Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 25 settembre 2015, n. 19026

Lavoro - Cessazione del CCNL - Diritti dei lavoratori - Uso transattivo dell’indennità retributiva

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte di Appello di Catania, con la sentenza n. 712/10, rigettava l’impugnazione proposta dalle (...) nei confronti  di (...), avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Catania in data 8 febbraio 2006, n. 206/06.

2. Il (...) dipendente dal 13 luglio 1992 (assunzione dal 1° settembre 1992 con contratto formazione e lavoro, e a tempo indeterminato dal 3 ottobre 1994) aveva adito il Tribunale chiedendo il riconoscimento del diritto alla corresponsione della "indennità speciale istituita con delibera n. 596 del 2 luglio 1974 del Consiglio di Amministrazione della cassa, ratificata dall’Accordo aziendale del 3 luglio 1974, dalla data di assunzione al 30 novembre 2001 (avendola percepita successivamente in ragione di contratto integrativo aziendale che l’aveva attribuita a tutti) e nella misura scaturente dalle variazioni della scala mobile intervenute dal 3 luglio 1974 sugli importi originariamente previsti per la carriera e la qualifica d’appartenenza e, per l’effetto, la condanna della (...) medesima a corrispondere quanto di spettanza a tale titolo.

Resisteva la (...) eccependo che la suddetta indennità era stata soppressa ad opera della delibera commissariale n. 729 del 24 settembre 1982, quindi ripristinata con delibera n. 786/2002, in adempimento delle sentenze nn. 940/86 e 987/86 del Tribunale di Catania, nei confronti dei soli dipendenti in servizio alla data del 24 settembre 1982, infine estesa a tutti i dipendenti per effetto del Contratto integrativo aziendale del 26 novembre 2001, a decorrere dal dicembre 2001, data dalla quale l’indennità era stata corrisposta anche al ricorrente.

3. Il Tribunale accoglieva la domanda nei limiti della eccepita prescrizione e, quindi, considerato l’atto interruttivo del 28 maggio 1999, dal 28 maggio 1994.

4. La Corte d'Appello di Catania rigettava l’impugnazione delle affermando che l’indennità (avente natura di superminimo contrattuale e, quindi, di indennità aggiuntiva rispetto alla retribuzione di base) aveva natura contrattuale, trovando titolo non in un’iniziativa unilaterale ma in un accordo, avente non natura transattiva di un contenzioso in atto, ma sindacale ed era, quindi, frutto di negoziazione.

Pertanto, la stessa non poteva essere soppressa con determinazione unilaterale dell’ente datore di lavoro, ma per il tramite di un atto parimenti negoziato con le organizzazioni sindacali o con gli stessi lavoratori singolarmente.

Né la delibera del commissario straordinario n. 729 del 24 settembre 1982 aveva avuto, oggettivamente, il valore di disdetta dell’accordo sindacale del 1974, avendo inteso, piuttosto, dare atto dell’intervenuto assorbimento dell’indennità nei successivi incrementi stipendiali arrecati dalla contrattazione Assicredito.

Risultava, tuttavia, infondata la premessa, dal momento che l’emolumento in parola, avendo natura retributiva, non poteva considerarsi assorbibile in altri emolumenti (quale il premio di rendimento previsto dal contratto Assicredito) non aventi analogo carattere retributivo.

Di qui l’esigenza avvertita dall’Ente di proporre all’appellato, al momento della successiva assunzione, la rinuncia all’indennità.

5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre la prospettando un articolato motivo di ricorso.

6. Resiste il lavoratore con controricorso.

7. Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica.

 

Motivi della decisione

 

1. Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 366, n. 4, cpc, prospettata dal controricorrente, atteso che, nell’ambito dell’unico motivo di ricorso dedotto, sono chiaramente individuabili i profili di doglianza avverso le motivazioni della sentenza impugnata.

