Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 26 agosto 2015, n. 17174

Tributi - IVA - Erronea liquidazione in fattura dell’IVA - Operatore che ha assolto all’obbligazione di rivalsa - Diritto alla detrazione ovvero a richiedere il rimborso della eccedenza - Esclusione - Richiesta di rimborso nei limiti dell’importo dell’IVA "effettivamente dovuta" nei confronti del cedente o prestatore

 

Svolgimento del processo

 

La Commissione tributaria della regione Campania, con sentenza in data 14.5.2008 n. 115, ha accolto l’appello dell’Ufficio di Avellino della Agenzia delle Entrate dichiarando legittimo l’avviso di accertamento con il quale era stato contestato il diritto al rimborso della eccedenza d’imposta maturata per l’anno 2000 essendo stata negata detrazione dell’IVA versata in rivalsa da E. s.r.l. in relazione a fatture emesse da Edil D. s.n.c. per prestazioni di lavori eseguite in subappalto, con errata applicazione dell’aliquota IVA ordinaria, anziché con applicazione dell’aliquota ridotta del 4% prevista per lavori di costruzione di fabbricati non di lusso aventi i requisiti di cui alla legge 1.7.1949 n. 408.

I Giudici territoriali, accertavano in base ai documenti prodotti in giudizio (contratti di vendita di appartamenti stipulati da E. s.r.l. nell’anno 2000 nei quali si specificava che gli immobili rientravano nel regime fiscale agevolato ex lege n. 408/1949) la sussistenza della prova dei presupposti previsti dalla legge per l’applicazione della aliquota ridotta del 4% (esecuzione dei lavori di appalto aventi ad oggetto la costruzione - per la successiva rivendita - di immobili non di lusso), ritenendo quindi fondata la pretesa fiscale, ed aggiungevano inoltre che la società committente non avesse, peraltro, neppure titolo a richiedere alla Amministrazione finanziaria la restituzione della imposta - pagata in rivalsa al subappaltatore in misura maggiore del dovuto - atteso che il rapporto tributario avente ad oggetto l’indebito si instaurava esclusivamente tra l’Amministrazione finanziaria ed il subappaltatore Edil D. s.n.c., che aveva emesso le fatture e dunque, in qualità di soggetto passivo, era tenuto a riversare la imposta all’Erario, con la conseguenza che soltanto tale società - appaltatrice era legittimata a ripetere nei confronti della Amministrazione finanziaria le somme indebitamente versate a titolo di imposta.

Anche il motivo di gravame concernente la statuizione relativa alla irrogazione di sanzioni pecuniarie veniva ritenuto infondato dalla CTR che non ravvisava le "obiettive condizioni dì incertezza" richieste per la non punibilità, nella disputabilità del diritto controverso, né i numerosi precedenti della Corte di cassazione .

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi, la società contribuente, con atto ritualmente consegnato per la notifica ex art. 149 c.p.c.. L’Agenzia delle Entrate ed il Ministero della Economia e Finanze non hanno svolto difese, limitandosi a partecipare alla discussione orale. La società ha depositato memoria illustrativa.

 

Motivi della decisione

 

Deve essere dichiarata "ex officio" l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per difetto di legittimazione passiva della parte intimata, non avendo assunto l’Amministrazione statale la posizione di parte processuale nei precedenti gradi del giudizio tributario, introdotto dal contribuente con ricorso notificato in data 28.9.2004, successivamente alla costituzione, disposta dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, e divenuta operativa l’1 gennaio 2001 (ex art. 1 del D.M. 28 dicembre 2000), delle agenzie fiscali, alle quali sono trasferiti i rapporti giuridici relativi alla gestione delle funzioni già esercitate dai dipartimenti delle entrate della Amministrazione statale (cfr. Corte cass. SS.UU. 14.2.2006 n. 3116 e 3118).

Con il primo motivo viene dedotta la violazione della Tabella A all. Dpr n. 633/72 , parte II, punto n. 39, dell’art. 13 ss. legge n. 408/1949, dell’art. 2697 c.c. (360 co l n. 3 c.p.c.), nonché vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (360 co 1 n. 5 c.p.c.).

