Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 02 settembre 2015, n. 17430

Lavoro - Poste italiane - Contratto a termine - Illegittimità - Esigenze eccezionali - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di L’Aquila con la sentenza n. 1109/08, pronunciando sull’impugnazione proposta da Poste italiane spa nei confronti di I.A., in ordine alla sentenza del Tribunale di Pescara n. 743 del 2006, accoglieva in parte l’appello e autorizzava la società Poste italiane a detrarre dalla somma dovuta alla controparte l'aliunde perceptum. Confermava nel resto la sentenza del Tribunale.

2. Quest’ultimo aveva ritenuto l’illegittimità dell’apposizione del termine al contratto stipulato tra le parti ai sensi art. 8 CCNL 26 novembre 1994, dal 19 ottobre 1998 al 31 gennaio 1999, come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane", tra l’altro per il mancato rispetto delle quote percentuali, atteso che non era intervenuta risoluzione consensuale del contratto.

3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre Poste italiane spa prospettando tre motivi di ricorso, assistiti da memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica.

4. Resiste I.A. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente prospetta violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 cc, ai sensi degli artt. 421 e 437 cpc, nonché "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio" (artt. 360, n. 3 e n. 5, cpc) .

Critica la sentenza impugnata perché nell’affermare l’illegittimità del contratto a termine per violazione della quota numerica prevista dal CCNL, ha ritenuto che l’onere di fornire la prova in proposito incombeva sulla società anziché sulla lavoratrice, la quale aveva dedotto l’illegittimità del contratto. Sostiene inoltre che la Corte di merito, considerata insufficiente la documentazione prodotta dall’azienda a sostegno della dedotta insussistenza della violazione della quota numerica, avrebbe dovuto esercitare i suoi poteri istruttori officiosi, ordinando una consulenza contabile d’ufficio al riguardo, prima di concludere per la violazione del limite numerico.

Il motivo non è fondato.

Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, "nel regime di cui alla legge 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo dì contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui all’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro" (v. Cass. n. 839 del 2010, e numerose successive).

Inammissibile risulta, poi, la censura relativa al mancato esercizio di poteri istruttori d’ufficio ed in specie al mancato espletamento di una CTU contabile, da parte dei giudici di merito.

Come più volte è stato precisato da questa Corte "il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori" (v. Cass. n. 6023 del 2009, Cass. n. 14731 del 2006).

In ogni caso, poi, i detti poteri, pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi - non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale" (cfr. Cass. n. 6205 del 2010).

2. Con il secondo motivo di ricorso si censura (per violazione di legge e vizio di motivazione) la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione di estinzione del rapportò stesso, l’accettazione del TFR e delle altre indennità connesse alla cessazione del rapporto di lavoro.

2.1. Il motivo non è fondato.

Affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (Cass., n. 3841 del 2015).

Questa Corte ha, altresì, precisato (Cass., n.1780 del 2014, Cass. n. 21310 del 2014, e giurisprudenza nella stessa richiamata) che il solo decorso del tempo o la semplice inerzia del lavoratore, successiva alla scadenza del termine, sono insufficienti a ritenere sussistente la risoluzione per mutuo consenso, costituente pur sempre una manifestazione negoziale, che, seppur tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo, in conseguenza della mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto di lavoro.

In tema, si richiama anche Cass., sentenza n. 2279 del 2010, ove questa Corte, sulla base del medesimo principio, ha ritenuto non censurabile la motivazione della sentenza di merito la quale, nel ritenere che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto, aveva fatto riferimento a valutazioni di tipicità sociale, valorizzando sia la durata limitata della inerzia del lavoratore - tempo considerato congruo per decidere di intraprendere la via giudiziaria ed impostare la difesa -, sia la notoria circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore precario normalmente ripone sulla prospettiva di futuri contratti a termine, nonché al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria. Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di rilevare che non appaiono indicative di una intenzione risolutoria l’accettazione del TFR e la mancata offerta della prestazione, trattandosi di "comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine" (cfr., Cass., n. 15628 del 2001, in motivazione), ovvero la condotta di "chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni" (cfr., Cass., n. 839 del 2010, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900 del 2005).

La motivazione addotta dalla Corte territoriale, dunque, va considerata adeguata, alla luce dei sopra esposti principi, dei quali fa corretta applicazione, con congrua motivazione, sottraendosi al vizio denunciato.

3. Con il terzo motivo di ricorso (violazione di legge e vizio di motivazione) la società ricorrente, in ordine alle richieste economiche, deduce che nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la prova dell’effettivo danno subito, e che neppure vi sarebbe stata una effettiva offerta della prestazione con conseguente mora accipiendi del datore di lavoro.

3.1. Il motivo risulta del tutto generico ed astratto (così come, peraltro, i relativi quesiti conclusivi formulati ex art. 366 bis applicabile ratione temporis, cfr. fra le altre Cass. n. 2499 del 2012, Cass. n. 2615 del 2012, Cass. n. 12954 del 2012, Cass. n. 15461 del 2012, Cass. n.1211 del 2013, Cass. n.3819 del 2013, Cass. n.18735 del 2013), nonché privo di autosufficienza.

Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha confermato la condanna della società al pagamento della retribuzione globale di fatto maturata dalla offerta della prestazione lavorative, la ricorrente censura tale decisione in modo assolutamente generico, senza riportare il testo dell’atto che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato la offerta della prestazione e la messa in mora. Così risultato inammissibile l’ultimo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010 n. 183, invocato nella memoria della ricorrente.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. n. 10547 del 2006, Cass. n. 4070 del 2004).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. n. 80 del 2011). Orbene tali condizioni non sussistono nella fattispecie.

4. Il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro cento per esborsi, euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre spese generali e accessori di legge.