Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 17 settembre 2015, n. 18294

Lavoro - Portalettere - Contratto a tempo determinato - Nullità del termine - Conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro

 

Fatto e diritto

 

Con sentenza del 19.11.2013, la Corte di appello di Roma rigettava il gravame proposto da S. J. avverso la decisione di primo grado, con la quale era stata respinta la domanda del predetto - lavoratore alle dipendenze della spa Poste Italiane con mansioni di portalettere, presso l’Area Logistico Territoriale Lazio, Abruzzo e Molise CPD Tiburtino SUD, in virtù di contratto a tempo determinato a decorrere dal 1.7.2010 sino al 30.9.2010 - intesa ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto stipulato ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis, del d. Igs. 368/2001, come modificato dalla I. 23.12.2005 n. 266, e la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, nonché la condanna della società alla corresponsione delle retribuzioni non percepite dalla data di risoluzione del rapporto. Osservava la Corte che la disciplina normativa richiamata era esclusiva/alternativa rispetto a quella dell’art. 1 del d. Igs. 368/2001 e non aggiuntiva rispetto a quella generale prevista da tale articolo; che, per le imprese operanti nel settore dei servizi postali, era stata prevista un’autonoma possibilità di stipula di contratti a tempo determinato all’interno di limiti quantitativi e temporali stabiliti dalla norma; che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 214/2009, aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo alla norma in questione e che la Corte di Giustizia, con l’ordinanza 11.11.10 causa C-20/10, aveva affermato che l’adozione dell’art. 2, comma 1 d. Igs. cit., perseguiva uno scopo distinto da quello di garantire l’attuazione dell’accordo quadro nell’ordinamento nazionale, non contrastante con il punto 8, n. 3 della accordo recepito nella Direttiva 1999/70. La violazione della direttiva, come affermato da Cass. 1659/2012, non veniva in rilievo neanche con riferimento al principio di non discriminazione, affermato per la disparità di trattamento non fra differenti categorie di lavoratori a tempo determinato ma per le disparità tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato e la disciplina trovava applicazione a tutti i settori in cui erano impiegati lavoratori assunti a termine indipendentemente dalla tipologia delle mansioni svolte. Il giudice del gravame rilevava, poi, che nel caso concreto erano stati prodotti prospetto di contingentamento e comunicazioni alle oo.ss., che evidenziavano l'avvenuto rispetto della quota del 15% di lavoratori assunti con contratti a tempo determinato e che il contenuto di tale documentazione non aveva ricevuto specifiche contestazioni nel merito da parte dell’appellante, dovendo aversi riguardo a criteri omogenei per la determinazione della percentuale nell’ambito dell’organico complessivo dell’impresa.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il S., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 comma 1 bis del d. Igs. 368/2001, come modificato dalla legge 247 del 2007, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., rilevando che l’interpretazione fornita dalla Corte del merito è in contrasto anche con i principi generali dell’ordinamento che prevedono il contratto a termine come un’eccezione, che il suo utilizzo sia finalizzato al soddisfacimento di esigenze provvisorie, laddove nella specie sarebbe legato a fattori oggettivi quali la peculiarità dell’attività svolta e quindi ad esigenze permanenti e durevoli. Osserva, inoltre, che l’interpretazione fornita sia in violazione del principio di non discriminazione nel momento in cui non esiste alcuna ragione oggettiva giustificatrice dell’apposizione del termine al contratto concretando una discriminazione tra lavoratore a termine e lavoratore a tempo indeterminato. Ritiene che pertanto il comma Ibis introdotto dalla legge 266/2005 sia in evidente contrasto con il diritto comunitario, con i principi fondamentali dell’ordinamento sovranazionale e che vada disapplicato o interpretato secondo le coordinate dell’art. 1 del d. Igs. 368/2001, nel caso concreto pacificamente non rispettate.

