Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 19 giugno 2015, n. 12759

Tributi (in generale) - Territorialità dell'imposizione (accordi e convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni) - Doppia imposizione internazionale economica - Convenzione arbitrale del 23 luglio 1990 - Procedura di accordo amichevole tra stati - Diniego dello Stato di dare corso alla stessa - Ricorribilità in giudizio - Ammissibilità - Fondamento - Giurisdizione - Del giudice tributario

 

Svolgimento del processo

 

In data 17 novembre 2009 B.P. Italia S.p.a. (già E.I. S.p.a.) e B.I. S.r.l. (oggi B.I. S.p.a. con socio unico, già B.I. S.r.l.) — società appartenenti al Gruppo chimico internazionale B. e che, a partire dal 2004, avevano optato per il regime del consolidato fiscale nazionale — ricevevano l'avviso di accertamento n. TSB080100197/2009 (c.d. di primo livello) notificato dall'Agenzia delle Entrate direzione regionale del Piemonte e contenente, tra l'altro, la contestazione di presunti costi non inerenti, ex art. 109, comma 5, del D.P.R. n. 917/86, per un ammontare di euro 755.669,00, scaturenti da rapporti intersocietari instaurati tra l'allora E.I. S.p.a. e B.A.G., anch'essa avente sede in Germania.

Alla notifica del suddetto atto, faceva seguito, in data 17 dicembre 2009, quella dell'avviso accertamento di "secondo livello" n. T95090300025/2009, impugnato dalle predette società dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale di Milano.

Nei confronti della descritta rettifica fiscale, in data 8 gennaio 2010 B.P. S.p.a. e l'allora B.I. s.r.l., oggi B.I. S.p.a. presentavano istanza di accertamento con adesione e tale procedimento si concludeva con esito positivo, avendo le medesime società e l’ufficio, raggiunto un accordo sui rilievi contestati e, di conseguenza firmato l'atto di adesione, senza tuttavia, addivenire al perfezionamento dello stesso, atteso il mancato versamento di quanto pattuito.

Nel frattempo, in considerazione del fatto che la rettifica fiscale sollevata determinava un fenomeno di doppia impostazione tra la Germania e l’Italia, il 23 dicembre 2009 B.P. S.p.a. e, successivamente, l'8 marzo 2011, B. I. s.r.l., presentavano apposita istanza al Ministero dell'economia e delle finanze - Direzione relazioni internazionali - di avvio della procedura amichevole ex art. 6 della Convenzione europea sull'arbitrato (n. 90/436/CEE del 23 luglio 1990), al fine di dirimere la situazione di doppia imposizione originatasi. Pertanto, con la presentazione, in data 28 gennaio 2010, di copia del pool partner agreement, richiesta dallo stesso Ministero, si avviava la citata procedura amichevole, confermata da una nota ministeriale che dava evidenza della tempestiva presentazione dell'istanza e, quindi, della corretta instaurazione della procedura.

La Bsf P.I. S.p.a. (già E.I. S.p.a.) e la B.I. S.r.l. (oggi B.I. S.p.a., con socio unico,, già B.I. S.r.l.) recependo le indicazioni fornite dall'Agenzia delle Entrate, con istanza depositata all'udienza del 15 giugno 2011, celebrata dinanzi Commissione Tributaria Provinciale di Milano, e relativa al giudizio avverso il citato avviso di accertamento IRES di "secondo livello" dichiaravano di rinunciare al ricorso e di optare per la procedura arbitrale prevista dalla Convenzione n. 90/436/CEE, evidenziando oltremodo che tale rinuncia non potesse essere considerata acquiescenza alle pretese impositive del Fisco, bensì come scelta di procedura alternativa al contenzioso tributario. Per queste ragioni, il giudice adito dichiarava - con sentenza n. 261/24/2011 depositata addì 27 luglio 2011 - l'estinzione del giudizio per cessata materia del contendere.

