Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 29 settembre 2015, n. 19368

Tributi - IVA - Operazioni non imponibili - Cessioni intracomunitarie - Identificazione dell’acquirente - Disponibilità di regolare codice indentificativo - Successiva cessazione della posizione da parte dell’acquirente - Obbligo di verifica per ogni operazione - Non sussiste

 

Osserva:

 

La CTR di Torino ha respinto l’appello dell’Agenzia -appello proposto contro la sentenza n. 59/01/2010 della CTP di Novara che aveva accolto il ricorso della "F.D.G. spa"- annullando l’avviso di accertamento per IVA concernente l’anno 2004 e la conseguente cartella di pagamento (atti impugnati con separati ricorsi, poi riuniti in corso di causa), provvedimenti adottati sulla premessa che alcune cessioni poste in essere dalla società contribuente nei confronti di tre acquirenti di paesi comunitari dovessero considerarsi imponibili perché i predetti acquirenti risultavano avere partita IVA non più attiva al momento dell’effettuazione delle operazioni commerciali, o perché cessati o per avere mutato il numero identificativo.

La predetta CTR -dopo avere dato della astratta riconducibilità degli scambi oggetto di verifica alle cessioni intracomunitarie non imponibili- ha motivato la decisione ritenendo che non vi sia "obbligo tassativo ed automatico, pena l’automatico venir meno del titolo di non imponibilità IVA, del cedente ad attivare la procedura di verifica,...per ogni singola operazione di vendita effettuata nel corso di un rapporto commerciale regolarmente iniziato". Nella specie era stato lo stesso organo accertatore a puntualizzare che il controllo non aveva evidenziato irregolarità in ordine alla prova che la merce fosse stata effettivamente spedita all’estero e regolarmente pagata dal cliente, sicché aveva trovato conferma la circostanza "che inizialmente anche detti acquirenti disponevano di un regolare codice identificativo, salvo poi dismetterlo senza avvertire la cedente nazionale F.D.G. spa che, ignara, ha continuato le vendite". Non si sarebbe perciò potuto imputare alla contribuente una omissione di diligenza dalla quale far discendere l’inapplicabilità del trattamento agevolato. Neppure vi era certezza che i clienti esteri con partita IVA cessata avessero realizzato "l’uscita effettiva dalla categoria di operatore economico", atteso che l’ufficio non aveva effettuato ulteriori verifiche a proposito.

L’Agenzia delle Entrate ha interposto ricorso per cassazione affidato a unico motivo. La parte contribuente non si è difesa.

Il ricorso - ai sensi dell’art.380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c.- può essere definito ai sensi dell’art.375 n.5 c.p.c. Con il primo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione dell’art. 41 primo comma e 50 primo e secondo comma del D.L. n. 331/1993, nonché dell’art. 2697 cod civ) la parte ricorrente si doleva che la Commissione di appello non avesse provveduto ad accertare se la società avesse mai controllato -almeno all’inizio del rapporto commerciale- la veridicità del codice identificativo e si fosse invece concentrata sulla sola questione della buona fede della contribuente circa la "inconoscibilità della cessazione/mutamento del codice identificativo IVA delle controparti commerciali". Per contro, dal combinato disposto degli art. 41 e 50 sopra citati deriva che "il trattamento agevolato consistente nella non imponibilità a tale tributo" è condizionato alla sussistenza di determinati requisiti di legge, tra i quali l’avvenuta conferma da parte dell'Ufficio IVA della veridicità del dato dianzi detto.

Il motivo appare infondato e da disattendersi.

Va anzitutto rimarcato che la Commissione di appello non ha eluso il tema dell’avvenuta instaurazione regolare dei rapporti commerciali con le ditte di cui era stata in seguito contestata la corrispondenza del numero identificativo indicato in fattura rispetto a quello reale, ma anzi ha risolto la questione in favore della società contribuente sulla scorta delle stesse emergenze del PVC, dalle quali ha desunto - come si è detto- che "inizialmente detti acquirenti disponevano di un regolare codice identificativo, salvo poi dismetterlo senza avvertire la cedente nazionale".

Ciò posto, va rimarcato che il concorde indirizzo giurisprudenziale di legittimità è nel senso che "la non imponibilità, più che a un elemento formale e cioè all'indicazione in fattura di un esatto numero identificativo, è legata al requisito sostanziale della soggettività passiva del cessionario comunitario, incorrendosi altrimenti nel divieto di doppia tassazione stabilito dal diritto dell'UE in materia di IVA" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26466 del 17/12/2014, in motivazione). Infatti, "dalle irregolarità delle fatture riguardo all'indicazione di codici identificativi possono derivare conseguenze sul piano sanzionatorio, senza che operazioni per loro natura non imponibili divengano imponibili in dipendenza d'irregolarità formali (in questi termini Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12455 del 28 maggio 2007).

D’altronde, anche la Corte di Giustizia, in causa V.S. (C-587/10), ha evidenziato che il diritto comunitario non osta a che l'amministrazione tributaria di uno Stato membro subordini l'esenzione dall'IVA di una cessione intracomunitaria alla comunicazione, da parte del fornitore, del numero d'identificazione ai fini dell'IVA dell'acquirente, purché, tuttavia, il diniego dell'esenzione non sia opposto unicamente a motivo del fatto che detto obbligo non sia stato rispettato, qualora il fornitore non possa, in buona fede, e dopo aver adottato tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere, comunicare tale numero d'identificazione e fornisca invece indicazioni idonee a dimostrare sufficientemente che l'acquirente è un soggetto passivo che agisce in quanto tale nell'ambito dell'operazione di cui trattasi. Da queste considerazioni, è coerente far derivare la conseguenza che:"La mancata attribuzione di un numero d'identificazione o della sua conferma assumono uno specifico rilievo, ai fini del diniego della non imponibilità della cessione, solo qualora tale violazione formale abbia l'effetto d'impedire la dimostrazione certa che i requisiti sostanziali dell'operazione intracomunitaria siano stati soddisfatti, posto che tali omissioni di per sé non giustificano il diniego" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22127 del 27/09/2013).

Nella specie di causa, non solo manca l’allegazione e la prova da parte dell’onerata Agenzia che la contestata violazione abbia avuto l’effetto di impedire la dimostrazione della corrispondenza a sostanza dell’operazione intracomunitaria, ma anzi sul punto vi è un positivo accertamento da parte dello stesso giudice dell’appello, che è rimasto privo di apposita impugnazione da parte della odierna ricorrente.

Consegue perciò la conclusione che la sentenza d’appello non meriti cassazione, con il rigetto integrale dell’impugnazione.

Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza.

Roma 15 marzo 2015

 

Ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti; che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie; che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;

che le spese di lite non necessitano di regolazione, atteso che la parte vittoriosa non si è costituita.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.