Con il secondo motivo, viene dedotta erronea ricostruzione dei fatti di causa con riferimento alla rilevanza della mansione svolta dal lavoratore, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2 , comma Ibis del d. Igs. 368/2001, così come modificato dalla legge 266/2005, e conseguente omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio con riferimento al computo dei dipendenti ai fini della determinazione della clausola di contingentamento ex art. 2 comma 1 bis d. Igs 368/2001, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.. In particolare, si osserva che il beneficio accordato alla spa Poste Italiane da una normativa speciale, come evincibile dalle motivazione della sentenza della C. Cost. 214/09, non possa ricomprendere attività svolte ulteriormente rispetto al servizio postale, al cd. "servizio universale" quali ad esempio, le attività finanziarie e creditizie, che non attengono alla qualità di impresa concessionaria di servizi, ma sono proprie anche di altre imprese, nei cui confronti verrebbe a profilarsi il dubbio, non manifestamente infondato, di violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost..

Con il terzo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c. c. con riferimento all’onere della prova, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 1 bis d. Igs 368/2001 con riferimento al suo ambito di operatività; alla clausola di contingentamento; alla definizione di "organico aziendale", ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., osservandosi, in primo luogo, che era onere della società quello di provare il numero di dipendenti a tempo indeterminato di Poste addetti esclusivamente al servizio di corrispondenza ed il numero di dipendenti a termine assunti ex art. 2, comma Ibis, del d. Igs 368/2001 e che, in ogni caso, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice del gravame, il ricorrente aveva tempestivamente contestato la documentazione prodotta da controparte in riferimento al mancato superamento del limite percentuale di cui alla suddetta norma, sul rilievo che si trattava di documenti di parte assolutamente generici, non comprovanti con certezza il rispetto della clausola di contingentamento.

I dati numerici riportati nel prospetto della società erano privi di riscontro documentale e, comunque, il calcolo era errato, in quanto erano considerati come unità intera anche i dipendenti a tempo parziale, indipendentemente dall’orario lavorativo svolto.

II ricorso è infondato.

Come affermato da questa Corte in relazione alla specifica questione delineata nel primo motivo di impugnazione, il testo del citato art. 2, comma 1 bis, d. Igs. 368/2001 non pone problemi interpretativi laddove prevede la possibilità, per le imprese concessionarie di servizi postali, di stipulare contratti a termine, con i limiti e nei periodi ivi previsti, a prescindere dal ricorrere delle condizioni di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, e senza la necessità di indicare, in sede di stipulazione del contratto, le ragioni obiettive che giustifichino l'apposizione del termine. La diversa interpretazione proposta dal ricorrente, secondo cui, in sostanza, la norma in esame aggiungerebbe condizioni ulteriori rispetto a quelle già contenute nel D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, deve ritenersi contraria alla ratio legis che è manifestamente quella di favorire una parziale liberalizzazione delle assunzioni a termine nel settore delle poste con riguardo alla possibilità di ricorrere nello specifico settore all’apposizione del termine, indipendentemente dalla puntuale indicazione delle ragioni giustificatrici di tale apposizione (cfr. Cass. 11.7.2012 n. 11659, Cass. 26.7.2012 n. 13221). E’ stato, invero, evidenziato come una tale interpretazione della norma abbia trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, la quale, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un'ipotesi di valida apposizione del termine, ha affermato che tale valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell'organico, è direttamente funzionale all'onere gravante sulle imprese stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l'esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all'art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all'adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. E ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell'imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l'effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma.

La piena legittimità della norma in esame è stata, poi, ritenuta anche con riferimento all'assenza di violazione dei principi di cui agli artt. 101, 102 e 104 Cost., essendo stato osservato che la norma censurata si limita a richiedere, per la stipula dei contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l'indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell'organico complessivo), per cui il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.