La società sostiene che la CTR avrebbe errato a ritenere provato il carattere oggettivo del presupposto legale di applicazione della aliquota agevolata IVA (carattere non di lusso dell’immobile) in violazione dell’art. 2697 c.c. sebbene la Amministrazione finanziaria non avesse fornito alcuna prova al riguardo.

Il motivo è inammissibile sotto plurimi profili e comunque anche infondato.

Come infatti puntualizzato dalla Corte, in caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse (sostanziandosi tale formulazione nella proposizione cumulativa di più motivi), affinché non risulti elusa la "ratio" dell'art. 366-bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all'oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l'illustrazione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 5624 del 09/03/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 13868 del 09/06/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 15242 del 12/09/2012; id. Sez. 3, Sentenza n, 12248 del 20/05/2013, secondo cui "in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la congiunta proposizione di doglianze ai sensi dei numeri 3) e 5) dell'art. 360 cod. proc. civ., salvo che non sia accompagnata dalla formulazione, per il primo vizio, del quesito dì diritto, nonché, per il secondo, dal momento di sintesi o riepilogo, in forza della duplice previsione di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile "ratione temporis" alla fattispecie, sebbene abrogato dall’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69)" ; id. Sez. 5, Sentenza n. 16345 del 28/06/2013).

Nella specie il motivo plurimo reca in calce un unico "quesito di diritto" formulato in relazione all’art. 2697 c.c., nel quale -peraltro- la ricorrente si limita a chiedere alla Corte di enunciare, in modo inadeguato alla funzione normofilattica che il quesito ex art. 366 bis c.p.c è volto a sollecitare, un principio meramente reiterativo del dictum normativo (l’Amministrazione finanziaria che pretenda una maggiore imposta è onerata della prova dei presupposti impositivi), omettendo del tutto di formulare la sintesi del fatto controverso e decisivo richiesta dal medesimo art. 366 bis c.p.c. per l’ammissibilità della censura dei vizi motivazionali.

Il motivo, quanto al dedotto "error in judicando" è inoltre inammissibile non cogliendo la "ratio decidendo" della sentenza impugnata.

Ed infatti la CTR non ha fatto errata applicazione della regola sul riparto, avendo correttamente attribuito alla Amministrazione finanziaria l’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa fiscale (e dunque dei presupposti legali di applicazione dell’aliquota agevolata), ed ha deciso la causa esaminando il materiale istruttorio acquisito, operando il relativo giudizio di selezione e valutazione probatoria e ritenendo raggiunta la prova richiesta alla PA in ordine ai presupposti applicativi della aliquota ridotta.

La CTR è, infatti, pervenuta ad accertare i presupposti di applicazione della aliquota agevolata IVA mediante argomentazione presuntiva, in base all’esame di alcuni contratti di vendita degli immobili -realizzati in subappalto- rogati dal notaio Giuseppe Lai lo nel periodo febbraio-aprile 2000, dai quali risultava espressamente che gli appartamenti rispondevano ai requisiti non di lusso di cui alla legge n. 408/1949.

La ricorrente, in realtà, si duole della inesatta rilevazione e valutazione dei fatti provati in giudizio, ed in tal caso allora avrebbe dovuto impugnare la sentenza in relazione al diverso vizio logico della motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., che -pur formulato cumulativamente nello stesso motivo- rimane tuttavia, come in precedenza affermato, precluso all’accesso del sindacato di legittimità per inosservanza del disposto dell’art. 366 bis c.p.c..

Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., nonché il vizio di violazione degli artt. 17, 18, 19, 20 della VI direttiva CEE n. 388/1977; degli artt. 19, 21, 26, 30, 38 bis, del Dpr n. 633/72; dell’art. 24 Cost; degli artt. 2033, 2041, 2697 c.c., in relazione all’art. 360 co l n. 3 c.p.c.

