Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 ottobre 2015, n. 20560

Società - Quotazione in un mercato regolamentato - Offerta pubblica di acquisto - Violazione dell’obbligo - Azionisti di minoranza - Diritto al risarcimento - Possibilità di guadagno perduta - Onere della prova - Sussiste

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con atto di citazione notificato il 19.12.2003, P. s.r.l., quale fiduciaria di taluni azionisti di minoranza di F.A. s.p.a., nonché gli altri azionisti di minoranza O.M.I.S.S.I.S.

1.1. Gli istanti chiedevano la condanna delle società convenute, in solido, al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione del disposto dell'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, non avendo le medesime adempiuto l'obbligo di promuovere l'offerta pubblica di acquisto prevista da detta norma, pur avendo, congiuntamente, superato la soglia del 30% del capitale di F. fin dal 18.2.2002.

1.2. Con sentenza n. 10987/2006, depositata il 10.10.2006, il Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda, condannava le convenute al risarcimento dei danni subiti dagli attori, quantificati in misura di € 2,558 per ogni azione di F. da essi detenuta, oltre agli interessi legali ed alle spese di lite.

2. L'appello proposto da F., P. e M. veniva, peraltro, accolto dalla Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 712/2012, depositata il 27.2.2012.

2.1. Con tale pronuncia, il giudice di seconde cure riteneva, anzitutto, che - ad onta della previsione, da parte dell'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998 di un vero e proprio obbligo giuridico di lanciare l'offerta pubblica di acquisto in capo al soggetto che si trovi a detenere un pacchetto azionario superiore al 30% - la funzione di tale strumento sia, nondimeno, solo quella di tutelare il corretto funzionamento del mercato, impedendo al socio "scalatore" di "mettere in minoranza" gli altri soci, costringendoli a conservare una partecipazione resa più difficilmente commerciabile, in quanto "priva di ogni concreta appetibilità sul mercato perché rappresentativa di una porzione del capitale di una società ormai soggetta al dominio dello scalatore".

2.2. La Corte territoriale reputava, inoltre, che l'apparato sanzionatorio prefigurato dall'art. 110 (e dai successivi artt. 173 e 192) del decreto citato - ed, in special modo, la sterilizzazione del diritto di voto connesso all'intera partecipazione detenuta dallo scalatore e l'obbligo, imposto a quest'ultimo, di alienare la partecipazione eccedente nel termine di dodici mesi - sia comunque tale da soddisfare pienamente anche l'interesse dell'azionista di minoranza.

2.3. Il giudice di seconde cure riteneva, infine, che gli odierni ricorrenti avessero fornito un contributo causale determinante alla realizzazione della fusione tra S. e F., dalla quale sarebbe derivato - a parere della Corte - il controllo di F. in capo alle società appellanti, e che, pertanto, essendo il pregiudizio in questione imputabile anche agli stessi azionisti di minoranza, nessun danno risarcibile sarebbe stato, di conseguenza, da riconoscersi ai medesimi, ai sensi dell'art. 1227 c.c.

3. Per la cassazione della sentenza n. 712/2012, hanno proposto, quindi, ricorso, nei confronti della F. S s.p.a., della P. s.p.a. e di M. s.p.a., depositato il 17.5.2012, P. s.r.l., A.P., S. di A.P. & s.a.s., P - s.r.l.,A di A.P. O.M.I.S.S.I.S. affidato a quattro motivi.

3.1. La F. s.p.a., la P. s.p.a. e M. - Banca X s.p.a. hanno replicato con controricorso, contenente, altresì, quello di M., ricorso incidentale condizionato, affidato ad un solo motivo.

4. Con separato ricorso, depositato il 27.3.2013, e del pari affidato a quattro motivi, P.S.F. s.r.l., nonché O.M.I.S.S.I.S. questi ultimi quali interventori nei gradi di merito del giudizio, hanno impugnato, nei confronti delle stesse società, la medesima sentenza n. 712/2012.

4.1. Le resistenti hanno replicato con controricorso, contenente, altresì, quello proposto da M., ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo.

5. Tutte le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Considerato in diritto

 

1. In via pregiudiziale, osserva la Corte che il secondo ricorso, proposto da P. s.r.l., nonché da O.M.I.S.S.I.S.

e depositato il 27.3.2013, come correttamente eccepito da M. e da F.S. deve essere dichiarato inammissibile.

1.1. Ed invero, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel vigente sistema processuale (artt. 333, 334, 335, 343, 371 c.p.c.) l'impugnazione proposta per prima assume carattere ed effetti di impugnazione principale e determina la pendenza dell'unico processo nel quale sono destinate a confluire, per essere decise simultaneamente, tutte le successive impugnazioni eventualmente proposte da altri soccombenti contro la medesima sentenza, le quali pertanto hanno sempre carattere incidentale. E ciò sebbene si tratti di impugnazioni incidentali autonome, dirette contro capi della pronuncia diversi da quelli impugnati in via principale.

1.2. Dette impugnazioni, pertanto, allorché proposte, come nel caso di specie, nelle forme del ricorso principale, anziché in quelle del ricorso incidentale, benché irrituali, sono considerate egualmente ammissibili alla seguente duplice condizione: a) che esse vengano notificate nel termine prescritto per quest'ultimo ricorso dall'art. 370 c.p.c. (ossia nel termine di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale); b) che siano state, inoltre, riunite al gravame preventivamente proposto. Ogni impugnazione successiva alla prima deve, per vero, rispettare i termini previsti, per l'appello e per il ricorso per cassazione incidentali, dagli art. 343 e 371 c.p.c., con la conseguenza che va dichiarata l'ammissibilità delle impugnazioni successive alla prima che, sebbene non rispettose dei termini annuali o abbreviato, intervengano, tuttavia, nei termini previsti dai citati art. 343 e 371, mentre va dichiarata l'inammissibilità delle impugnazioni che non rispettino tali ultimi termini, pur configurandosi come tempestive con riferimento agli artt. 325 e 327 c.p.c. (cfr. Cass. 135/1986; 5601/1990; S.U. 11678/1990;. 7272/1991; 12920/2000; 1940/2004; 5550/2004).