In data 21 dicembre 2011, la società istante nonché la B.I. S.P.A. ricevevano la comunicazione di diniego/revoca della procedura arbitrale de qua prot. N. 10234/2011/DF/DRI da parte del Ministero dell'economia e delle finanze. Questi informava i predetti contribuenti dell'impossibilità di proseguire la procedura amichevole essendone venuti meno i presupposti, e ciò sull'assunto che sarebbe stato perfezionato l'accertamento con adesione nei confronti dell'atto impositivo per cui è causa. Di conseguenza, ad avviso del Ministero, sarebbe mutata la situazione originaria posta a base della richiesta di applicazione dell'art. 6 della citata Convenzione e la fattispecie in esame non avrebbe più potuto essere oggetto di controversia.

La società B.P. Italia spa odierna controricorrente impugnava innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma (RG 4732/12) tale comunicazione, deducendo, in via preliminare, l'immediata impugnabilità della richiamata nota ministeriale, quale diniego di agevolazione o di rigetto di domanda di definizione agevolata di rapporti tributari.

Di poi, nel merito, contestava la legittimità del provvedimento di diniego di attuazione della procedura amichevole, stante il mancato perfezionamento dell'accertamento di adesione.

Con atto di controdeduzioni, deposito addì 2 luglio 2012, si costituiva in giudizio il Ministero dell'economia e delle finanze eccependo che la conclusione della procedura di accertamento con adesione precludeva alla società la richiesta di apertura della procedura amichevole e, comunque, l'insussistenza della giurisdizione italiana in relazione alla predetta comunicazione in quanto emanata da esso Ministero nella sua vesta di autorità competente italiana nell'ambito della procedura amichevole.

Proponeva, quindi, l'odierno ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, illustrato con memoria, cui ha resistito con controricorso la società B.P. I. spa.

 

Motivi della decisione

 

Con l’unico motivo di regolamento, il ricorrente Ministero deduce, in primo luogo, che la Convenzione europea di arbitrato non rientra nella nozione del "diritto derivato" dell'Unione europea, in quanto l'atto in questione è una convenzione internazionale multilaterale, soggetta alle regole proprie dei trattati internazionali, e non a quelle dell'ordinamento comunitario.

Il Ministero ricorrente assume che la procedura amichevole di cui a detta convenzione si fonda su preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva degli stessi né la circostanza che l'accordo, una volta assunto, svolgerà specifici effetti nei confronti del contribuente può modificare tale situazione giuridica. I negoziati si svolgono infatti esclusivamente fra le autorità competenti degli Stati sottoscrittori, rimanendo in capo alle imprese coinvolte nel caso un mero diritto d'informazione sugli sviluppi della procedura .Non potrebbe, quindi, sussistere sindacato giurisdizionale interno, in quanto esso costituirebbe un'interferenza sulla sovranità degli Stati e violazione del ben noto principio dell'immunità.

La nota oggetto di gravame, in conclusione, non costituirebbe un provvedimento amministrativo riconducibile ai moduli tipici di attuazione del tributo.

Contesta tali affermazioni la società controricorrente sostenendo che la materia oggetto del contendere non riguarda atti adottati dallo Stato estero, bensì un provvedimento di diniego assunto dall'autorità amministrativa italiana competente, che esclude la possibilità di accedere alla "procedura amichevole" in ragione dell'asserita verificazione di una circostanza ostativa, quale l'intervenuto accertamento con adesione (a suo dire, comunque inefficace per mancata esecuzione).

Invoca, a tale proposito, la normativa nazionale e sovranazionale che garantisce il diritto di difesa al soggetto privato e sostiene l'impugnabilità dell'atto de quo dinanzi al giudice tributario, in applicazione dell'art. 19 d.lgs. 546/1992.

In particolare rileva che la tesi dell’Agenzia risulta incompatibile con il diritto UE ed in proposito prospetta anche l'opportunità di rinvio pregiudiziale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del T.F.U.E. alla Corte di giustizia dell'Unione europea, per violazione della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, nonché del principio di leale collaborazione postulato all'art. 4 par. 3 commi 2 e 3 TFUE.

Da ultimo, evidenzia come la tesi di parte ricorrente porterebbe alla conseguenza assurda che non vi sarebbe alcun organo giurisdizionale nazionale o internazionale deputato a valutare la legittimità dell'operato dell'autorità nazionale.

Il ricorso appare infondato.

La tesi del ricorrente secondo cui la "procedura amichevole" coinvolgerebbe esclusivamente gli interessi pubblici degli Stati nell'esercizio della loro sovrana potestà impositiva ed escluderebbe ogni possibile intervento dell’autorità giudiziaria nazionale appare infondata.

