduttivo del giudizio determina il difetto della «potestas judicandi» del giudice in relazione al merito della controversia, la cui rilevabilità d'ufficio è compatibile con il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., trattandosi di vizio attinente all'esistenza stessa del potere giurisdizionale nel caso concreto»).

 Né può accedersi (secondo quanto propone la parte appellata) ad una interpretazione «costituzionalmente orientata» del disposto di legge, secondo un'applicazione analogica della previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 445-bis c.p.c. (disposizione recentemente fatta salva da ogni sospetto di costituzionalità da codesta Corte con la sentenza n. 243/2014). Nella disposizione richiamata, infatti, l'espletamento del previo accertamento tecnico-preventivo è previsto come condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda di merito volta al riconoscimento del diritto alla prestazione assistenziale o previdenziale: inoltre, «l'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata di ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che l'accertamento tecnico preventivo non è stato espletato ovvero che si e iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell'istanza di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso». La mancata osservanza degli adempimenti richiesti dalla legge, come sottolineato da codesta Corte, «non comporta(no) alcuna compressione dei diritti della parte privata».

La fattispecie non può dunque essere correttamente accostata a quella disciplinata dall'art. 152 disp.att. c.p.c., in cui è esplicito il riferimento all'istituto processuale dell'inammissibilità che, in mancanza di specificazioni legislative,  risulta sempre rilevabile nel corso del processo anche per iniziativa d'ufficio.

9. Rileva il collegio che nel caso dell'art. 152 disp. att. c.p.c. la sanzione è espressamente sancita al fine di evitare una liquidazione delle spese processuali esorbitante rispetto al valore del capitale. Dubita la corte che una conseguenza grave e di così radicale portata quale l'inammissibilità del ricorso risulti adeguata rispetto allo scopo a cui è collegata: tale sproporzione si rende tanto più evidente in un caso in cui, come quello in esame, lo stesso risulta essere stato comunque positivamente raggiunto, non essendovi ragione per dubitare che la liquidazione delle spese abbia superato il valore del capitale. Il precetto legislativo sul punto non presenta equivoci: una volta verificata la violazione dell'obbligo della parte di dichiarare il valore della causa, il giudice, anche in grado di appello, si trova a dover dichiarare inammissibile l'originario ricorso, senza poter procedere all'esame del merito della controversia, e senza poter valutare se quella originaria omissione sia risultata rilevante o meno rispetto al fine dichiarato dalla legge.

V'è dunque da chiedersi se sia consentito al Legislatore introdurre una sanzione quale l'inammissibilità del ricorso, in caso di omessa indicazione del valore della causa, richiesta al solo fine di consentire al giudice medesimo di liquidare correttamente le spese di lite. Una sanzione di tale portata risulta del tutto sproporzionata (e dunque irragionevole la disposizione che la prevede), laddove lo scopo considerato dal legislatore è comunque raggiungibile anche per altra via (come nel caso di specie, in cui nei fatti è stato positivamente conseguito dal giudice, sì che la parte a tutela della quale la norma è stata posta, l'INPS, non ha ragione di formulare doglianze in proposito). Non pare comunque al collegio che il dubbio di costituzionalità possa essere scongiurato attribuendo al giudice la possibilità di applicare di volta in volta la norma previa la verifica, in concreto, della possibilità di ricavare il valore della causa da elementi ulteriori rispetto all'apposita dichiarazione in sede di conclusioni finali del ricorso.

La previsione legislativa della sanzione della inammissibilità a fronte del mancato adempimento della parte mira, come detto, a sottrarre al giudice il potere-dovere di esaminare il merito della controversia: e questo, senza che dal testo delle norma siano formulate eccezioni in considerazione dell'avvenuto raggiungimento dello scopo (d'altronde incompatibili con la portata della sanzione prevista).

10. In base a tali premesse, la previsione dell'art. 152 disp. att. c.p.c. pare pertanto al collegio in contrasto con il canone dell'art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza.

 Ha ben presente il collegio rimettente la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il legislatore dispone di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali (ex plurimis: sentenza n. 216 del 2013, sentenza n. 304 del 2011). Questa stessa giurisprudenza individua però a temperamento di tale discrezionalità, il limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (si vedano le sentenze n. 117 del 2012; n. 52 del 2010; e n. 237 del 2007). Ritiene il collegio che l'art. 152 disp. att. c.p.c. così come formulato, nel prevedere una sanzione così grave ed inemendabile nel corso dello stesso processo, anche in caso di raggiungimento dello scopo di una corretta liquidazione delle spese a carico dell'INPS, abbia superato il limite posto dalla Corte e risulti così viziato da manifesta irragionevolezza.

11. Ma è ravvisabile anche un secondo profilo di illegittimità costituzionale.

Da ultimo, la Cassazione (sent. n. 2143/2015), sulla scia di precedenti decisioni delle Sezioni Unite (sentt. n. 5700/2014 e n. 9558/2014) ha evidenziato che la Corte di Strasburgo ha avuto modo di affermare in più occasioni che le limitazioni all'accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l'intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l'art. 6, comma 1 CEDU, qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c. Francia, 26 luglio 2007; Faltejsek c. Repubblica Ceca, 15 maggio 2008).

 Proprio questa seconda eventualità (sproporzione tra mezzo e risultato) viene all'evidenza nella fattispecie concreta: nella quale il collegio si troverebbe costretto a dichiarare inammissibile il ricorso, con conseguente necessità per la parte ricorrente di una nuova iniziativa giudiziaria (peraltro minacciata dal maturare di termini di decadenza, ovvero di prescrizione, relativi al diritto vantato e già riconosciuto come sussistente dal primo giudice, e comunque contrastante con il principio di portata costituzionale della ragionevole durata del processo). La sproporzione è tanto più evidente se solo si considera che l'iniziativa giudiziaria ha ad oggetto il diritto alla pensione di reversibilità in capo ad un minore, privo di redditi, che già ne ha fruito dal 2009 sino al momento della revoca da parte dell'INPS, che oggi rivendica anche le somme che assume indebitamente versate. La pronuncia di inammissibilità precluderebbe all'originario ricorrente il riconoscimento del diritto ad una prestazione previdenziale che rientra nell'alveo di copertura dell'art. 38 della Costituzione: ciò che rende la sproporzione ancora più evidente e intollerabile. Come è noto, la Corte costituzionale (a partire dalle sentenze nn. 348 e 349/2007) è costante nel ritenere che le norme della CEDU integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna ed una norma CEDU (che deve essere applicata nel significato attribuito dalla Corte EDU), il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un'interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Se questa verifica dà esito negativo e il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost.

12. La questione di legittimità costituzionale dell'art. 152 delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile - come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. b), n. 2, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede «A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità del ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l'importo nelle conclusioni dell'atto introduttivo», risulta, oltre che non manifestamente infondata, anche rilevante, perché solo la eliminazione della sanzione della inammissibilità del ricorso a seguito dell'omessa dichiarazione del valore della causa può consentire l'esame nel merito della fondatezza della pretesa del ricorrente, già affermata dal Tribunale di Torino.

 

P.Q.M.

 

Visti gli art. 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile - come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. b), n. 2, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni nella legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede «A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità del ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l'importo nelle conclusioni dell'atto introduttivo», in relazione agli artt. 3 e 117 della Costituzione;

Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti nonché al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica;

Sospende il giudizio in corso.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale del 14 ottobre 2015, n. 41.