La disposizione in esame è stata considerata pienamente conforme all'ordinamento comunitario, posto che, come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata, essa trova il proprio fondamento e la propria giustificazione nella direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio e tale impostazione ha trovato conferma anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, che, nell’ ordinanza in data 11 novembre 2010, ha valorizzato, ai fini della propria statuizione, l'assunto che l'adozione dell'art. 2, comma 1 bis, era finalizzata a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l'attuazione della direttiva 1997/67/CE (in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali), con particolare riferimento allo sviluppo del mercato interno dei servizi postali e il miglioramento della qualità del servizio, ossia ad uno scopo distinto da quello dell’attuazione dell'accordo quadro di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 prevista dal D. Lgs. n. 368 del 2001. Sulla base di tale rilievo, la Corte di giustizia ha affermato l'irrilevanza di ogni valutazione circa l'efficacia della tutela garantita dall'art. 2, comma 1 bis, rispetto a quella perseguita dall'accordo quadro con riferimento all'assunzione di lavoratori a tempo determinato, non potendo tale normativa nazionale essere considerata contraria alla clausola 8, n. 3, dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (ai sensi della quale l'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso) di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, ove comporti una reformatio in peius che non sia in alcun modo collegata con l'applicazione dell'accordo quadro, ma sia giustificata dalla distinta necessità di promuovere un obiettivo sostanzialmente diverso.

Con riferimento al profilo della sussistenza di una violazione dei principi della parità di trattamento e di non discriminazione, concernente i lavoratori a tempo determinato assunti da un'impresa postale con riferimento all'insussistenza dell'obbligo di indicare le ragioni oggettive del ricorso ad un primo o unico contratto a termine, la Corte di giustizia, richiamata la propria giurisprudenza secondo cui, nell'ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato, il principio di non discriminazione è stato attuato dall'accordo quadro unicamente per quanto riguarda le disparità di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato (C- 307/05 13 settembre 2007 Del Cerro Alonso), ha precisato che le eventuali disparità di trattamento tra determinate categorie di lavoratori a tempo determinato non sono soggette al principio di non discriminazione sancito dall'accordo quadro (cfr. Cass. 11659/2012 e Cass. 13221/12 cit.).

Quanto al rilievo riferito all’ adozione di un parametro erroneo ai fini della valutazione del rispetto della percentuale del 15%, va evidenziato che nulla la norma dispone in relazione alla tipologia delle mansioni esercitate dai dipendenti ai fini della possibilità di assunzione a termine e che una tale limitazione è estranea anche alle motivazioni adottate dalla Corte costituzionale. Tutto ciò a prescindere dalla considerazione che non si indica quale incidenza assumerebbe in concreto, ai fini della valutazione del rispetto del limite percentuale del 15%, il computo di unità addette a servizi diversi da quelli propriamente caratterizzanti il servizio postale universale e dalla astratta riferibilità dell’attività degli addetti allo sportello anche a compiti ricompresi nel concetto di servizio universale, specie riguardo ai servizi contemplati alla lettera c) dell’art. 3 d Igs 261/99.

In merito al vizio motivazionale dedotto, deve, infine, rilevarsi che la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 e che, pertanto, trova applicazione il nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5, cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 54, comma 1, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

Per le fattispecie ricadenti ratione temporis nel regime risultante dalla modifica dell'art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. ad opera dell'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, il vizio di motivazione - come chiarito da S. U. 7 aprile 2014 n. 8053 - si restringe a quello di violazione di legge. La legge in questo caso è l’art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione". Perché la violazione sussista, secondo le Sezioni Unite, si deve essere in presenza di un vizio "così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione". Mancanza di motivazione si ha quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo "talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum".

Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta)"

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame, alla stregua di quanto osservato in ordine all’applicazione dei parametri di raffronto per la valutazione del limite percentuale di legge e considerato che la motivazione espressa al riguardo non è assente o meramente apparente e che neanche gli argomenti addotti a giustificazione dell'apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori.

La citata sentenza n. 8053/14 delle S.U di questa Corte ha chiarito, riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una questio facti, che il nuovo testo dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. consente tale denuncia nei limiti dell'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

In proposito, è stato altresì chiarito che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. Cit.).