La società censura la sentenza della CTR nella parte in cui esclude il diritto del committente di alla detraibilità IVA corrisposta in rivalsa sulle fatture passive emesse con aliquota d’imposta superiore a quella prevista.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che la controversia ha per oggetto (come emerge sia dalla lettura del ricorso, pag. 2, che della sentenza della CTR, nello "svolgimento del processo") il diritto di E. s.r.l. al rimborso ex art. 30 Dpr n. 633/72 della eccedenza IVA maturata nell’anno 2000.

L’Amministrazione finanziaria con l’avviso di accertamento, da un lato ha disconosciuto il credito in quanto determinato in base ad erronea liquidazione dell’IVA su alcune fatture passive (emesse da Edil D. s.r.l. con applicazione dell’aliquota al 20% anziché al 4%); dall’altro ha rideterminato la compensazione della imposta effettuata per l’anno 2000, evidenziando una maggiore IVA a debito non versata dalla società.

La società ha opposto il predetto avviso di accertamento, chiedendo in via principale l’annullamento in quanto le prestazioni fatturate dovevano ritenersi assoggettate all’aliquota ordinaria del 20%; in subordine (qualora cioè fosse stata accertata la minore IVA effettivamente dovuta in rivalsa alla appaltatrice Edil D. s.r.l.) ha richiesto l’annullamento dell’atto quanto alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie ed alla liquidazione degli interessi di mora, allegando la violazione dell’art. 10 della legge n. 212/2000.

Il Giudice di appello, fuorviato da una inconferente eccezione di merito svolta dall’Ufficio appellato in primo grado e reiterata in grado di appello, secondo cui E. s.r.l. non aveva titolo ad "ottenere la detrazione d’imposta, ma soltanto il cedente poteva chiedere all'Amministrazione finanziaria il rimborso dell’Iva versata in misura maggiore" (cfr. sentenza CTR, svolgimento processo, pag. 2), indicava in motivazione ad abundantiam un’ulteriore "ratio decidendi" sostenendo che E. s.r.l., in quanto estranea al rapporto tributario -avente ad oggetto il pagamento della imposta- tra D. ed Amministrazione finanziaria non era quindi legittimata "ad operare direttamente la detrazione d’imposta pagata.

Tanto premesso, appare evidente la confusione tra differenti fattispecie giuridiche, che emerge dalla motivazione della sentenza ed anche dalla impostazione difensiva della ricorrente, laddove si tende a scambiare la posizione del soggetto che esercita il "diritto alla detrazione" dell’imposta versata nella operazione di acquisto "a monte" (ovvero in caso di eccedenza a credito, ne chiede il rimborso con la dichiarazione fiscale) con la ben diversa posizione del soggetto che ha assolto l’IVA in rivalsa nei confronti del soggetto-passivo (emittente la fattura) e che, sul presupposto del parziale o totale pagamento indebito di detta somma (in quanto l’imposta liquidata in fattura non era dovuta, del tutto -operazione esente o non imponibile- ovvero in parte -errata applicazione di una aliquota maggiore-), ne chiede la restituzione, anziché al soggetto-passivo, direttamente alla Amministrazione finanziaria.

Occorre quindi reindirizzare la soluzione della controversia sulla questione disputata, che è stata oggetto del giudizio, e che viene ad essere ripresa dalla stessa società ricorrente che, nel motivo in esame, rivolge la critica alla predetta statuzione della sentenza di appello ma sul presupposto del diritto della società alla "detrazione" dell’IVA liquidata nella fattura passiva, anche se determinata in modo errato dal cedente/prestatore (nella specie essendo stata applicata una aliquota maggiore a quella che avrebbe dovuto essere applicata in relazione alla specifica operazione compiuta).

Orbene osserva il Collegio che il presupposto costitutivo del diritto alla detrazione IVA deve individuarsi esclusivamente nella duplice condizione essenziale : a) che la obbligazione avente ad oggetto la imposta dovuta in rivalsa, da portare in detrazione, e liquidata nella fattura, sia stata adempiuta dal soggetto passivo ovvero, sia comunque divenuta esigibile (art. 17, paragr. 1, VI dirett. n. 388/1977; art. 167, dirett. n. 112/2006); b) che il soggetto passivo abbia destinato i beni e servizi acquistati/utilizzati per i quali è tenuto in rivalsa al pagamento della imposta, "ai fini di sue operazioni soggette ad imposta" (art. 17, paragr. 2, VI dirett. n. 388/1977; art. 168, paragr. 1, dirett. n. 112/2006).