La Convenzione Europea di Arbitrato, cd. "Convenzione Arbitrale",è stata conclusa dagli Stati membri dell'Unione Europea il 23 luglio 1990 con lo scopo precipuo di risolvere i casi di doppia imposizione internazionale "economica" (NOTA 1) connessi ad un solo particolare settore tributario: quello dei "prezzi di trasferimento" (NOTA 2). Essa quindi ha un ambito di operatività specifico e

ristretto rispetto alle Convenzioni contro le doppie imposizioni normalmente stipulate, che si applicano viceversa anche a tutte le altre forme di doppia imposizione riferibili alle varie tipologie di reddito.

Si aggiunge che il Consiglio dell'Unione Europea, su proposta della Commissione, nell'ottobre del 2002 ha istituito il Forum congiunto sui prezzi di trasferimento G. (...) ) con il compito di fornire un supporto agli Stati Membri nello specifico settore e garantire la efficiente e fattiva applicazione della Convenzione arbitrale per la risoluzione dei casi di doppia imposizione scaturenti da rettifiche in materia di prezzi di trasferimento.

Tra le iniziative più rilevanti del (...) vi è stata l'adozione di un "codice di condotta" nel 2004, sostituito nel 2009 da una nuova versione, tuttora vigente, che reca talune indicazioni di dettaglio finalizzate ad uniformare ed a rendere efficiente l'applicazione della Convenzione Arbitrale.

Fatte queste premesse, va rammentato che l’articolo 6 della Convenzione attribuisce al contribuente l'iniziativa di reclamare l'osservanza dei principi stabiliti art. 4 della convenzione in materia di rettifica degli utili d'impresa, di fronte all'autorità competente dello Stato contraente indicata nell’art 3 della Convenzione in cui è residente o ha stabile organizzazione. Tale richiesta impegna l'autorità competente a cercare un accordo con l'autorità dell'altro Stato al fine di evitare la doppia imposizione. La richiesta in questione può essere effettuata, indipendentemente dai ricorsi previsti dalla legislazione nazionale degli Stati contraenti interessati.

In caso di mancato raggiungimento di un accordo entro due anni dalla richiesta, l’articolo 7, comma primo, della Convenzione prevede che le autorità competenti istituiscono una Commissione consultiva che deve dare un parere sul modo di evitare la doppia imposizione.

L’articolo 7 in questione disciplina poi nel dettaglio i rapporti con il contenzioso interno.

In particolare il secondo paragrafo del primo comma dell’articolo 7 prevede che" le imprese possono avvalersi delle possibilità di ricorso previste dal diritto interno degli Stati contraenti interessati; tuttavia, quando un tribunale è stato investito del caso, il termine di due anni di cui al primo comma decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione pronunciata in ultima istanza nell'ambito di tali ricorsi interni.

Il comma secondo dell’articolo in questione stabilisce poi che "il fatto che la commissione consultiva sia stata investita del caso non impedisce a uno Stato contraente di avviare o continuare, per il medesimo caso, azioni giudiziarie o procedure per l'applicazione di sanzioni amministrative.

A sua volta il terzo comma statuisce che "qualora la legislazione interna d'uno Stato contraente non consenta alle autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive autorità giudiziarie, il paragrafo 1 si applica soltanto se l'impresa associata di tale Stato ha lasciato scadere il termine di presentazione del ricorso o ha rinunciato a quest'ultimo prima che sia intervenuta una decisione. Questa disposizione lascia impregiudicato il ricorso, laddove questo riguarda elementi diversi da quelli di cui all'articolo 6".

Dalle disposizioni in esame si evince complessivamente il principio generale ,salvo le eccezioni previste, secondo cui il procedimento di accordo amichevole tra gli Stati non impedisce il contemporaneo svolgimento delle azioni giudiziarie relative alle imposizioni innanzi agli organi giudiziari nazionali.

Ciò posto, alla luce di quanto evidenziato, deve ritenersi che nell’ambito della procedura amichevole ai sensi dell'art. 6 della Convenzione Arbitrale i due Stati non agiscono "iure privatorum", bensì nell’ambito della propria potestà d'imperio in materia tributaria.

