Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 16 settembre 2015, n. 18192

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Stato d’insolvenza - Dichiarazione - Significato oggettivo

 

Rilevato che è stata depositata la seguente relazione ex art. 380 bis c.p.c.:

"Il giudice designato, letti gli atti del ricorso n. 12438 del 2013; rilevato che la Corte d’Appello di Roma adita in virtù di riassunzione del giudizio seguente a cassazione con rinvio della sentenza n. 5133 del 2008 della medesima Corte territoriale con la quale era stato revocato il fallimento della s.p.a. M.P., ha rigettato il reclamo proposto avverso la sentenza di fallimento;

considerato che la Corte di Cassazione con pronuncia n. 22800 del 20011, stabilita la legittimazione attiva dell’amministratore giudiziario aveva ritenuto: a) che la valutazione dell’attivo poteva ritenersi assorbente esclusivamente nell’ipotesi in cui la società fosse in liquidazione, mentre doveva ritenersi necessario procedere ad una completa indagine della condizione di solvibilità della società debitrice nell’ipotesi, coerente con la fattispecie di società operativa, con conseguente necessario esame dell’esposizione debitoria; b) che l’assoggettamento a sequestro preventivo non potesse escludere lo stato d’insolvenza ogni qual volta la società continui ad operare; considerato, altresì che alla luce degli illustrati principi di diritto la Corte territoriale a sostegno della decisione assunta ha affermato:

- la valutazione dell’insolvenza della società deve riferirsi all’ accertamento dell’incapacità di adempimento da parte della società, comprovato da debiti molto ingenti (845.245 euro nel 2006 oltre a debiti scaduti per 300.000 euro verso il creditore istante e 180.000 euro per protesti), nonché l’ammissione allo stato passivo di un’ulteriore esposizione per 520.701,96 euro. A fronte di tale rilevante esposizione debitoria, a fronte di qualsiasi pagamento doveva ritenersi integrato uno stato irreversibile di dissesto economico-finanziario;

- il sequestro preventivo non ha lo scopo di bloccare l’attività sociale ma esclusivamente di consentirne la prosecuzione sotto il controllo dell’amministratore giudiziario, così come verificatosi nella specie.

rilevato che avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione l’amministratore giudiziario della società fallita affidandosi a due motivi. Ha resistito con controricorso il fallimento; rilevato, altresì, che nel primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 5 della legge fallimentare sotto il profilo dell’insussistenza dei requisiti prescritti per la pronuncia di fallimento oltre che l’omesso esame e l’omessa motivazione in ordine all’applicabilità alla fattispecie dei principi consacrati nel d.lgs n. 159 del 2011. In ordine al primo rilievo è stato evidenziato che l’attivo era notevolmente superiore al passivo se si escludevano i debiti non scaduti tenuto conto di un ingente credito iva e della difficoltà di gestione conseguente al sequestro disposto due mesi prima del fallimento; in ordine al secondo rilievo che la normativa antimafia garantiva in sede di misure di prevenzione il pagamento dei debiti;

Rilevato, infine, che nel secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione della normativa dettata in tema di poteri dell’amministratore giudiziario ex l. 356 del 1992, per non avere la Corte d’Appello tenuto conto dell’incidenza del sequestro sull’amministrazione e gestione della società fallita, attesi i limitati poteri gestori dell’amministratore giudiziario e la necessità di richiedere l’autorizzazione del giudice per tutti gli atti di maggiore rilievo in un’attività imprenditoriale o commerciale. In particolare secondo la parte ricorrente l’amministratore giudiziario ha compiti di mera conservazione ed amministrazione dei beni al fine di salvaguardarne il valore economico ma non può disporre delle risorse societarie e provvedere all’estinzione delle esposizioni debitorie, non potendo intrattenere con terzi rapporti che coinvolgano la rappresentanza negoziale della società;

ritenuta la manifesta infondatezza di tutte le censure formulate in quanto

a) con riferimento al primo motivo l’insolvenza è frutto di una valutazione complessiva della situazione economico patrimoniale che ove adeguatamente motivata (e nella specie non vi è specifica censura al riguardo) è incensurabile; (si richiama al riguardo la recente pronuncia n. 7252 del 2014 "Lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell'imprenditore non è escluso dalla circostanza che l'attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili. In particolare, il significato oggettivo dell' insolvenza, che è quello rilevante agli effetti dell'art. 5 legge fall., deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell'esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l'estinzione dei debiti), nonché nell'impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio. Il convincimento espresso dal giudice di merito circa la sussistenza dello stato di insolvenza costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta"). Peraltro nella specie la dedotta superiorità dell’attivo è meramente affermata mentre privi di rilievo, alla luce della necessità di una valutazione complessiva e non frazionata risulta la suddivisione, anch’essa solo affermata, tra debiti scaduti e quelli non ancora scaduti;

b) con riferimento alla seconda parte del primo motivo se ne deve rilevare la radicale infondatezza trattandosi di richiamo ad una norma non applicabile ratione temporis;

c) con riferimento al secondo motivo (secondo la denominazione contenuta nel ricorso) la censura non colpisce il nucleo della ratio decidendi della pronuncia impugnata che si fonda sulla prosecuzione dell’attività sociale. Peraltro, ancorché con le modalità indicate nel provvedimento di nomina integrate da quelle previste dalla legge, l’amministratore giudiziario ha poteri diretti di gestione della società da esercitarsi anche verso terzi, non potendo altrimenti provvedere neanche alla conservazione del patrimonio sociale.

Ritenuto, pertanto, che ove si condividano i predetti rilievi il ricorso deve essere respinto;

Rilevato altresì che il Fallimento M.P. S.p.A. ha prodotto memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ. con la quale, in adesione alla proposta decisoria formulata dal Consigliere Relatore, ha chiesto che il ricorso venga respinto.

Il Collegio ritiene che la relazione sia pienamente condivisibile: pertanto, il ricorso deve essere rigettato con applicazione della regola della soccombenza in ordine alle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del Fallimento M.P. S.p.A., delle spese processuali del presente procedimento da liquidarsi in Euro 4.000 per compensi, 100 per esborsi oltre accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norme del comma 1-bis dello stesso articolo 13.