Pertanto, come ribadito costantemente dalla Corte di Giustizia, il diritto alla detrazione non può essere esercitato in modo difforme dal titolo che lo legittima, e cioè dalla indicazione della imposta come liquidata nella fattura, atteso che, come è dato evincere dall’art. 20, paragr. 1, lett. a), Sesta direttiva n. 77/388/CEE, quando la detrazione d’imposta "è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto", perché la imposta indicata in fattura è in tutto od in parte non dovuta in relazione alla specifica operazione posta in essere, si rende necessario procedere alla rettifica del documento commerciale.

In proposito, già nella sentenza della Corte di Giustizia in data 13.12.1989, in causa C-342/87, Genius Holding BV, è stato definitivamente chiarito che il diritto alla detrazione implica indefettibilmente la effettiva debenza della imposta indicata in fattura, non essendo pertanto sufficiente a consentire l’esercizio del diritto alla detrazione la mera liquidazione nella fattura della imposta qualora questa "non corrisponda ad un 'operazione determinata, perché è più elevata dì quella dovuta per legge o perché l’operazione di cui trattasi non è soggetta all’IVA" (cfr. Corte di Giustizia sentenza 3.12.1989 in causa C-342/87, Genius Holding BV, punti 15-19, che ha puntualizzato come "l’esercizio del diritto di detrazione non si estende all’imposta dovuta esclusivamente per il fatto di essere indicata in fattura analogamente Corte di Giustizia sentenza in data 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy Trans EOOD, punto 42).

Il principio di neutralità dell’IVA richiede, tuttavia, che il soggetto che abbia versato l’imposta non dovuta, in quanto erroneamente liquidata in fattura, possa recuperare tale importo, occorrendo considerare al riguardo che il soggetto "obbligato al pagamento della imposta" non coincide con il soggetto "obbligato in rivalsa", disponendo l’art. 21, paragr. 1, lett. c), della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio in data 17.5.1977, applicabile "ratione temporis", che soggetto passivo d’imposta è esclusivamente colui che " indichi l'imposta sul valore aggiunto in una fattura o in altro documento che ne fa le veci", profilandosi pertanto una divergenza tra il rapporto di diritto civile, instaurato tra cedente/prestatore e cessionario/committente avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligazione in rivalsa, ed il rapporto di diritto tributario, instaurato tra cedente/prestatore (emittente fattura e soggetto-passivo d’imposta) ed Amministrazione finanziaria, avente ad oggetto l’obbligazione di pagamento del tributo.

La giurisprudenza comunitaria ha osservato che in tali casi, in difetto di una specifica disciplina dettata dalla Sesta direttiva, spetta agli Stati membri adottare, nei rispettivi ordinamenti interni, le norme idonee a consentire la rettifica e la correzione di eventuali errori formali o materiali, concernenti la esatta liquidazione della imposta in fattura, mediante misure idonee a realizzare il principio della neutralità dell’IVA (consentendo il recupero della imposta erroneamente indicata in fattura, ed indebitamente versata al Fisco dal soggetto passivo ovvero non potuta portare in detrazione dal soggètto che l’aveva versata in rivalsa) e che, comunque, garantiscano la Comunità dal rischio di perdita del gettito fiscale determinato da condotte fraudolente (cfr. Corte giustizia sentenza 19.9.2000 in causa C- 454/98, Schmeink & Cofreth AG e Manfred Strobel, punti 47-49; id. Corte di giustizia sentenza 18.6.2009, causa C-566/07, Stadeco BV ), dovendo in ogni caso tali misure -laddove impongano l’adempimento di specifici oneri probatori e formali- non eccedere rispetto a tale scopo (principio di proporzionalità), dovendo limitarsi a quanto è necessario ad assicurare la esatta riscossione della imposta ed evitare le frodi (cfr. Corte giustizia sentenza 21.3.2000, in cause riunite C-110/98 e C-147/98, Gabalfrisa, punto 52) così da realizzare un bilanciamento dei contrapposti interessi dei singoli operatori e della Comunità.