2. Con l’unico motivo di ricorso, articolato in due punti, trattati congiuntamente e che investono nell’insieme la sentenza di appello impugnata, la ricorrente prospetta:

- ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cpc: violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1367, 1372, 1375, 1419, 1424 cc, in relazione agli artt. 2071, 2073, 2074, 2075 cc;

- ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cpc: omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

2.1. Pur convenendo che con l’accordo aziendale del 1974 fosse stata abolita una voce di compenso previgente ed istituita in sua vece una voce retributiva autonoma e che la C. fosse obbligata a riconoscere tale indennità a tutti i dipendenti, trae da ciò conclusioni diverse da quelle cui è pervenuta la Corte d’Appello, esponendo, peraltro, in conclusione che l’indennità in questione, come superminimo, in quanto pur sempre accessorio della retribuzione, come tale poteva essere espunto dal novero delle spettanze del lavoratore, a condizione che non fosse violato il principio di sufficienza della retribuzione ex art. 36 Cost.

La C., nello svolgimento delle censure, illustra che quanto concordato nell’accordo integrativo del 3 luglio 1974, concessione dell’indennità in questione dal 3 luglio 1974, era immediata conseguenza della delibere adottata il 2 luglio 1974 dal Consiglio di Amministrazione che, nel prendere atto della "situazione di profondo disagio che si è venuta a creare nell’ambiente della Cassa, in seguito allo stato di agitazione proclamato dal personale per protestare contro la deliberazione del 25 febbraio riguardante l’assorbimento di un determinato numero di ore di lavoro straordinario nel compenso forfettario per lavoro straordinario ..." decise di abrogare il "compenso forfettario per lavoro straordinario", istituito con delibera n. 524 del 1966 e di concedere, con la suddetta decorrenza, l’indennità.

Il nesso di consequenzialità intercorso tra i due eventi faceva emergere la natura transattiva dell’accordo e con esso della stessa indennità.

L’indennità non solo aveva natura transattiva, ma costituiva lo strumento che le parti avevano individuato per dare in quel momento soluzione ad una trattativa. Ciò trovava conferma nella previsione contenuta nella delibera del 2 luglio 1974, secondo la quale "tutto quanto dal CdA deliberato è subordinato al ritiro senza condizioni da parte degli interessati di ogni azione legale in proposito".

La (...)  richiama a sostegno delle proprie argomentazioni la giurisprudenza di legittimità Cass., n. 1694 del 1997 e n. 8360 del 1996, che è intervenuta su analoghe vicende di fatto.

Ricorda, altresì, che il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione ve estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all'esigenza di evitare, nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto, la perpetuità del vincolo obbligatorio.

La ricorrente deduce, quindi, che la motivazione della Corte d’Appello sulla valenza della delibera 729/82 nella parte in cui disponeva la cessazione dell’erogazione indennità è inficiata da grave errore di ermeneutica e dalla violazione delle norme in materia di interpretazione, conservazione e nullità del contratto, applicabili anche agli atti unilaterali ex art. 1324 cc.

Ciò, in quanto non risulta da alcun atto di causa che tale delibera sia stata ritenuta nulla, ma solo che è stata ritenuta illegittima l’abolizione della indennità.

La suddetta delibera, che prevedeva l’assorbimento del superminimo-indennità nei miglioramenti retributivi, era stata adottata in una complessiva modificazione del trattamento economico dei dipendenti, che si era rivelato parzialmente illegittimo nel momento in cui aveva pregiudicato diritti quesiti dei dipendenti.

Peraltro, afferma la ricorrente, controparte nell’impugnare la rinuncia all’indennità contenuta in una clausola del contratto di lavoro (contratto di lavoro del 3 ottobre 1994), con lettera del 28 maggio 1999, esponeva che "la deliberazione n. 792/82 era stata portata a conoscenza degli organismi regionali di controllo e dei diretti interessati (OO.SS. e personale dipendente), così come riconosciuto dalla Corte di cassazione ai soli fini di validità della disdetta".