1.3. Orbene, nel caso concreto, il ricorso principale (depositato il 17.5.2012) è stato notificato il 10.5.2012, laddove il secondo ricorso (depositato il 27.3.2013) - da qualificarsi come ricorso incidentale, per le ragioni suindicate - è stato notificato solo il 21.3.2013, ossia ben oltre il termine di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale, previsto dall'art. 370 c.p.c.

1.4. Per le ragioni esposte, pertanto, il ricorso depositato il 27.3.2013 deve essere dichiarato inammissibile.

2. Premesso quanto precede, osserva la Corte che il ricorso incidentale condizionato proposto da M. s.p.a., in quanto avente ad oggetto la questione - logicamente preliminare - concernente l'accertamento in fatto, da parte del giudice di appello, circa l'esistenza della pretesa elusione delle norme in tema di offerta pubblica di acquisto, deve essere esaminato e deciso con precedenza rispetto al ricorso principale, concernente il merito, ancorché subordinato all'accoglimento di tale ultimo ricorso (cfr., ex plurimis, v , Cass. 111/2004; 17192/2004; 8293/2007; 1582/2008).

2.1. Con l'unico motivo di gravame incidentale, M. s.p.a. denuncia, invero, l'omessa o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c.

2.2. In ordine all'accertamento in fatto circa la pretesa elusione iniziale delle norme in tema di offerta pubblica di acquisto obbligatoria, da parte di M. F. e P., la sentenza di appello, ad avviso della ricorrente in via incidentale, sarebbe, difatti, del tutto priva di adeguata motivazione.

2.3. Il motivo è infondato.

2.3.1. Va osservato, infatti, che la motivazione omessa o insufficiente - ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis - è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l'obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (Cass. S.U. 24148/2013).

2.3.2. Ebbene, nel caso concreto, il giudice di appello ha fornito - contrariamente all'assunto di M. - una congrua motivazione sulla questione relativa all'accertamento delle manovre elusive delle odierne resistenti. Tali manovre sarebbero, invero, determinate - a giudizio della Corte di Appello - da "tutti gli atti e le omissioni posti in essere, congiuntamente o disgiuntamente, da M. e Sai, nonché da P., tra il 1.7.2001 e il 29.12.2002, con riferimento alle azioni F. e ai diritti a queste connessi". Sotto tale profilo, l'elusione è stata ancorata, dal giudice di seconde cure, soprattutto al ruolo equivoco rivestito dagli interposti "cavalieri bianchi", operanti nell'interesse delle società suindicate, in quanto acquirenti della partecipazione azionaria ad un prezzo ampiamente superiore a quello di mercato.

2.3.3. E tuttavia, a parere della Corte territoriale, essendo tali manovre dirette ad eludere l'obbligo di lanciare l'offerta pubblica di acquisto, l'adempimento di tale obbligo, in quanto avvenuto a seguito della fusione tra F. e S. - dalla quale sarebbe conseguita l'acquisizione del controllo di F. da parte delle società suindicate -, avrebbe comportato l'impossibilità di adempiere esattamente l'obbligo di vendita, sancito dall'art. 110 del d.lgs. n. 58 del 1998, delle azioni F. neppure più esistenti ai momento della fusione. Sicché sarebbe venuta meno la ragione per applicare, oltre alle sanzioni pubblicistiche, anche la sanzione dell'azione risarcitoria da parte degli azionisti di minoranza, i quali, peraltro, a parere della Corte di Appello, avrebbero, altresì, offerto un proprio contributo causale alla realizzazione della fusione tra S. e F., con il loro voto nell'assemblea del 19.9.2002.

2.3.4. Dalle considerazioni che precedono consegue, pertanto, che - a prescindere dalla fondatezza dei suesposti assunti della Corte territoriale, sulla quale ci si soffermerà in sede di esame del ricorso principale - il giudice di seconde cure ha motivato adeguatamente in ordine alla questione relativa all'accertamento delle manovre elusive poste in essere delle odierne resistenti.

2.4. Il ricorso incidentale va, di conseguenza, disatteso.

3. Passando, quindi, all'esame del ricorso principale, va rilevato che, con il primo e secondo motivo di ricorso - che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente - i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 106, 109 e 110 del d.lgs n. 58 del 1998, nonché la contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, co. 1, nn. 3 e 5 c.p.c.

3.1. Avrebbe errato la Corte di Appello nel ritenere che l'apparato sanzionatorio previsto dall'art. 110 del d.lgs. n. 58 del 1998 (sterilizzazione del diritto di voto connesso all'intera partecipazione detenuta dallo scalatore ed obbligo per quest'ultimo di alienare la partecipazione eccedente nel termine di dodici mesi) - disposizione che costituirebbe, pertanto, una "lex perfetta", poiché dotata di un sistema di sanzioni autosufficiente - fosse tale da soddisfare pienamente l'interesse dell'azionista di minoranza, rectius il suo "diritto al disinvestimento" della propria partecipazione sociale, in caso di mancato lancio dell'offerta pubblica di acquisto. E ciò nell'evenienza, verificatasi - nella specie - fin dal 18.2.2002, di superamento da parte di uno dei soci della soglia del 30% del capitale sociale di Fondiaria. Tale statuizione del giudice di secondo grado avrebbe, invero, trascurato del tutto il profilo del diritto soggettivo degli azionisti di minoranza "a liquidare il proprio investimento ad un prezzo non dissimile (....) a quello, comprensivo del premio di maggioranza, che il nuovo acquirente del controllo ha corrisposto per realizzare gli acquisti con i quali ha superato la soglia predeterminata dalla legge (30%)".