La Procedura Amichevole in esame si fonda infatti su preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva degli stessi ed i negoziati si svolgono esclusivamente tra le Autorità Competenti degli Stati sottoscrittori della Convenzione e l'accordo amichevole viene sottoscritto e adottato esclusivamente da questi.

Ciò posto, resta però estranea alla presente controversia la questione prospettata dall’Amministrazione se possa essere riconosciuta al Giudice nazionale la cognizione e la delibazione del contenuto di tali atti e accordi, perché - secondo la sua tesi - ciò costituirebbe una interferenza della sovranità di uno Stato nei confronti dell'altro.

Nel caso in esame infatti la procedura amichevole non ha in effetti avuto corso dal momento che con le due comunicazioni del Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, Direzione Relazioni Internazionali, cioè la nota prot. 10234 del 21-12-2011, oggetto di gravame, nonché la precedente nota prot.3474 del 21- 4-2011 oggetto dell’impugnazione innanzi alla Commissione tributaria, l’Autorità italiana ha negato alla società richiedente di poter dar corso alla procedura amichevole.

Come rilevato dal Procuratore generale, le cui conclusioni queste Sezioni unite condividono, occorre tenere distinta la fase prodromica oggetto del ricorso "relativa alla presentazione dell'istanza di apertura della procedura amichevole ed alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità, che si svolge tutta nell’ambito del diritto interno (come può chiaramente evincersi dai citati art. 6 e 7 della Convenzione e come confermato dalla circolare dell'Agenzia delle entrate 5/6/2012 n. 21 punto 5.8.) da quella successiva - il confronto fra le autorità competenti - nella quale il contribuente non svolge un ruolo attivo ma è tenuto a prestare la propria collaborazione descrivendo puntualmente il caso e fornendo sollecitamente le informazioni supplementari eventualmente richieste (art. 10 Conv. punto 5.9 circolare). E' di palese evidenza, quindi, che le questioni che possono insorgere nella prima fase - come nel caso di specie quella relativa agli effetti dell’istanza di adesione non attuata - non possono essere aprioristicamente sottratte alla valutazione giurisdizionale di organo giudiziario. E questo non può che essere il giudice dello Stato ove l'istanza viene proposta, giacché la Commissione consultiva si limita a dare un parere sul modo di eliminare la doppia imposizione.

Resta da dire che l’impugnabilità della nota in questione non risulta esclusa - come sostiene l’Amministrazione - dall’art. 7 comma 3 della Convenzione che esclude la possibilità di ricorso innanzi al giudice nazionale "qualora la legislazione interna d'uno Stato contraente non consenta alle autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive autorità giudiziarie" in quanto nel caso di specie la conclusione dell’accertamento con adesione risulta contestato onde sarà il giudice investito della controversia a valutare l’esistenza o meno di tale circostanza.

Quanto al giudice italiano avente giurisdizione non è dubbio che sia quello tributario, vertendosi in materia di tributi.

E’ ben nota la giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente affermato che, l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l'Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un'interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448. (Cass 17010/12).

Da ciò discende che ogni atto adottato dall'ente impositore che porti, comunque, a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, e tale impugnazione va proposta davanti al giudice tributario, in quanto munito di giurisdizione a carattere generale e competente ogni qualvolta si controversa di uno specifico rapporto tributario (Cass 7344/12).

Nel caso di specie non è dubbio che il diniego di dare corso alla procedura amichevole comporta che la società resistente sarebbe soggetta ad una doppia imposizione in Italia ed in Germania, venendo quindi a dovere versare nel nostro Paese un tributo maggiore di quanto altrimenti dovuto in caso di raggiungimento di un accordo tra i due Stati nell’ambito della procedura amichevole.

Da qui l’impugnabilità delle note in questione.

In ragione della decisione assunta, che investe prevalenti aspetti di diritto nazionale, non risulta necessario alcun rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 T.F.U.E. restando quindi impregiudicata la questione se in materia sussista o meno la competenza della Corte di Giustizia in relazione alla esaminata Convenzione.

Il ricorso va in conclusione respinto dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice italiano, nella specie della Commissione tributaria .Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese di giudizio liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano (Commissione tributaria) e condanna l’amministrazione al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 3000,00 oltre euro 200,00 per esborsi ed oltre spese forfettarie ed accessori di legge.