Erroneamente la Corte d’Appello ha quindi ritenuto che la delibera in questione non potesse produrre alcun effetto e, in particolare, quello di far cessare l’efficacia dell’accordo aziendale del 3 luglio 1974.

La ricorrente censura, altresì, l’affermazione della Corte d’Appello, relativa alla suddetta clausola di rinuncia (il cui inserimento non si era rivelata una "scelta felice"), secondo la quale "il rifiuto di un diritto non acquisito postula, diversamente, l’esistenza di una legittima aspettativa", affermando che al momento dell’assunzione il lavoratore non era titolare di un diritto quesito e detta clausola, la cui valenza rimaneva estranea al giudizio, era quindi priva di alcuno contenuto, avendo carattere "di stile", e non poteva assumere rilievo al fine di interrompere la prescrizione.

3. Il motivo, sia per quanto riguarda la violazione di legge che il vizio di motivazione, non è fondato e deve essere rigettato.

4. Osserva il Collegio che è priva di rilievo la deduzione circa la natura transattiva dell’accordo aziendale del 3 luglio 1974, istitutivo dell’indennità C., poiché trattandosi di un accordo frutto di negoziazione, lo stesso ha un ineludibile contenuto contrattuale, rispetto al quale non ha sostanziale rilievo che sia stato adottato per risolvere una vertenza sindacale.

Va premesso che i contratti collettivi aziendali devono ritenersi applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso dall’accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo sindacale separato e diverso (Cass. n. 6044 del 2012), fattispecie che non si è verificata nel caso in esame.

La giurisprudenza di questa Corte, come richiamata dalla ricorrente, riconosce che un accordo collettivo stipulato senza limite di durata (come nel caso di specie, quello aziendale del 3 luglio 1974) può essere disdettato da ciascuna delle parti contraenti, nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, cessando, conseguentemente, di avere efficacia. In caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione.

In proposito, si può, altresì, considerare, come affermato sempre da questa Corte, che la contrattazione collettiva non può incidere, in relazione alla regola dell’intangibilità dei diritti quesiti, in senso peggiorativo su posizioni già consolidate o su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte degli stessi, ma solo su diritti del singolo lavoratore non ancora acquisiti. L’adesione degli interessati - iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti - ad un contratto o accordo collettivo può essere, peraltro, non solo esplicita, ma anche implicita, per fatti concludenti, che sono generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative clausole (cfr., Cass. n. 14944 del 2014).

Le considerazioni svolte dalla ricorrente circa la disdettabilità del contratto collettivo senza termine, non appaiono, nella specie, risolutive, perché diviene necessario valutare se la delibera del Commissario straordinario n. 729 del 1982 ha costituito o meno disdetta dell’accordo aziendale che aveva introdotto l’emolumento in parola, costituendo recesso unilaterale, in tal modo venendo esercitato il presupposto, da parte della C., per sciogliersi, quanto all’indennità in parola, dal vincolo contrattuale.

La Corte territoriale, proprio sulla base del tenore testuale dell’atto (quale riportato in ricorso), e, dunque in ossequio al principio secondo cui il primo e principale strumento ermeneutico è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate (ex plurimis, Cass., nn. 28479 del 2005, 4176 del 2007), ha escluso la valenza di disdetta dell’accordo sindacale del 1974.

L’indennità non veniva soppressa, ma veniva ritenuta «assorbita dai miglioramenti successivamente arrecati dalla contrattazione aziendale», e da ciò la sospensione dell’erogazione. In proposito, la Corte d’Appello affermava che la stessa, tuttavia, proprio in quanto superminimo di natura retributiva non poteva costituire oggetto di riassorbimento.