3.2. La Corte territoriale avrebbe dovuto tenere conto, dunque, del fatto che la disciplina dell'offerta successiva totalitaria obbligatoria sarebbe "volta a tutelare una pluralità di interessi, e/o di diritti non riducibili ad unità". Per il che, essendo la funzione che l'istituto in parola è chiamata ad assolvere "pluri-tutelativa", l'ordinamento - in caso di inadempimento dell'obbligo di lanciare l'offerta pubblica di acquisto, in presenza dell'eccedenza di capitale in capo ad uno dei soci nella misura prevista dalla legge (condotta, correlativamente, "pluri-offensiva") - non solo appresterebbe rimedi pubblicistici di tipo sanzionatorio ex artt. 110, 173 e 192 del d.lgs, n. 58 del 1998, ma consentirebbe, altresì, l'esperimento dei rimedi di diritto comune, ossia il risarcimento del danno, volto a compensare il pregiudizio patrimoniale sofferto, per effetto di tale inadempimento, dai soci pretermessi.

3.3. L'inadempimento dell'obbligo, per lo scalatore, di lanciare l'offerta pubblica di acquisto totalitaria costituente - come, del resto, ha ritenuto la stessa Corte milanese - un vero e proprio "obbligo giuridico", e non un generico "dovere" né, tanto meno, un "onere", darebbe luogo, di conseguenza, ad una responsabilità contrattuale solidale, ai sensi degli artt. 106 e 109 del d.lgs. n. 58 del 1998 (secondo cui, nell'ipotesi di acquisti di partecipazioni di concerto, l'obbligo di offerta ricade sui concertisti), di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda. Ed invero, l'inadempimento di un'obbligazione in senso stretto, specifica e preesistente all'illecito, gravante allo stesso titolo su più debitori, e derivante - come nella specie - da un'espressa previsione di legge, non potrebbe che dare luogo, ad avviso dei ricorrenti, ad una responsabilità contrattuale solidale di tutti i condebitori, ai sensi degli artt. 1218 e 1292 e ss. c.c.

3.4. Di più, la Corte di Appello, con il ritenere che, a fronte a della posizione di soggezione venutasi a creare per gli azionisti di minoranza per effetto della scalata operata dal socio acquirente, vi siano due possibili soluzioni alternative, l'una costituita dall'offerta di acquisto lanciata dallo scalatore nei termini di legge, l'altra - perseguendo la quale verrebbe a crearsi l'estinzione per novazione della precedente obbligazione - costituita dalla sterilizzazione della partecipazione, ai sensi dell'art. 110 del d.lgs. n. 58 del 1998, avrebbe finito, a parere dei deducenti, per riproporre "sotto mentite spoglie", il meccanismo tecnico dell'onere che la Corte stessa aveva escluso poche pagine prima. La scelta per lo scalatore tra il lanciare l'offerta pubblica di acquisto o liberarsi dall'obbligo in questione, ma soggiacendo alle conseguenze negative di cui all'art. 110 (ed ai successivi artt. 173 e 192) del decreto cit., corrisponderebbe, infatti, al modello della norma tecnica dalla quale scaturisce la figura soggettiva dell'onere ("se vuoi a", ossia un risultato favorevole, "devi b", ossia tenere una certa condotta), che la stessa Corte aveva, peraltro, reputato non configurabile nella specie, laddove aveva ritenuto che dalle disposizioni degli artt. 106 e 110 succitate dovesse desumersi, piuttosto, l'esistenza "di un vero e proprio obbligo giuridico di lanciare l'offerta pubblica di acquisto" in capo allo scalatore.

3.5. Del tutto incongrua e contraddittoria si paleserebbe, infine, ad avviso degli istanti, l'impugnata sentenza, nella parte in cui, dopo avere ritenuto che da parte dei concertisti, con la partecipazione dei cd. "cavalieri bianchi", vi sia stata l'elusione delle menzionate norme in materia di offerta pubblica di acquisto obbligatoria, ha, dipoi, affermato che la fusione tra F. e S. dalla quale sarebbe, a suo avviso, derivata l'assunzione del controllo di F. in capo alle odierne resistenti, abbia precluso l'esatto adempimento degli obblighi previsti dall’art. 110 cit., con la conseguenza di rendere inapplicabile, oltre alle sanzioni pubblicistiche, anche la sanzione dell'azione risarcitoria di diritto comune.

3.6. Premesso tutto quanto precede, rileva, in via pregiudiziale, la Corte che l'eccezione di inammissibilità dei motivi in esame - proposta da F. sotto il profilo della preclusione da giudicato interno, che deriverebbe dal fatto che gli odierni ricorrenti, attori vittoriosi in primo grado, non avrebbero impugnato con appello incidentale la decisione di prime cure, nella parte in cui aveva qualificato come "lex perfetta" la norma dell'art. 110 del d.lgs. n. 58 del 1998, stante l'autosufficienza dei rimedi previsti dalla medesima disposizione - è del tutto infondata e non può, pertanto, trovare accoglimento.

3.6.1. Va osservato, infatti, che il giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo di sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente. Tale autonomia, per converso, non sussiste quando si tratti di una mera argomentazione, ossia della semplice esposizione di un’astratta tesi giuridica, pur se essa serva a risolvere questioni strumentali rispetto all'attribuzione del bene controverso (cfr. Cass. 9628/1997; 6757/2001; 738/2002; 10257/2003; 21092/2005).