Rimane fermo che il recupero della imposta indebitamente versata all’Erario dal soggetto passivo è subordinato alla verifica della buona fede del contribuente, ovvero alla condizione che questi abbia fornito la prova di avere oggettivamente eliminato ogni potenzialità dannosa per l’Erario (perdita di gettito fiscale) determinata dalla erronea fatturazione della imposta (o perché la fattura, che rechi la indicazione della imposta superiore od inferiore a quella effettivamente dovuta, sia stata ritirata o distrutta dall’emittente, o perché quest’ultimo si sia tempestivamente attivato presso gli Uffici finanziari per elidere in concreto gli effetti della imposta indebitamente fatturata: cfr. Corte di giustizia sentenza in data 19.9.2000, in causa C-454/98 Schmeink & Cofreth AG e Manfred Strobel, punti 58-61 e 70; Corte di giustizia sentenza 18.6.2009, causa C-566/07, Stadeco BV, punto 28-32; Corte di giustizia sentenza in data 11.4.2013, C-138/12, Rusedespred OOD, punti 23-30).

Quanto alla azionabilità della pretesa restitutoria della imposta indebitamente versata, direttamente nei confronti della Amministrazione finanziaria, questa Corte ha affermato che in tema di IVA, una corretta lettura degli artt. 17 e 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, consente di identificare nel cedente del bene (o nel prestatore del servizio) il soggetto, da un lato, legittimato a pretendere il rimborso dall'amministrazione finanziaria e, dall’altro, obbligato a restituire al cessionario (o al committente) la somma pagata a titolo di rivalsa. Infatti, i tre rapporti che discendono dal compimento dell'operazione imponibile (1-tra l'amministrazione finanziaria e il cedente, relativamente al pagamento dell'imposta; 2-tra il cedente ed il cessionario, in ordine alla rivalsa; 3-tra l'amministrazione ed il cessionario, per ciò che attiene alla "detrazione dell’imposta" assolta in via di rivalsa), pur essendo collegati, non interferiscono tra loro. Ne consegue: che il cedente non può opporre al cessionario - il quale agisca nei suoi confronti per restituzione dell’indebito - l'avvenuto versamento dell'imposta; che il cessionario non può opporre all'amministrazione - che escluda la detrazione della imposta erroneamente liquidata in fattura - che l'imposta è stata assolta in via di rivalsa e versata all'amministrazione medesima; ed infine, che solo il cedente ha titolo ad agire per il rimborso nei confronti dell'amministrazione, la quale, pertanto, essendo estranea al rapporto tra cedente e cessionario, non può essere tenuta a rimborsare direttamente a quest'ultimo quanto dallo stesso versato in via di rivalsa (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 6419 del 22/04/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 6632 del 29/04/2003; id. Sez. 5, Sentenza n. 14933 del 06/07/2011; vedi, con riferimento alla triplice natura dei rapporti che derivano dalla medesima operazione economica: Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 24794 del 24/11/2005; Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 4020 del 14/03/2012).

Il principio enunciato riflette, tuttavia, una impostazione statica dei rapporti in questione, che debbono più correttamente essere riguardati tenendo conto che il cessionario, di norma, è al tempo stesso anche soggetto passivo d’imposta (in relazione alle operazioni attive dallo stesso realizzate).

