Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 ottobre 2015, n. 20043

Tributi - Accertamento - Raddoppio dei termini - Presupposti

 

Ritenuto in fatto

 

I.S. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 6124/01/2014, depositata in data 16/10/2014, con la quale è stata confermata la decisione di primo grado, che aveva respinto il ricorso della contribuente.

La controversia concerne l'impugnazione di un avviso di accertamento, notificato nel dicembre 2012, relativo ad IRPEF, addizionali comunale e regionale dovute per l'anno 2005, a seguito della rettifica, in via induttiva (stante l'omessa dichiarazione dei redditi), del reddito d'impresa della M.C.I. srl, a ristretta base sociale, di cui la I. era, all'epoca, socia (con quota pari al 20%, insieme al coniuge, titolare della restante quota), ad essa imputabile pro - quota, stante la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili extracontabili.

I giudici d'appello hanno sostenuto, in particolare, in ordine all'eccepita decadenza dell'azione accertatrice dell'Amministrazione finanziaria, la piena operatività della proroga dei termini di cui all'art. 43 DPR 600/1973, ai sensi dell'art. 10 l. 289/2002, stante l'effettiva sussistenza, nella specie, di ipotesi di reato, con riguardo all'omessa dichiarazione dei redditi prodotti nell'anno 2005, da parte della società, di cui l’I. era socia e, conseguentemente, "coobbligata in concorso, ex art. 2932 c.c.", oltre che onerata alla vigilanza, ex art. 2639 c.c.. La contribuente non poteva, ad avviso della Commissione, ritenersi estranea alle omissioni poste in essere dalla società "cessionaria", anche per la presunzione di avvenuta distribuzione degli utili extracontabili ai soci, stante la ristretta base societaria della M.C.I. non superata da adeguata prova contraria.

L’intimata Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione, ai soli fini della partecipazione all'udienza pubblica di discussione.

 

Considerato in diritto

 

1. La ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell'art. 43 DPR 600/1973, avendo i giudici d'appello, nel respingere l'eccezione di decadenza dell'Amministrazione dal potere accertativo, stante l'operatività del raddoppio dei termini di accertamento, fissato dal D.L. 223/2006, fatto riferimento ad una denuncia penale (comunicazione di notizia di reato) riguardante un soggetto terzo, il legale rappresentante della società D. srl, già M.C.I. srl, a fronte del principio costituzionale di cui all'art. 27 Cost. (carattere strettamente personale della responsabilità penale), mentre l'azione penale nei confronti della I. era prescritta, trattandosi di dichiarazione infedele (non essendo contestato che la contribuente aveva presentato, nel 2006, la propria dichiarazione dei redditi per l'anno 2005), e comunque nessuna azione penale risultava promossa nei confronti della stessa.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., avendo i giudici della C.T.R. travisato le risultanze documentali (non essendo stata la denuncia penale formulata nei confronti "della società cessionaria", peraltro semmai "ceduta", quanto del suo legale rappresentante).

Infine, con il terzo motivo, la ricorrente invoca la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 2639 e 2729 c.c., nella parte in cui è stata affermata la responsabilità della ricorrente per fatti cui la stessa è rimasta del tutto estranea, anche per effetto della cessione delle quote sociali della D. srl a soggetti terzi, con atto pubblico del gennaio 2006, registrato, né avendo la stessa rivestito ruoli e/o incarichi, tali da comportare un "onere di vigilanza", come affermato dalla C.T.R..

La prima censura è infondata.

Non sussiste la denunciata violazione dell'art. 13 DPR 600/1973 e della disciplina sul raddoppio dei termini di decadenza per l'accertamento, in presenza di una notitia criminis di natura fiscale. L'art. 37 d.l. 223/2006, al comma 24, ha modificato l’art. 43 d.p.r. 600/1973, in base alla previsione che "In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti (cioè gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento) sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione".

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 247/2011, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità del combinato disposto dell'art. 57, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell'art. 37, comma 26, del d.l. n. 223 del 2006 (convertite nella legge n. 248 del 2006), nella parte in cui prevede il raddoppio dei termini di accertamento nel caso di violazioni comportanti obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p, per uno dei reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, ha chiarito che: a) "il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l'obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell'azione penale"; b) l'obbligo di denuncia "sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale"; c) "la lettera della legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciato nel senso che il raddoppio dei termini presuppone necessariamente un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato"; d) subordinare il raddoppio dei termini a un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato, "contrasterebbe anche con il vigente regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento e processo tributario, evidenziato dall'art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000"; e) l'obbligo di denuncia opera quando si "sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione e di non punibilità, che possono essere valutate solo dall'autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita"; f) il pubblico ufficiale "non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia ma deve presentarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall'art. 361 cod. pen. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia" ; g) sussiste "il dovere del Giudice tributario di vagliare autonomamente (o su richiesta del contribuente) la presenza dell'obbligo di denuncia".

