Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 18 settembre 2015, n. 18431

Lavoro subordinato - Demansionamento - Contestazione del lavoratore dopo cinque anni non integra acquiescenza

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d’appello di Torino, in parziale accoglimento dell’appello principale di V. e incidentale di G.P. avverso la sentenza di primo grado (che ne aveva accertato il demansionamento subito e condannato la società datrice ad adibirlo a mansioni corrispondenti al suo livello di inquadramento ed equivalenti a quelle di Capo Distretto e a pagargli, a titolo risarcitorio del danno patrimoniale, la somma di € 333.861,13 oltre accessori e spese di giudizio), con sentenza 7 luglio 2008, riduceva la condanna risarcitoria per danno patrimoniale a € 183.472,73 oltre interessi e rivalutazione dal 15 marzo 2008 e condannava V. al pagamento di € 90.000,00 oltre interessi e rivalutazione dalla pronuncia, per danno non patrimoniale e spese del grado.

In esito a critico e argomentato esame delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale riteneva provato (al di là della spettanza dell’onere in capo alla società datrice, infondatamente dolutasi della violazione della sua ripartizione ai sensi dell’art. 2697 c.c.) il demansionamento subito dal lavoratore, per la non equivalenza delle nuove mansioni attribuite, di semplice venditore, rispetto a quelle svolte in precedenza, di capo distretto, nell’irrilevanza dell’inquadramento formale all’interno della società sia come quadro sia come impiegato di VII livello. Essa negava poi la correttezza del criterio statistico di calcolo del danno patrimoniale, comparativo con l’andamento retributivo dei quadri che avevano mantenuto le mansioni già svolte da P. siccome espressione di un principio di parità di trattamento estraneo all’ambito del lavoro privato: sicché, provata l’esistenza di un danno patrimoniale, per la rilevata progressiva riduzione della parte variabile della sua retribuzione, coincidente con il demansionamento subito a fronte della crescita di quella dei predetti, lo liquidava nella somma suindicata, in base al conteggio contenuto nel doc. 15 del lavoratore, non contestato da controparte, proiettato nel periodo 1999-2006 e rivalutato fino al 15 marzo 2008. Riteneva infine, richiamati i precedenti di legittimità in materia, la specifica allegazione e la prova presuntiva del danno da perdita di professionalità ed esistenziale, in relazione alle specifiche modalità, intensità e durata del demansionamento subito e dei suoi riflessi sui suddetti profili relazionali, che liquidava in via equitativa nella misura richiesta di € 60.000,00 per il primo e di € 30.000,00 per il secondo.

Con atto notificalo il 3 luglio 2009, V. ricorre per cassazione con quattro motivi, cui resiste G.P. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2103 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n, 3 c.p.c., per erronea ripartizione dell’onere probatorio, a carico datoriale anziché del lavoratore, non avendo questo neppure allegato la concreta consistenza delle mansioni svolte prima e dopo dell’asserito demansionamento.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., in riferimento agli artt. 2697 e 2103 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per erronea valutazione delle risultanze istruttorie ed omessa considerazione dell’apprezzabile intervallo temporale (cinque anni) decorso prima della reazione del lavoratore al mutamento di mansioni (così da integrare acquiescenza ad esso), con non corretto giudizio di comparazione tra le mansioni svolte prima e dopo il 1999, nell’insufficienza e inidoneità del valorizzato elemento della perdita dell’attività di coordinamento ad integrare la ricorrenza del demansionamento.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2059, 2697, 2103 c.c., in riferimento agli artt. 115, 116 c.p.c.e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per mancanza di allegazione del tipo di danno subito e di relativa prova, nella sua inconfigurabilità in re ipsa, pure nella contraddittorietà dell’esclusione, per la retribuzione fissa, della correttezza di un criterio comparativo statistico, sostanzialmente adottato per la retribuzione variabile.

Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., in riferimento agli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2059, 2697, 2103 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per erroneo riconoscimento del danno non patrimoniale, distinto in professionale ed esistenziale, in difetto di specifica allegazione e prova, tenuto conto della mancanza di sua tipica previsione normativa e dell’insuscettibilità di una sua distinzione in sottocategorie, quale in particolare quella del danno esistenziale, alla luce del più recente insegnamento di legittimità (Cass. s.u. 26792/08), senza neppure adeguata giustificazione argomentativa.

I primi due motivi, relativi a violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2103 c.c., per erronea ripartizione dell’onere probatorio, a carico datoriale anziché del lavoratore (il primo) e per violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., in riferimento agli artt. 2697 e 2103 c.c. e vizio di motivazione, per erronea valutazione delle risultanze istruttorie ed omessa considerazione dell’apprezzabile intervallo temporale di cinque anni decorso prima della reazione del lavoratore al mutamento di mansioni (il secondo), ben possono essere congiuntamente esaminati per la loro stretta connessione.

