Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 ottobre 2015, n. 20033

Tributi - Accertamento - Acquisto da Paesi Black List - Termine per contro dedurre - Novanta giorni - Sussiste

 

Considerato in fatto

 

L’Agenzia delle Entrate ricorre nei confronti di L.P. s.p.a. (che resiste con controricorso proponendo altresì ricorso incidentale condizionato) per la cassazione della sentenza di cui in epigrafe con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Iva, Irpeg e Irap in relazione all’anno di imposta 2003, la CTR Lazio confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della società.

In particolare i giudici d’appello, per quanto in questa sede rileva, in ordine alla indeducibilità dei costi relativi ad acquisti da soggetti residenti nell’Oman (paese rientrante nella ed. "black list") per non avere la società adempiuto, a norma dell’art. 110 TUIR, alla separata indicazione in dichiarazione dei predetti costi, e con riguardo alla efficacia o meno della corrispondente dichiarazione integrativa, hanno rilevato che risultava ampiamente dimostrata dalla società l’inerenza dei costi alla propria attività e che l’Ufficio, prima di emettere l’avviso opposto non aveva inviato, a norma dei commi 10 e 11 dell’art. 110 citato, un apposito avviso col quale si dava alla società la possibilità di controdedurre.

 

Ritenuto in diritto

 

Col primo dei tre motivi del ricorso principale l’Agenzia delle entrate, deducendo vizio di insufficiente e illogica motivazione, sostiene che la motivazione in ordine alla contestata mancanza di indicazione specifica dei costi relativi ad acquisti da Paesi rientranti nella cd. "black list" sarebbe tautologica ed apodittica siccome fondata sulla emendabilità della dichiarazione e sul carattere formale della violazione.

La censura è inammissibile innanzitutto perché manca del tutto l’indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis), a norma del quale il motivo di censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. deve contenere una indicazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l'onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è viziata deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un "quid pluris" rispetto all'illustrazione del motivo, e che consenta al giudice dì valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. cass. n. 3897 del 2008).

Solo per completezza va aggiunto che la censura per la sua gran parte riguarda vizi della motivazione in diritto e non esplicita "fatti" decisivi e controversi in ipotesi trascurati dai giudici d’appello ma attiene innanzitutto al fondamento giuridico delle affermazioni effettuate dai giudici d’appello.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli arti. 120 commi 10 e 11 d.lgs. n. 917 del 1986 (nel testo vigente ratione temporis); 2, commi 8 e 8 bis d.p.r n. 322 del 1998; 13 d.lgs. n. 472 del 1997 nonché dell’art. 1 commi 301 e 302 L. n. 296 del 2006, la ricorrente principale chiede a questa Corte di dire se -in base alla disciplina vigente nell’anno 2004, in cui fu presentata la dichiarazione dei redditi per cui è causa- la mancata indicazione separata dei costi sostenuti in Stati non appartenenti alla U.E. e con regimi fiscali favorevoli comportasse l’impossibilità di ottenere il riconoscimento dei costi stessi, senza che il contribuente possa giovarsi della facoltà di presentare una dichiarazione integrativa dopo l’inizio di una attività di verifica da parte dell'Ufficio impositore, e senza possibilità di invocare il più favorevole regime introdotto dall’art. 1 commi 301 e 302 d.lgs. 296/06 -secondo cui la violazione contestata comporta la sola applicazione di una sanzione pecuniaria e non pure l’indeducibilità dei costi relativi alle operazione intercorse con i fornitori esteri e non specificamente indicati in sede di dichiarazione".

La censura è infondata alla stregua della recente giurisprudenza di questo giudice di legittimità -alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene- secondo la quale l'abolizione del previgente regime di indeducibilità dei costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (cd. black list), prevista dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 L. n. 296 del 2006 ha carattere retroattivo, sicché la deducibilità risulta subordinata solo alla prova dell'operatività dell'impresa estera contraente e della effettività della transazione commerciale, mentre la separata indicazione di detti costi è degradata ad obbligo di carattere formale, passibile unicamente di sanzione amministrativa (cfr. cass. n. 6205 del 2015 e tra le altre cass. n. 4030 del 2015).

Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, dell’art. 110 comma 11 d.p.r. n. 917 del 1986, la ricorrente chiede a questa Corte di dire se il contribuente che compie acquisti nei Paesi della black list sia tenuto a fornire la prova dell’effettivo compimento di operazioni commerciali da parte del fornitore estero o dell’effettivo compimento dell’operazione e dell’esistenza di un effettivo interesse a compierla al fine di superare la regola di non deducibilità stabilita dall’art. 110 comma 10 TUIR e se si possa esonerare da tale onere probatorio adducendo la circostanza che l’Ufficio noti gli abbia assegnato il termine di 90 giorni per fornire la prova in via amministrativa, ancorché non avesse adempiuto all’obbligo di indicare specificamente i costi asseritamente sostenuti nella dichiarazione dei redditi.

La censura è infondata.

Il comma 10 dell’art. 110 d.p.r. n. 917 del 1986 prevede tra l’altro che "non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati.

Il successivo comma 11 della medesima disposizione prevede che "le disposizioni di cui al comma 10 non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione, e prevede inoltre che "l'Amministrazione, prima di procedere all'emissione dell'avviso di accertamento d'imposta o di maggiore imposta, deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove predette.

L'Agenzia ricorrente non contesta che nel caso di specie non sia stato concesso alla contribuente il termine di novanta giorni previsto dalla norma citata.

Tanto premesso, il collegio ritiene che siano riferibili anche al termine dilatorio in questione le considerazioni espresse dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 18184 del 2013 relativa alle conseguenze dell’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni previsto dall’art 12 comma 71. n. 212 del 2000.

Secondo la citata sentenza, pur nel silenzio della norma, tale inosservanza non costituisce una mera irregolarità sostanzialmente priva di conseguenze esterne, ma dà luogo ad un vizio di legittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, che può essere fatto valere dal contribuente al fine di ottenere, per ciò solo, in sede contenziosa, l'annullamento dell’atto stesso. E ciò in quanto tale intervallo temporale è destinato a favorire l'interlocuzione tra le parti anteriormente alla (eventuale) emissione del provvedimento, e cioè il contraddittorio procedimentale, che è andato assumendo, in giurisprudenza, in dottrina e nella legislazione, "proprio con specifico riferimento alla materia tributaria, un valore sempre maggiore, quale strumento diretto non solo a garantire il contribuente, ma anche ad assicurare il migliore esercizio della potestà impositiva, il quale, nell'interesse anche dell'ente impostore, risulterà tanto più efficace, quanto più si rivelerà conformato ed adeguato - proprio in virtù del dialogo tra le parti, ove reso possibile- alla situazione del contribuente, con evidenti riflessi positivi anche in termini di deflazione del contenzioso".

E’ inoltre da aggiungere che le sezioni unite, nella citata sentenza che il collegio condivide e ritiene riferibile anche al termine dilatorio di cui in questa sede si controverte, hanno altresì affermato espressamente che "l'inosservanza del termine dilatorio non può che determinare l'invalidità dell'avviso di accertamento emanato prematuramente, quale effetto del vizio del relativo procedimento, costituito dal non aver messo a disposizione del contribuente l'intero lasso di tempo previsto dalla legge per garantirgli la facoltà di partecipare ai procedimento stesso, ... cioè di attivare, e coltivare, il contraddittorio procedimentale.

Deve pertanto concludersi che l'invalidità dell’atto conclusivo del procedimento, pur non espressamente prevista, derivi necessariamente dal sistema ordinamentale, comunitario e nazionale, nel quale la norma opera e, in particolare, dal rilievo che il vizio del procedimento si traduce, nella specie, in una divergenza dal modello normativo dì non lieve entità, considerata la rilevanza della funzione, di diretta derivazione da principi costituzionali, alla quale la disposizione in esame assolve e la forza impediente, rispetto al pieno svolgimento di tale funzione, che assume il fatto viziante.

Tutte le considerazioni che precedono comportano l’assorbimento delle altre censure esposte nel motivo in esame.

Per tutto quanto sopra esposto deve essere dichiarata l'inammissibilità del primo motivo del ricorso e devono essere rigettati i successivi motivi del medesimo ricorso.

Il ricorso incidentale condizionato proposto dalla società deve pertanto dichiararsi assorbito.

Considerata la novità della questione e l’intervento della giurisprudenza sopra richiamata in epoca successiva alla proposizione del ricorso, si ritiene che sussistano giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il primo e rigetta gli altri motivi del ricorso principale. Dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato e compensa le spese del presente giudizio.