Occorre, infatti, precisare, quanto alla pretesa di rimborso dell’IVA pagata in rivalsa dal cessionario del bene o servizio, che la stessa può essere diversamente diretta, in considerazione della differente angolazione con la quale viene prospettata: al proposito è stato osservato che il rapporto di natura privatistica tra cedente e cessionario (che dà luogo alla giurisdizione dell’AGO, venendo meno la connotazione tributaria del rapporto controverso) si configura laddove il cessionario rivesta la posizione di "consumatore finale", e cioè a dire si identifichi nel soggetto definitivamente inciso dalla imposta (cfr. Corte cass. SU Sez. U, Sentenza n. 1147 del 07/11/2000; id. Sez. U, Sentenza n. 2686 del 07/02/2007), diversamente riemergendo il rapporto tributario -con conseguente legittimazione del soggetto cessionario ad agire nei confronti della Amministrazione finanziaria- tutte le volte in cui l’IVA indebitamente versata in rivalsa sull’acquisto di beni e servizi destinati all’esercizio della attività economica, venga a riflettersi sulla liquidazione finale della imposta, esposta nella dichiarazione annuale del contribuente, qualora il Fisco contesti, in tutto od in parte, che l’IVA versata in rivalsa non poteva essere portata in detrazione (o se eccedente, non poteva essere esposta a credito -ipotesi che ricorre nella fattispecie oggetto di esame-), in quanto relativa ad operazione esente o non imponibile, ovvero in quanto assoggettabile ad una aliquota inferiore rispetto a quella indicata erroneamente in fattura (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 20752 del 31/07/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 12433 del 08/06/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 18425 del 26/10/2012).

La Corte di Giustizia ha, peraltro, ritenuto pienamente compatibile con la VI direttiva 77/388/CEE e con i principi di neutralità, effettività e non discriminazione, una normativa nazionale "in cui, da un lato, il prestatore che ha versato erroneamente l’IVA alle autorità tributarie è legittimato a chiederne il rimborso e, dall’altro, il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore..... Tale sistema infatti consente a detto destinatario gravato della imposta erroneamente fatturata di ottenere il rimborso delle somme indebitamente versate" (cfr. Corte di Giustizia sentenza in data 15.3.2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH, punto 39 e 42, citata anche dalla ricorrente), non potendo lo Stato membro impedire, tuttavia, al destinatario del servizio (o al cessionario) di conseguire la restituzione dell’importo della imposta indebitamente fatturata, direttamente dall’Amministrazione finanziaria nel caso in cui l’azione civilistica nei confronti del prestatore di servizi (o del cedente) "risulti impossibile od eccessivamente difficile, segnatamente in caso di insolvenza del prestatore" (ibidem, punto 41 e 42).

Avuto riguardo alla concreta fattispecie in esame, la evidenziata pluralità di rapporti giuridici che si instaurano tra le parti (cedente/prestatore di servizi; cessionario/committente; Amministrazione finanziaria) impone, pertanto, di tenere distinto il rapporto tra gli operatori economici -nella specie entrambi soggetti passivi- avente ad oggetto l’indebito versato in rivalsa (rapporto di diritto privato che radica la giurisdizione AGO), dal rapporto intercorrente tra ciascuno dei singoli operatori economici e l’Erario, venendo in questione, nella presente controversia, soltanto il diritto del soggetto passivo alla detrazione dell’IVA versata "a monte" per acquisto di beni e servizi destinati alla propria attività economica, sebbene liquidata in misura superiore a quella effettivamente dovuta: diritto alla detrazione ex art. 19 Dpr n. 633/72 che il soggetto passivo E. s.r.l. vanta, e non può che vantare, nel rapporto tributario che viene ad instaurare, quale contribuente, nei confronti della Amministrazione finanziaria, la quale pertanto -diversamente da quanto affermato dalla CTR- è la sola destinataria della pretesa fatta valere dalla società contribuente in conseguenza della contestazione di tale diritto formulata con l’avviso di accertamento opposto.

Se dunque va affermato che la controversia è stata correttamente instaurata tra le "giuste parti", la critica alla sentenza svolta dalla società con il secondo motivo di ricorso non può ritenersi comunque fondata, in quanto il sistema della neutralità dell’IVA non consente al soggetto passivo -quando anche in buona fede- di portare in detrazione una imposta in tutto od in parte non dovuta, e ciò in base al principio ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia secondo cui la neutralità della imposta opera sul piano effettivo e non meramente formale, dovendo essere versate ovvero detratte -o potendo integrare crediti per eccedenza chiesti a rimborso-, soltanto quelle imposte che risultino realmente dovute, tali non potendo ritenersi le imposte erroneamente ed indebitamente corrisposte in rivalsa od all’Erario, che possono dare luogo esclusivamente a pretese restitutorie da indebito da parte del cedente/prestatore, ovvero anche da parte del cessionario/destinatario del servizio, ma nella peculiare ipotesi di impossibilità od estrema difficoltà di recupero dall’emittente la fattura dell’importo indebitamente versato in rivalsa.