3.6.2. Ne discende che la questione giuridica concernente la qualificazione dell'art. 110 cit. come "lex perfecta" operata dal Tribunale di Milano - che, peraltro, nel merito ha condannato le odierne resistenti ai risarcimento dei danni, in considerazione dell'elusione, da esse poste in essere, dell'obbligo di rivendita della partecipazione in eccesso - non costituisce un autonomo capo decisorio, in relazione al quale possa formarsi il giudicato interno.

3.6.3. L'eccezione in parola va, pertanto, disattesa.

3.7. Tanto premesso, va osservato che le censure suesposte sono da ritenersi pienamente fondate.

3.7.1. La medesima vicenda processuale, sia pure con riferimento a parti parzialmente diverse, ha già costituito, più volte, oggetto di decisione da parte di questa Corte (cfr. Cass. 14392/2012; 14399/2012; 14400/2012; 22099/2013), e può - in sintesi - essere ricostruita come segue.

3.7.1.1. In data 1.7.2001, la M s.p.a., società controllata da M. s.p.a., stipulava un contratto con la S. s.p.a., in forza del quale quest'ultima acquistava - a condizioni fortemente penalizzanti - un consistente pacchetto di azioni della società assicuratrice. La F. s.p.a., fino al giugno 2001 anch'essa controllata da M. A seguito del diniego di autorizzazione a procedere a tale acquisto, opposto a S - in data 31.12.2001 - da parte dell'operazione veniva diversamente configurata, con l'intervento di società terze (cd. "cavalieri bianchi"), le quali, in data 18.2.2002, rilevavano - nell'interesse di S. e della sua controllante P. - una consistente parte del pacchetto azionario di F. la quale successivamente (delibera del 19.9.2002) veniva a fondersi con la stessa S. (F.).

E tuttavia, a seguito di diverse pronunce giurisdizionali intervenute sulla vicenda e di un comunicato stampa della C. del 18.12.2002, emergeva che i soggetti terzi suindicati avevano agito come soggetti interposti di S. e di P., le quali - con un'azione concertata con M. P diretta ad evitare che F. già controllata da M. venisse a costituire, per un prevedibile tentativo di scalata da parte di F. s.p.a., oggetto di una concentrazione nel diverso gruppo T.A. venivano ad assumere il controllo di F., avendo ormai, congiuntamente, superato la soglia del 30% del capitale di detta società. Pertanto, fin dal 18.2.2002, era insorto a carico di S. P. e M. in solido, l'obbligo di lanciare un'offerta pubblica di acquisto del restante capitale, ai sensi dell'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998.

3.7.1.2. A fronte dell'inadempimento di tale obbligo, il 19.12.2003, la società P. s.r.l., quale fiduciaria di alcuni azionisti di minoranza, ed un nutrito gruppo di altri azionisti di minoranza, adivano il Tribunale di Milano, al fine di ottenere la condanna di S. i, P. e M. in solido, al risarcimento dei danni subiti per effetto della violazione della disposizione suindicata. La causa aveva un esito positivo per gli attori in primo grado, e negativo per i medesimi in secondo grado, in forza della decisione di appello n. 712/2012, gravata con i ricorsi per cassazione oggetto del presente giudizio.

3.7.2. Tutto ciò premesso in punto di fatto, va osservato che - come questa Corte ha più volte avuto modo di affermare, con riferimento alla medesima vicenda - l’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, nell'ipotesi in cui taluno, a seguito di acquisti a titolo oneroso, venga a detenere una partecipazione superiore al 30% delle azioni di una società quotata, prevede che il medesimo debba promuovere un’offerta pubblica di acquisto avente ad oggetto la totalità delle restanti azioni della medesima società. Se l'acquisto di azioni oltre detta soglia sia stato operato da più soggetti, che abbiano agito di concerto, il successivo art. 109 impone, altresì, l'obbligo di offerta pubblica solidalmente a carico di tutti costoro. È, inoltre, lo stesso legislatore a stabilire il prezzo dell'offerta pubblica obbligatoria, che, in base alla disposizione vigente al tempo dei fatti di causa, era misurato sulla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi e quello più elevato pagato dall'offerente per acquistare azioni nel medesimo periodo.

Ma il legislatore si è fatto, altresì, carico di sanzionare l'eventuale violazione di siffatto obbligo, stabilendo che, ove l'offerta pubblica, non sia promossa, il diritto di voto inerente all'intera partecipazione detenuta da colui che vi avrebbe dovuto provvedere non può essere esercitato e che i titoli eccedenti l'indicata percentuale del 30% devono essere alienati entro dodici mesi (art. 110 del decreto cit.). Sono, infine, previste - dal medesimo provvedimento normativo - altre possibili sanzioni amministrative e penali (artt. 173 e 192), irrogabili nell’evenienza in questione.

3.7.3. Orbene, non può revocarsi in dubbio che la normativa in esame muova dal rilievo per cui, chi acquista una partecipazione superiore alla soglia sopra menzionata, si pone, di regola, nella condizione di controllare la società quotata, e che tale vantaggio - il cd. premio di maggioranza - sia normalmente evidenziato dal prezzo di acquisto, per ciò stesso superiore a quello corrente di mercato. L'obbligo di offerta pubblica totalitaria, che ne consegue, fa dunque si che del plusvalore lucrato dal venditore del pacchetto azionario di maggioranza siano posti in condizione di beneficiare (almeno in parte, nel regime normativo applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis) anche gli altri soci, i quali, pur essendo titolari soltanto di partecipazioni minoritarie, hanno pur sempre, con il loro investimento, contribuito alle sorti della società quotata. La ratio insita nella stessa disciplina dell'offerta pubblica obbligatoria è, dunque, quella di consentire che del plusvalore così realizzato dal socio o dai soci alienanti possano, in tutto o in parte, beneficiare anche i rimanenti soci.

