Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 settembre 2015, n. 18094

Lavoro - Distacco - TFR - Transazione - Genericità ed indeterminatezza

 

Svolgimento del processo

 

1.- Con sentenza del 22 settembre 2008 la Corte di Appello di Torino ha confermato la pronuncia del primo giudice nella parte in cui aveva accolto il ricorso proposto da R.R. nei confronti di Intesa Sanpaolo Spa; con tale decisione la società datrice di lavoro era stata condannata al pagamento di euro 45.669,12 a titolo di maggior importo sul trattamento di fine rapporto per l'incidenza sullo stesso dei compensi percepiti durante il distacco presso sedi estere.

La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, ha condiviso l'assunto del locale tribunale che aveva respinto l'eccezione di improponibilità e/o inammissibilità della domanda sollevata dalla società sulla base di una rinuncia sottoscritta dal R. in data 14 dicembre 2000, prima della risoluzione consensuale del rapporto intervenuta il 31 dicembre 2000.

Ha ritenuto decisivo che al momento della sottoscrizione di tale atto il TFR e le altre competenze di fine rapporto non erano ancora state erogate, per cui il lavoratore "non poteva sottoscrivere una transazione che riguardasse anche competenze da liquidarsi e delle quali, quindi, non poteva sapere se sarebbero state calcolate e corrisposte nella misura dovuta"; ha considerato che vi fosse la prova che al momento dell'atto abdicativo il R. non poteva avere alcuna contezza dell'inserimento o meno dell'assegno di sede estera nella base di calcolo del TFR; ha osservato che le espressioni riportate nella transazione erano di una tale genericità ed indeterminatezza da valere al più come "quietanza a saldo" della complessiva somma pattuita a fronte del recesso anticipato del lavoratore.

Con ricorso del 22 settembre 2009 Intesa Sanpaolo Spa ha domandato la cassazione della sentenza per quattro motivi. Ha resistito con controricorso l'intimato. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

 

Motivi della decisione

 

2. — I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati: con il primo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2113 e 2120 c.c. chiedendo alla Corte se "le rinunzie e transazioni, per poter rientrare nel regime della mera annullabilità previsto dal secondo comma dell'art. 2113 c.c. debbano avere ad oggetto diritti e/o spettanze già liquidate anziché - semplicemente - diritti già maturati";

con il secondo motivo si denuncia vizio ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. chiedendo alla Corte di dire "se l'aver erroneamente equiparato la cobiettiva determinabilità> con l'avvenuta <liquidazione> del diritto di credito abbia condizionato l'interpretazione della transazione stipulata in data 14 dicembre 2000, determinandone così erroneamente la non applicabilità alle differenze di TFR invocate dal sig. R. nel presente giudizio";

con il terzo mezzo di gravame, sempre formulato ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., si chiede alla Corte di dire "se l'aver valutato il profilo della rappresentazione della volontà abdicativa senza aver esaminato tutti gli elementi ricavabili dalla scrittura privata del 14.12.2000 - o desumibili aliunde - non abbia condizionato l'interpretazione della suddetta transazione, determinandone così erroneamente la non applicabilità alle differenze di TFR";

con l'ultima censura, ancora a mente dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. si chiede alla Corte di dire "se l'aver omesso qualsiasi argomentazione in punto di nullità dell'intera transazione - pur in presenza di una specifica censura contenuta nel ricorso in appello e dopo aver affermato la genericità e l'indeterminatezza dell'accordo stesso - non abbia viziato per omessa motivazione la sentenza impugnata".

3. — I motivi possono essere valutati unitariamente in quanto, sotto vari profili, contestano l'interpretazione offerta dai giudici di merito dell'atto sottoscritto dal R. in data 14 dicembre 2000.

Il Collegio giudica i medesimi infondati.

Occorre premettere che l'interpretazione di un atto negoziale è riservata all'esclusiva competenza del giudice del merito (da ultimo Cass. n. 8586 del 2015; in precedenza, ex multis, cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), con una operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto (tra le tante, Cass. n. 9070 del 2013).

Le valutazioni del giudice di merito in ordine all'interpretazione degli atti negoziali soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (ex plurimis, Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003).

Inoltre, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione - ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l'anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito - non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000).

Orbene, nella specie, oltre a non essere denunciata alcuna violazione delle \           regole legali dell'interpretazione, al cospetto dell'approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale - che si esprime con una motivazione congrua, connotata da logicità e completezza - non sono stati evidenziati da parte ricorrente obiettive deficienze o contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, in quanto la banca, nella sostanza, si limita a rivendicare un'alternativa interpretazione plausibile più favorevole perché ritiene che l'atto sottoscritto dal lavoratore esprimerebbe una consapevole volontà abdicativa del diritto poi rivendicato in giudizio.

Ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito - alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito - dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. n. 9120 del 2015; Cass. n. 10044 del 2010; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 10131 del 2006).

Infatti il ricorso in sede di legittimità - riconducibile, in linea generale, al modello dell'argomentazione di carattere confutativo - laddove censuri l'interpretazione del negozio accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l'invalidità dell'interpretazione adottata attraverso l'allegazione (con relativa dimostrazione) dell'inesistenza o dell'assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (in termini: Cass. n. 18375 del 2006; conforme, più di recente, Cass. n. 12360 del 2014 e n. 8586 del 2015).

Nella specie la Corte territoriale, in adesione a quanto già ritenuto dal Tribunale, con la motivazione riportata nello storico della lite, ha plausibilmente escluso che il R., con la sottoscrizione dell'atto del 14 dicembre 2000, avesse inteso rinunciare al computo dell' "assegno di sede estera" nella base di calcolo per il trattamento di fine rapporto, qualificando piuttosto le generiche ed indeterminate dichiarazioni di "non avere null'altro a pretendere da Sanpaolo Imi Spa" e di "rinunciare ... a qualsiasi diritto ed azione, anche giudiziale, nei confronti di Sanpaolo Imi Spa, avente titolo, direttamente o indirettamente, nel rapporto di lavoro intercorso" alla stregua di una "quietanza a saldo".

Come noto, infatti, la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale (tra le altre v. Cass. n. 2146 del 2011; Cass. n. 729 del 2003) in quanto enunciazioni onnicomprensive sono assimilabili alle clausole di stile e non sono di per sé sufficienti a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato (Cass. n. 11536 del 2006; Cass. n. 10537 del 2004).

Solo nel caso in cui, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti, nella dichiarazione liberatoria possono essere ravvisati gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto (da ultimo, per tutte, v. Cass. n. 9120 del 2015).

Proprio per escludere tale consapevolezza la Corte torinese ha evidenziato che "il Signor R. non poteva sottoscrivere una transazione che riguardasse anche competenze da liquidarsi e delle quali, quindi, non poteva sapere se sarebbero state calcolate e corrisposte nella misura dovuta" e non, come si opina nel primo motivo di ricorso, per escludere che si possa rinunciare a diritti in corso di maturazione, purché obiettivamente determinabili.

Peraltro questa Corte ha già avuto modo di ritenere che non è illogico affermare che, a fronte dell’indicazione di un importo complessivo corrisposto una tantum, il lavoratore non può avere la piena cognizione della specifica imputazione di tale somma alle varie competenze spettanti in relazione alla risoluzione del rapporto sì da poter manifestare consapevolmente una volontà abdicativa rispetto alle stesse (Cass. n. 6112 del 2012).

4. — Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

La soccombenza governa le spese del giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.