Essi sono infondati.

In tema di demansionamento e relativo onere probatorio, spetta infatti al lavoratore, potendo reagire al potere direttivo che assuma esercitato illegittimamente, prospettare circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia, con un onere di allegazione di elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio; essendo invece tenuto il datore di lavoro convenuto in giudizio a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, in ordine ai fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.), potendo allegarne altri indicativi, per converso, del legittimo esercizio del potere direttivo (Cass. s.u. 6 marzo 2009, n. 5454.

Sicché, quando dal lavoratore sia allegata una dequalificazione o sia dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o comunque, in base al principio generale stabilito dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766).

E la Corte territoriale ha correttamente applicato i superiori principi, senza incorrere nelle violazioni denunciate, ritenendo provato il demansionamento subito da G.P. per la non equivalenza delle nuove mansioni attribuitegli, di semplice venditore, rispetto a quelle svolte in precedenza, di capo distretto, nell’irrilevanza dell’inquadramento formale all’interno della società sia come quadro sia come impiegato di VII livello.

E tale convincimento essa ha acquisito a seguito di un attento ed approfondito accertamento in fatto, sorretto da critica ed argomentata valutazione delle risultanze istruttorie sia documentali che delle dichiarazioni in particolare rese dai dipendenti V.B. e Z. sentiti come testi in primo grado (per le ragioni esposte a pgg. da 13 a 19 della sentenza): valutazione pertanto insindacabile nell’odierna sede di legittimità.

Quanto poi alla protrazione nel tempo di una situazione illegittima, quale il demansionamento del lavoratore accertato dal giudice di merito, essa è irrilevante: non potendo essere intesa né come acquiescenza del lavoratore alla situazione imposta dal datore (cui compete il potere organizzativo del lavoro), essendo indisponibili gli interessi sottesi ai limiti allo ius variandi datoriale, né come prova della sua tollerabilità, potendo essere proprio la protrazione della situazione di illegittimità a fondare le ragioni che giustifichino le dimissioni (Cass. 13 giugno 2014, n. 13485).

Anche il terzo ed il quarto motivo, rispettivamente relativi a violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2059, 2697, 2103 c.c., in riferimento agli artt. 115, 116 c.p.c.e vizio di motivazione, per mancanza di allegazione del tipo di danno subito e di relativa prova, inconfigurabile in re ipsa (il terzo) e per violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., in riferimento agli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2059, 2697, 2103 c.c. e vizio di motivazione, per erroneo riconoscimento del danno non patrimoniale, distinto in professionale ed esistenziale, in difetto di specifica allegazione e prova (il quarto), possono essere congiuntamente esaminati per la loro stretta connessione.

Ed essi pure sono infondati.

Ora, è noto che; in tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito possa desumere, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, l’esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4652).

Ed è parimenti noto che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, derivante da demansionamento e dequalificazione, non ricorra automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non possa prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Né tale pregiudizio si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. 17 settembre 2010, n. 19785). E la prova (anche in riferimento al risarcimento del danno esistenziale da esso derivante, da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che ne alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno) può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento: assumendo peraltro precipuo rilievo quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832).

Ebbene, nel caso di specie il lavoratore demansionato ha specificamente allegato i danni rivendicati (alla professionalità, essenzialmente consistente nel costante ed inesorabile deterioramento delle capacità professionali; esistenziale; patrimoniale, consistente sia nella diminuzione complessiva della sua retribuzione, in salario variabile e superminimi, sia nella mancata percezione di compensi acquisibili in assenza di dequalificazione: come illustrato a pg. 5 della sentenza), che non sono stati pertanto desunti in via automatica dalla Corte territoriale, in coerente applicazione dei principi di diritto suenunciati. E della loro risarcibilità la Corte subalpina ha offerto motivazione puntuale ed esauriente, sia con riferimento al danno patrimoniale e senza alcuna contraddizione nella sua individuazione in riferimento alla parte variabile della retribuzione (come illustrato a pgg. da 22 a 24 della sentenza), sia con riferimento al danno non patrimoniale (come esposto a pgg. da 25 a 31 della sentenza),

puntualmente identificato nella sua componente di pregiudizio sia alla professionalità, sia alla sua vita di relazione, non genericamente intesa, ma da "perdita di considerazione e prestigio nell’ambito lavorativo capace di riverberarsi altrove e di influenzare tutte le sue relazioni interpersonali" (così a pg. 31 della sentenza): e pertanto con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato (in particolare, secondo le già richiamate: Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4652), come appunto nella specie.

Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna Vodafone Omnitel N.V. alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 7.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.