3.7.3.1. A tal riguardo, non persuade peraltro, sebbene ben argomentato, l'assunto delle resistenti, secondo le quali tale "premio" o "plusvalore" sarebbe riconosciuto dall'ordinamento agli azionisti di minoranza solo a fronte di un'alterazione significativa degli assetti di controllo della società, evenienza questa che sarebbe, tuttavia, "impedita in radice dall'applicazione dei rimedi di cui all'art. 110 del d.lgs. n. 58 del 1998". Con la conseguenza che, escluso di fatto - nella specie - il controllo della società in capo alle società scalatrici, per effetto della sterilizzazione del diritto di voto e l'obbligo di rivendita azionaria contemplati dal citato art. 110, e non essendosi, pertanto, le acquirenti oltre soglia impossessate del controllo della società, i soci di minoranza non avrebbero avuto alcun interesse qualificato all'exit dalla compagine sociale, la cui lesione possa dare luogo al risarcimento del danno secondo le ordinarie regole civilistiche.

3.7.3.2. E' di tutta evidenza, per contro, che l'art. 106, co. 1, del decreto cit., nel sancire l'obbligo di lanciare l'offerta pubblica di acquisto per chiunque venga a detenere una partecipazione azionaria superiore al 30% del capitale sociale, introduce una presunzione legale iuris et de iure, nel senso di stabilire che il superamento di tale soglia determini, di per sé, il controllo della società da parte dell'acquirente (così Cass. 14392/2012; 14399/2012; 14400/2012; 22099/2013). A tale considerazione induce, peraltro, anche il tenore letterale del co. 5 della norma in esame, laddove demanda alla C. di stabilire, con regolamento, i casi nei quali - in deroga alla regola generale desumibile dal co. 1 - non possa presumersi che il superamento della soglia suindicata comporti il controllo della società, per essersi tale superamento "realizzato in presenza di altri soci che detengono il controllo".

3.7.3.3. Siffatta conclusione, contrariamente all'avviso delle resistenti, è - d'altro canto - confortata dalla disciplina comunitaria in materia. Ed invero, il "controllo" della società che rende necessaria, ai sensi del considerando 2 e 9 della Direttiva 2004/25/CE, la tutela degli "azionisti di minoranza" mediante l'offerta pubblica di acquisto dei loro titoli, si verifica, ai sensi dell'art. 5, par. 1, della medesima Direttiva, quando una persona fisica - per effetto di acquisti propri, o effettuati di concerto con altri soggetti, di partecipazioni di una determinata società - venga ad essere titolare, direttamente o indirettamente, di "diritti di voto in detta società in una percentuale tale da esercitare il controllo della stessa". Detta percentuale di diritti di voto sufficiente a conferire il controllo della società e le relative modalità del calcolo, sono determinate, poi, a norma del par. 3 dell'art. 5 cit., "dalle norme dello Stato membro in cui la società ha la propria sede legale". Ebbene, è di tutta evidenza che nel nostro ordinamento tale percentuale -soglia è stata determinata nella misura del 30% del capitale sociale; sicché, una volta superato il tasso di eccedenza in parola, il controllo della società deve considerarsi, per ciò, solo, acquisito dal soggetto che sia titolare di tale partecipazione.

3.7.4. Tutto ciò premesso, appare innegabile che il descritto meccanismo legale, pur se concepito anche per la realizzazione di finalità pubblicistiche inerenti al buon funzionamento del mercato finanziario (che giustificano il regime sanzionatorio dal quale la disciplina in esame è corredata), nell’immediato è destinato a realizzare il soddisfacimento di un interesse facente capo ai soci di minoranza, cui il legislatore vuole che l’offerta d’acquisto sia rivolta affinché essi possano scegliere se conservare la titolarità delle loro azioni, confidando in un futuro aumento del valore e della redditività delle stesse, o se monetizzarle per beneficiare anch'essi in qualche misura del premio di maggioranza.

3.7.4.1. Ne discende che la proposizione dell'offerta pubblica d'acquisto, nei casi sopra ricordati, non configura un mero "onere" per l'acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del 30%. La figura dell'onere (cd. dovere libero) si concreta, infatti, in un comportamento necessitato per legge (es. forma ad substantiam ex art. 1350 c.c., onere della prova ex art. 2697 c.c.), imposto per la realizzazione di un interesse proprio dello stesso titolare. Per il che, l'inadempimento del comportamento imposto non crea alcuna responsabilità verso terzi, dal momento che non incide su un interesse altrui, ma comporta esclusivamente conseguenze negative per lo stesso soggetto che ne è gravato, secondo il modello teorico della norma come "imperativo ipotetico" ("se vuoi a devi b").

3.7.4.2. Ma neppure la proposizione dell'offerta pubblica di acquisto si risolve in un generico "dovere", ovverosia in un obbligo di comportamento imposto al fine del soddisfacimento di esigenze di carattere generale, verso soggetti non determinati, che impone al soggetto passivo di cooperare al fine di realizzare l'interesse cui è ordinato il rapporto.

3.7.4.3. Devesi - per vero - ritenere che il comportamento in parola - imposto dall'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998 (chiunque detiene una partecipazione nella eccedenza ivi prevista "promuove un'offerta pubblica di acquisto") - integri un vero e proprio "obbligo", come può evincersi, tra l'altro, dalla stessa previsione di un trattamento manifestamente sanzionatorio connesso alla sua violazione, previsto dal citato art. 110, nonché, per le ulteriori sanzioni amministrative e penali, dai successivi artt. 192 e 173, trattamento che - com'è del tutto evidente - si attaglia esclusivamente alla violazione di un obbligo giuridico.