Il "fatto storico" censurabile ex art. 360 n. 5 c.p.c. non può, dunque, identificarsi con il difettoso esame dei parametri in base ai quali è stata condotta la valutazione del giudice di merito ai fini del giudizio sulla legittimità del ricorso all’apposizione del termine al contratto.

Quanto al terzo motivo, è sufficiente osservare, quanto alla dedotta violazione delle regole processuali, che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio in forza del quale la prova del rispetto del limite della percentuale di contingentamento grava sulla società, tenuta all’osservanza della relativa clausola, ritenendo, tuttavia, che, nel caso concreto, a fronte della produzione di documentazione da parte della società oneratane, andasse fatta applicazione della regola processuale secondo la quale, nel processo civile (così come nel rito del lavoro) non occorre la prova dei fatti che, allegati da una parte, non siano stati espressamente contestati dalla controparte (Cass. 4 dicembre 2007 n. 25269). In particolare, quanto alla ritenuta impossibilità di attribuire rilevanza probatoria al prospetto contenente i dati relativi al numero dei dipendenti a tempo indeterminato, il calcolo del relativo 15% e il numero dei contratti a tempo determinato conclusi (dunque indicativo con precisione e specificità dei fatti della cui prova la parte datoriale era gravata) si rileva che lo stesso è stato prodotto dalla Poste Italiane spa, come accertato dai Giudici del merito, con la sua costituzione in primo grado; sarebbe stato dunque onere del lavoratore contestare tali allegazioni in maniera precisa e specifica nel corso dell'udienza di discussione di cui all'art. 420 c.p.c.; l'odierno ricorrente, tuttavia, non ha dedotto, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di averlo fatto (e in che termini) a tale udienza, con la conseguenza che i fatti allegati dalla controparte datoriale dovevano ritenersi pacifici e, come tali, non più oggetto di ulteriore incombente probatorio.

In sostanza la Corte territoriale ha rilevato, in forza del principio di acquisizione probatoria, che il rispetto della percentuale di legge doveva ritenersi dimostrata sulla base dei fatti allegati dalla parte a ciò onerata e non contestata ex adverso e tanto è sufficiente per escludere che la stessa fosse tenuta, una volta affermato il raggiungimento della prova sul punto, per il principio di assorbimento, ad esaminare la pretesa omissione motivazionale in cui sarebbe incorso al riguardo il primo Giudice.

Con riguardo, tuttavia, alle affermazioni contenute in sentenza relative all’avvenuto rispetto del limite numerico di cui alla predetta clausola, sia considerando il criterio "per teste", sia quello "full time equivalent", ma procedendo in entrambi i casi ad un raffronto di dati omogenei rispetto alle categorie di lavoratori ed all’accertamento della consistenza dell’organico complessivo dell’impresa, le censure si rivelano inconferenti, perché prescindono dalla affermazione del giudice del gravame che, anche avendo riguardo al diverso criterio di computo propugnato dall’appellante, il rispetto della clausola era stato garantito dalla società.

La doglianza è, in ogni caso, formulata in dispregio del principio di autosufficienza, non riportandosi i dati indicati in bilancio, asseritamente da utilizzare per definire l’organico di Poste, né richiamandosi in altro modo il contenuto del documento in questione e, soprattutto, è omesso ogni richiamo a deduzioni specifiche e tempestive in tal senso formulate dal ricorrente nelle fasi del merito, pur avendo la Corte d’appello affermato che "le censure mosse ai criteri di calcolo utilizzati da Poste Italiane non risultano efficacemente e tempestivamente formulate", donde l’inammissibilità, per tale verso, del motivo.

Ed invero, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello alla cui stregua, qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al . fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr., tra le tante, Cass. 2.4.2004, n. 6542, Cass. 28.7.2008 n. 20518, Cass. 18.10.2013 n. 23675).

Pertanto, sulla base delle svolte considerazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.

Le spese del presente giudizio vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente, nella misura liquidata in dispositivo.

Essendo stato il ricorso proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014). Nella specie la reiezione del ricorso induce a ritenere la sussistenza degli indicati presupposti.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 2500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.