La autonomia dei rapporti e le peculiari condizioni indicate dal Giudice di Lussemburgo, per legittimare l’azione diretta del cessionario/destinatario del servizio, rende, peraltro, inconferente la censura per vizio motivazionale ex art. 360 co l n. 5 c.p.c. formulata cumulativamente dalla ricorrente, con il secondo motivo (dotato di autonomo "momento di sintesi" -identificato dall’incipit "Pertanto rispetto alla formulazione del "quesito di diritto" in calce che supporto soltanto il vizio di violazione di legge: cfr. ricorso pag. 26), secondo cui la CTR aveva omesso di considerare che l’Ufficio non aveva fornito prova della inadempienza di Edil D. s.r.l. alla obbligazione tributaria, trattandosi di circostanza attinente a diverso rapporto giuridico cui E. s.r.l. rimaneva estranea e del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento del diritto alla detrazione della imposta indebitamente versata in rivalsa dalla attuale ricorrente.

Sulla base delle esposte considerazioni deve, pertanto, essere corretta la motivazione della sentenza nella parte in cui riconduce l’accertamento negativo del diritto alla detrazione IVA e del credito per eccedenza esposto nella dichiarazione relativa all’anno 2000 "anche" al difetto di titolarità, in capo alla Amministrazione finanziaria, della situazione giuridica passiva, anziché esclusivamente alla precedente "ratio decidendo fondata sulla errata liquidazione dell’IVA nelle fatture passive utilizzate da E. s.r.l. (in quanto corrisposta in rivalsa in misura superiore a quanto effettivamente dovuto), e va altresì risolta la questione di diritto sottoposta alla Corte, non potendo che ribadirsi il principio di derivazione comunitaria secondo cui la erronea liquidazione in fattura dell’IVA (nella specie essendo stata applicata l’aliquoita ordinaria del 20% anziché quella ridotta del 4% prevista per le operazioni aventi ad oggetto immobili "non di lusso" ad uso abitativo ex lege n. 408/1949) non autorizza l’operatore che abbia assolto all’obbligazione di rivalsa a portare in detrazione l’imposta ovvero a richiedere il rimborso della eccedenza, atteso che l’art. 17, paragr. 1 e 2, e l’art. 20, paragr. 1, lett. a) della VI direttiva del Consiglio del 17.5.1977 n. 77/388/CEE, come interpretati dalle sentenze della Corte di Giustizia, riconoscono il predetto diritto esclusivamente nei limiti dell’importo dell’IVA "effettivamente dovuta" in relazione alla operazione commerciale conclusa dalle parti.

Avendo il Giudice di merito accertato che nelle fatture emesse da Edil D. s.r.l. ed utilizzate in detrazione da E. s.r.l. era stata liquidata una imposta maggiore di quella effettivamente dovuta, va esente dalla censura di legittimità prospettata (errores in judicando) la sentenza di appello che ha accertato la legittimità dell’atto impositivo con il quale, disconosciuta la detrazione ex art. 19 ed il rimborso della eccedenza d’imposta ex art. 30 Dpr n. 633/72, l’Amministrazione finanziaria ha richiesto alla società committente la maggiore IVA non versata per l’anno 2000.

In conclusione il ricorso proposto nei confronti della Agenzia delle Entrate deve essere rigettato e la società ricorrente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità (partecipazione della difesa erariale alla discussione orale) liquidate in dipositivo.

 

P.Q.M.

 

- dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero della Economia e delle Finanze;

- rigetta il ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate;

- condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in complessive € 1.500,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.