3.7.4.3.1. Ne discende che, essendo l'offerta pubblica di acquisto, come dianzi detto, finalizzata sia alla realizzazione di finalità pubblicistiche inerenti al buon funzionamento del mercato finanziario, sia - ed in via immediata e diretta - al soddisfacimento di un interesse facente capo ai soci di minoranza, è evidente che la sua finalizzazione alla realizzazione di interessi particolari di soggetti determinati, ne mette in luce la sua natura di vero e proprio obbligo giuridico.

Se è bensì vero, infatti che, al pari del dovere, l'obbligo è una situazione di svantaggio attiva e necessitata, poiché il titolare è tenuto ad un comportamento al quale - di regola - non può sottrarsi, senza andare incontro a conseguenze pregiudizievoli, tuttavia esso, a differenza del dovere, consiste in un "dovere specifico", essendo funzionalmente coordinato alla realizzazione di un particolare interesse di un soggetto determinato: sacrificio di un interesse proprio per il soddisfacimento di un interesse altrui.

D'altra parte, non può considerarsi estranea all' ordinamento la fattispecie costituita da norme che tutelino un mix di interessi pubblici e privati: basti pensare alle disposizioni dalle quali scaturiscono interessi legittimi, o - per restare nel campo del diritto societario - alle norme sui controlli, sia interni (demandati ai sindaci ed agli altri organi di controllo), sia esterni (come il controllo contabile affidato ad un revisore esterno ex art. 2409 bis, il controllo della C. o delle autorità di settore, il controllo giudiziario ex art. 2409 c.c.), che tutelano, ad un tempo, l'interesse pubblico alla trasparenza del mercato e quello dei soci di minoranza alla legalità della gestione.

3.7.4.3.2. Sotto tale profilo, non può, tuttavia, ritenersi - come ha sostenuto la Corte di Appello nell'impugnata sentenza, peraltro sulla scia di una parte della dottrina - che la sterilizzazione del diritto di voto e l’obbligo di rivendita azionaria contemplati dal citato art. 110, a carico di chi non abbia promosso un'offerta pubblica di acquisto cui era tenuto, assumano i connotati di un'obbligazione alternativa, rispetto a quella avente ad oggetto il precedente obbligo di promuovere l'offerta. L'alternatività presupporrebbe, invero, che si tratti di due obblighi posti sul medesimo piano, tra i quali il destinatario del precetto possa optare, ed invece il dettato normativo è del tutto chiaro nel prescrivere inderogabilmente l'obbligo di offerta pubblica, quando ne ricorrano le condizioni indicate dal legislatore. Le conseguenze derivanti dal mancato rispetto di tale obbligo costituiscono, dunque, men che un'obbligazione alternativa rimessa alla facoltà di scelta dell’obbligato, niente altro che la reazione sanzionatoria dell'ordinamento alla violazione dell'obbligo suindicato.

D'altro canto, non può sottacersi che, come esattamente rilevato dai ricorrenti, ipotizzare, come ha fatto il giudice di appello, due possibili soluzioni alternative - l'una costituita dall'offerta di acquisto lanciata dallo scalatore nei termini di legge, l'altra, perseguendo la quale verrebbe a crearsi l'estinzione per novazione della precedente obbligazione, costituita dalla sterilizzazione della partecipazione, ai sensi dell'art. 110 del d.lgs. n. 58 del 1998 - significherebbe riproporre, "sotto mentite spoglie", il meccanismo tecnico dell'onere che la stessa Corte aveva affermato, invece, di volere escludere.

3.7.4.3.3. La natura di vero e proprio "obbligo" rivestita dall'offerta pubblica di acquisto, in quanto diretta a soddisfare anche interessi particolari dei soci di minoranza, riceve, peraltro, un'ulteriore, decisiva, conferma dalla Direttiva 2004/25/CE (successiva ai fatti di causa, ma evidentemente ispirata da principi preesistenti), che fa espressamente riferimento alle offerte pubbliche d'acquisto come a "misure necessarie per tutelare i possessori di titoli, in particolare quelli con partecipazioni di minoranza" (così il considerando 9), ed alla necessità, per colui che acquisiti una percentuale tale del capitale sociale da consentirgli di esercitare il controllo sulla società, di "promuovere un'offerta per tutelare gli azionisti di minoranza di tale società" (art. 5).

In tal senso, la Corte di Giustizia non ha mancato di evidenziare come, in subiecta materia, il diritto comunitario, pur demandando alla discrezionalità degli Stati membri la tutela degli azionisti di minoranza mediante l'offerta pubblica di acquisto, ha, tuttavia, imposto ai medesimi Stati una cd. "armonizzazione minima", ossia "un'equivalenza minima nella protezione degli azionisti in tutti gli Stati membri", "ammettendo che gli azionisti di minoranza necessitino di una tutela particolare".

3.7.5. Ebbene, è evidente che - presupponendo, in qualsiasi rapporto obbligatorio, l'imposizione di un obbligo la sussistenza di una contrapposta situazione soggettiva attiva dell'altro soggetto -qualora sia inadempiuto l'obbligo suindicato, ovverosia di offerta pubblica di acquisto totalitaria, ai sensi dell'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, gravante a carico dell'acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del 30 per cento, viene ad essere leso il diritto degli azionisti di minoranza all'exit ed alla partecipazione al cd. premio di controllo, cui l’offerta di acquisto avrebbe dovuto essere rivolta. In tal senso, la più attenta dottrina non ha mancato - per vero - di osservare come, sul piano sistematico, l'espresso riconoscimento legislativo dell'idoneità dell'offerta pubblica di acquisto a surrogare il diritto di recesso del socio, nelle ipotesi contemplate dall'art. 2497-quater c.c., lett. c), sia significativo del fatto che, quando ricorrono le condizioni cui la legge ricollega l'obbligo di simili offerte pubbliche, la posizione giuridica dei destinatari dell'offerta si configura quale diritto soggettivo, non diversamente da come lo è il diritto di recesso.