La ricorrente, pur enunciando la violazione di canoni ermeneutici, non espone in qual modo la Corte territoriale se ne sia discostata, prospettando, invece, una diversa lettura della portata dell'atto in questione, il che è inammissibile nel giudizio di legittimità, non potendosi ritenere idonea ad integrare valido motivo di ricorso per cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito che si risolva solo nella contrapposizione di una diversa interpretazione ritenuta corretta dalla parte (cfr., ex plurimis, Cass., n. 8994 del 2001, 16099 del 2003, 5359 del 2004, n. 7500 del 2007, n. 22536 del 2007, n. 22102 del 2009, n. 10554 del 2010)

Dovendo, dunque, ritenersi escluso che la datrice di lavoro avesse disdettato l’accordo aziendale del 1974, non poteva la stessa rendersi inadempiente alla previsione in esso contenuta di corresponsione della suddetta indennità; né, d’altra parte, è stata oggetto di specifica censura l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale il premio di rendimento previsto dal contratto Assicredito non aveva contenuto retributivo analogo all’indennità, cosicché nel primo non avrebbe potuto ritenersi assorbibile la seconda; ne risulta, per conseguenza, non accoglibile la deduzione di intervenuta violazione degli artt. 1419 e 1424 cc.

In definitiva, sul punto fondamentale dell’interpretazione della delibera suddetta, la ricorrente ne deduce l’erroneità dando per presupposto ciò che avrebbe dovuto essere dimostrato, ossia che l’interpretazione stessa, per quanto aveva negato a tale atto valenza di disdetta dell’accordo, era errata per violazione dei canoni di ermeneutica.

La motivazione al riguardo resa dalla Corte territoriale è, peraltro, coerente con i dati acquisiti e perfettamente comprensibile, onde non è accoglibile anche il prospettato vizio di motivazione posto che tale censura (secondo il testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, cpc, applicabile ratione temporis al presente giudizio, anteriore alla novella di cui all'art. 54 del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) consente a questa Corte di legittimità la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie (crf., explurimis, Cass. n. 824 del 2011, n. 13783 del 2006).

Né offre argomenti a favore della complessiva prospettazione della ricorrente il richiamo effettuato dalla stessa a sentenze che hanno interessato vicende in fatto analoghe, emesse su ricorso dei lavoratori, attesa la necessaria attinenza della presente decisione alla fattispecie processuale in esame, come risultante in fatto e in diritto, e dunque la corrispondenza tra decisione e censure proposte rispetto alla sentenza di appello, a loro volta, a pena d’inammissibilità, necessariamente attinenti al decisum della sentenza impugnata.

La perdurante applicabilità dell'indennità in parola, stante la mancata disdetta dell’accordo che l’aveva introdotta, anche ai nuovi assunti toglie decisività alla questione relativa all’interpretazione resa dalla Corte territoriale circa la previsione del contratto individuale di rinunciare alla indennità C. dovendosi peraltro osservare che, felice o meno che sia stato l’inserimento di tale clausola di rinuncia nel contratto stesso, è di piana evidenza che la stessa assume inequivocabilmente il significato di voler dismettere, quanto meno, una legittima aspettativa in ordine a tale emolumento, sicché anche sotto tale profilo, l’interpretazione resane dalla Corte territoriale è, a un tempo, rispettosa del tenore testuale della clausola contrattuale, in ossequio al canone fondamentale di cui all’art. 1362 cc, e del tutto logica; del resto la ricorrente, nell’affermare che tale clausola sarebbe stata di mero stile, muove dal presupposto, non condivisibile alla luce delle considerazioni che precedono, che l’indennità fosse stata espunta dal novero delle componenti della retribuzione per effetto della delibera del Commissario straordinario n. 729 del 24 settembre 1992.

Ne discende, quindi, la non accoglibilità anche del profilo di censura relativo al preteso difetto di contenuto sostanziale dell’impugnativa della suddetta rinuncia e, per ulteriore pretesa conseguenza, della sua inidoneità al fine di interrompere la prescrizione.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro duemilacinquecento per compensi professionali, cento per esborsi, oltre spese generali 15 per cento e accessori come per legge.