Applicando tali principi di diritto alla fattispecie in esame, risulta evidente che, ai fini del solo raddoppio dei termini per l'esercizio dell'azione accertairice, rileva l'astratta configurabiiità di un'ipotesi di reato e l'intervenuta prescrizione del reato non è dì per sé stessa d'impedimento all'applicazione del termine raddoppiato per l’accertamento, proprio perché non rileva né l’esercizio dell'azione penale da parte del p.m., ai sensi dell'articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell'imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, atteso anche il regime di «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento e processo tributario.

Come osservato di recente da questa Corte (Cass. 9974/2015) "i principi enunciati dall'art. 37, come interpretato dalla Corte costituzionale, sono quelli consolidati nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, "perché sussista l'obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 361 c.p., è sufficiente che il pubblico ufficiale che vi è tenuto ravvisi nel fatto il fumus di reato" ... il che significa che "presupposto del concretizzarsi dell’obbligo di riferire all'autorità giudiziaria è l'esistenza di una notizia di reato che, pur non necessitando la certezza o anche il dubbio circa l’esistenza dello stesso, deve essere riconducibile ad una fattispecie illecita", mentre "i giudizi di valore complementari al fatto tipico vale a dire antigiuridicità e dolo, competono invece in via esclusiva all'autorità giudiziaria".

Per impedire che il raddoppio sia adoperato in maniera distorta, ossia comunicando al P.M. notizie di reato manifestamente infondate al solo fine di beneficiare del più ampio termine di decadenza, la Corte costituzionale devolve al giudice di merito il compito di vigilare sull'osservanza degli elementi minimi richiesti dall'art. 331 c.p.p. per l'insorgere dell'obbligo di denuncia e di negare l'applicazione del termine allungato in casi d'iniziative di denuncia palesemente pretestuose, se non addirittura calunniose (art. 368 c.p.c.), rivelatrici di un uso distorto dello strumento legale apprestato dall'art. 37.

Nulla di tutto questo risulta nella specie.

Risulta essere intervenuta una denuncia penale a carico del legale rappresentante della società, per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, essendo l'imposta evasa superiore al limite individuato dall'art. 5 d.Igs. 74/2000. Peraltro, anche con riguardo alla specifica posizione del socio di società a ristretta base sociale, come chiarito dalla Consulta, il raddoppio dei termini per l'accertamento consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale (nella specie, quantomeno, il reato di dichiarazione infedele, avendo la socia, come dedotto anche in ricorso, presentato dichiarazione dei redditi a fini IRPEF per l'anno 2005), indipendentemente dall'effettiva presentazione della denuncia o dall'inizio dell'azione penale.

Il secondo motivo è inammissibile, in quanto si denuncia un error in procedendo per "contrasto con le evidenze documentali", senza individuazione delle disposizioni processuali violate.

Il terzo motivo è inammissibile.

Invero, viene censurata la parte della sentenza nella quale si imputa alla socia l'omessa dichiarazione dei redditi prodotti nel 2005 dalla società, per effetto di un onere di vigilanza derivante dall'art. 2369 c.c., ma non sì censura la statuizione, autonoma, relativa al mancato superamento della presunzione di distribuzione ai soci della società a ristretta base sociale o familiare dei maggiori utili extracontabili conseguiti nel 2005 dalla società.

Il motivo è comunque infondato. E' consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, "in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione, ai soci, degli eventuali utili extracontablli accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati, invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti" (Cass. 2008, n. 18640; Cass. 20722/2010) .

Non risulta tuttavia a tal fine sufficiente né la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili, né il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i ricavi contabilizzati, non risultando né accantonati né investiti, siano stati distribuiti ai soci.

Tale prova contraria, come affermato, non risulta essere stata fornita dalla contribuente.

Quest'ultima si è limitata a dedurre di avere ceduto nel gennaio 2006, la propria quota sociale, ma qui si discute dell'anno d'imposta 2005, e che, dalla verifica delle movimentazioni bancarie, negli anni 2004/2006, non era emersa alcuna "anomalia". Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere respinto.

Non occorre provvedere sulle spese processuali, non avendo l'intimata svolto attività difensiva, salvo che.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; dichiara che ricorrono le condizioni di cui all'art.13 comma 1 quater DPR 115/2002.