A fronte della lesione di tale posizione soggettiva non può, pertanto, che insorgere - secondo le ordinarie regole civilistiche - l'ulteriore diritto soggettivo al risarcimento del danno patrimoniale "a titolo contrattuale" (o "ex lege"), ove i soci di minoranza dimostrino di avere perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione dell'offerta.

3.7.5.1. Orbene, quanto alla qualificazione giuridica della responsabilità dello scalatore, in caso di lesione di detto diritto soggettivo, deve rilevarsi che la giurisprudenza ammette ormai pacificamente che tra i fatti idonei a generare un'obbligazione vanno annoverate tutte le situazioni che, a vario titolo e in ragione dell'instaurarsi di un "contatto qualificato" tra più soggetti, creano un affidamento di uno di essi nell'altrui condotta. Ciò avviene, ad esempio, nel rapporto tra paziente e medico della struttura ospedaliera pubblica, terzo rispetto al contratto concluso con l'azienda sanitaria; tra alunno ed insegnante, terzi rispetto al contratto concluso dai genitori con l'istituto scolastico; tra cittadino e pubblica amministrazione per quanto concerne i danni cagionati da atti illegittimi. Ed è chiaro che l’instaurarsi, a monte dell'illecito, di una relazione tra i due soggetti, dalla quale consegue per uno di essi "l'obbligo di protezione" dell'interesse dell'altro, attrae la fattispecie risarcitoria, che insorge in conseguenza della lesione, nell'orbita della responsabilità contrattuale, e non certo di quella aquiliana.

3.7.5.2. Il contesto sistematico e giurisprudenziale consente, di affermare l'esistenza, in caso di scalata di una società, di un affidamento del socio di minoranza all'esercizio del diritto di exit e contestuale realizzo del c.d. premio di controllo, tramite l'adesione all'offerta pubblica obbligatoria che lo scalatore è tenuto a lanciare, al ricorrere dei presupposti dell'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998. Ne consegue che il superamento della soglia partecipativa del 30% costituisce un fatto idoneo, rilevante ex art. 1173 c.c., da cui scaturisce l'obbligazlone, a carico dello scalatore - nei confronti di soggetti determinati, appunto i soci di minoranza - di lanciare l'offerta pubblica di acquisto. L'eventuale sua condotta omissiva assume quindi rilevanza ai fini risarcitori ex art. 1218 c.c., con le conseguenti ricadute soprattutto sul piano dell'onere della prova (presunzione dì responsabilità) e della prescrizione (decennale).

3.7.6. Nella violazione di tale normativa, la lesione dell'interesse soggettivo tutelato non trova - per vero - protezione esaustiva nelle menzionate sanzioni penali ed amministrative, finalizzate alla soddisfazione dello scopo pubblicistico di tutela del buon funzionamento del mercato finanziario. Come si è rilevato nelle precedenti decisioni emesse da questa Corte nella medesima vicenda, tali sanzioni hanno, infatti, essenzialmente una valenza deterrente, giacché mirano a scoraggiare l’acquisizione di un controllo azionario che, ove l'obbligo di offerta pubblica non sia rispettato, rischierebbe di rivelarsi per l'acquirente inutile ed addirittura svantaggioso.

Certo, anche il diritto al risarcimento del danno, spettante a chi abbia visto Illegittimamente pregiudicato un interesse soggettivo tutelato dalla normativa, di fatto può concorrere ad esercitare una funzione deterrente. E tuttavia, tale diritto si pone su un piano diverso, poiché è nel risarcimento, e non nelle sanzioni, che la lesione di quell’interesse soggettivo trova riparo.

3.7.6.1. Se taluno, incurante del rischio d'incorrere nelle sanzioni sopra menzionate, o confidando nella possibilità di eluderle in qualche modo, viola l'obbligo di promuovere l’offerta pubblica, pur versando in una situazione che glielo imporrebbe, non v'è ragione, infatti, per negare il diritto al risarcimento in favore di coloro nei confronti dei quali la prestazione inadempiuta avrebbe dovuto essere resa. Né la circostanza che quell’obbligo non sia suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica, essendo tale rimedio difficilmente conciliabile con il meccanismo sanzionatorio legale sopra descritto, basta a precludere - com'è del tutto evidente - il ricorso al diverso rimedio del risarcimento per equivalente.

3.7.6.2. Beninteso, ciò evidentemente non impedisce che, in determinate situazioni, l'applicazione delle sanzioni, ed in particolare l'obbligo di alienazione azionaria previsto dal citato art. 110, possa in concreto avere dei riflessi anche sulla posizione soggettiva degli azionisti che si sono visti in precedenza negare l’offerta di acquisto cui avrebbero avuto diritto, e che, per le conseguenti vicende del mercato, il pregiudizio da essi sofferto ne possa magari risultare ridotto o eliso. Ma si tratta di una questione di fatto, da affrontare e risolvere - caso per caso - in base all’andamento di ciascuna singola vicenda, senza che se ne possa ricavare un'incompatibilità di ordine logico tra la pretesa risarcitoria degli azionisti privati dell'offerta e l’attuazione delle misure previste dal menzionato art. 110.

3.7.7. Da tutto quanto suesposto discende, pertanto, che la perdita di detta opzione di acquisto, che l'offerta pubblica di acquisto obbligatoria omessa avrebbe dovuto assicurare, determina un danno risarcibile, ove gli azionisti di minoranza dimostrino di avere perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione dell'offerta, che può anche non coincidere in modo automatico con il prezzo di vendita se l'offerta fosse intervenuta, dovendosi considerare anche gli eventi successivi incidenti sul valore di borsa delle azioni rimaste in portafoglio (cfr., in termini, Cass. 14392/2012; 14399/2012; 14400/2012; 22099/2013).

3.7.8. Le considerazioni tutte fin qui svolte evidenziano, dunque, che, nel caso di specie, ha errato la Corte di Appello, anzitutto, nel ritenere che la funzione dell'offerta pubblica di acquisto sia solo quella di tutelare il corretto funzionamento del mercato, impedendo al socio "scalatore" di rendere più difficilmente commerciabile, la partecipazione degli altri soci, in quanto "priva di ogni concreta appetibilità sul mercato perché rappresentativa di una porzione del capitale di una società ormai soggetta al dominio dello scalatore" (p.17).

3.7.9. Di conseguenza, si palesa erroneo anche l'ulteriore assunto del giudice di seconde cure, secondo il quale l'apparato sanzionatorio prefigurato dall'art. 110 (e dalle altre norme succitate) del decreto cit. sarebbe tale da soddisfare pienamente anche l'interesse dell'azionista di minoranza, laddove siffatta conclusione si pone in chiaro contrasto con l'affermazione - operata dalla costante giurisprudenza di questa Corte in materia - secondo cui è configurabile un distinto ed autonomo diritto dell'azionista di minoranza al disinvestimento della propria partecipazione azionaria.

3.7.10. Del tutto contraddittorio, oltre che giuridicamente errato, si palesa, infine, l'assunto dell'impugnata sentenza, nella parte in cui, dopo avere ritenuto che da parte dei concertisti, con la partecipazione dei "cavalieri bianchi", vi sia stata l'elusione delle menzionate norme in materia di offerta pubblica di acquisto obbligatoria, ha, dipoi, affermato che la fusione tra F. e S. - dalla quale sarebbe, ad avviso della Corte di Appello, derivata l'assunzione del controllo di F. in capo alle odierne resistenti - abbia precluso l'esatto adempimento degli obblighi previsti in tema di offerta pubblica di acquisto., con la conseguenza di rendere inapplicabile, oltre alle sanzioni pubblicistiche, anche la sanzione dell'azione risarcitoria di diritto comune. E' di tutta evidenza, infatti, che - una volta accertata l'elusione delle succitate disposizioni in tema di offerta pubblica di acquisto da parte di P., M. e F. mediante l'opera svolta dai cd. "cavalieri bianchi", la Corte territoriale avrebbe logicamente dovuto trarne - alla stregua delle considerazioni suesposte circa il passaggio del controllo della società al superamento della percentuale del 30% del capitale sociale - le necessarie conseguenze sul piano dell'avvenuta acquisizione, da parte di dette società, del controllo di F. fin dal 18.2.2002. In tale data, infatti, i cd. "cavalieri bianchi", avendo acquistato una rilevante parte del pacchetto azionario, avevano consentito alle medesime società di superare la suindicata soglia del 30% di capitale di F.

3.8. Per tutte le ragioni fin qui esposte, dunque, le censure in esame devono essere integralmente accolte.

4. Con il terzo e quarto motivo di ricorso - che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente - i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 1227, co. 1, c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 co. 1, nn. 3 e 5 c.p.c.

4.1. La Corte di Appello avrebbe, difatti, erroneamente e del tutto immotivatamente ritenuto che gli odierni ricorrenti, quali soci di minoranza, avessero offerto un proprio contributo causale alla realizzazione della fusione tra S. e F. e che, pertanto, essendo il pregiudizio in questione imputabile anche a detti azionisti di minoranza di F., nessun danno risarcibile andrebbe, di conseguenza, ad essi riconosciuto ai sensi dell'art. 1227 c.c.

4.2. I motivi sono fondati.

4.2.1. La decisione di appello non ha, invero, in alcun modo accertato il concreto contributo recato da ciascun danneggiato alla causazione dell'evento pregiudizievole, né la gravità della colpa a ciascuno di essi ascrivibile, e neppure l'entità delle conseguenze - in ipotesi - riconducibili alla condotta colposa di ciascuno dei creditori.

4.2.2. Ebbene, va - per contro - osservato, al riguardo, che l'ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all'art. 1227, co. 1, c.c., non concretando un'eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, dev'essere esaminata e verificata dal giudice anche d'ufficio, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza, in concreto, della colpa del danneggiato e sulla quantificazione dell'incidenza causale dell'accertata negligenza nella produzione dell'evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte (cfr. Cass. 23734/2009; 18544/2009; 6529/2011). E tale accertamento sarebbe stato, nella specie, tanto più necessario, in quanto la Corte territoriale si è addirittura spinta - in difetto, peraltro, di un idoneo corredo motivazionale - ad escludere del tutto il danno risarcibile, in conseguenza del preteso "concorso determinante" degli azionisti di minoranza nella manovra elusiva, individuata - del tutto erroneamente per le ragioni sopra evidenziate - nella fusione tra S. e F.

4.3. Anche i mezzi in esame vanno, pertanto, accolti.

5. L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell'impugnata sentenza, con rinvio alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione, la quale dovrà procedere a nuovo esame del merito della controversia, al fine di accertare - dandone adeguatamente atto in motivazione - la sussistenza e l'entità del danno risarcibile richiesto in giudizio dai ricorrenti. Il giudice di rinvio si atterrà, a tal fine, al seguente principio di diritto: "in caso di violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, compete agli azionisti cui l'offerta avrebbe dovuto esser rivolta il diritto di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da essi sofferto, ove dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta".

6. Il giudice del rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso depositato il 27.3.2013; rigetta il ricorso incidentale di M.; accoglie il ricorso principale depositato il 17.5.2012; cassa l'impugnata sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.