Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 26 agosto 2015, n. 17159

Tributi - Imposte sui redditi - IRES e IRAP - Contratti di cointeressenza tra società dello stesso gruppo - Abuso del diritto

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con sentenza n. 154/38/12, depositata l’8 maggio 2012 e non notificata, la Commissione tributaria regionale del Lazio (hinc: «CTR») rigettava l’appello proposto dalla s.r.l. G. (hinc: «società») nei confronti della Direzione provinciale I di Roma, ufficio controlli, dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 73/01/2006 della Commissione tributaria provinciale di Roma (hinc: «CTP») e condannava l'appellante al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 10.000,00, oltre accessori di legge.

Il giudice di appello premetteva, in punto di fatto, che: a) con processo verbale di constatazione del 3 giugno 2008, il I gruppo di Roma della Guardia di finanza aveva ritenuto che due contratti di cointeressenza (regolati dall’art. 2554 cod. civ.) fossero stati stipulati a fini meramente elusivi: il primo tra la s.r.l. G. e la s.r.l. H.B. (poi denominata s.r.l. A.), il secondo tra la medesima s.r.l. G. e la società R.H. SARL; b) sulla base di tale processo verbale, l’Agenzia delle entrate aveva emesso avviso di accertamento nei confronti della s.r.l. G., affermando che i contratti di cointeressenza, stipulati tra società del medesimo gruppo (gruppo "S."), di cui alcuni in perdita, avevano il solo scopo di distribuire tra le contraenti utili e costi di operazioni economiche (vendite immobiliari a terzi con clausole di riserva di proprietà), anche rinviando alcuni costi in differenti esercizi, al solo fine di ottenere un indebito risparmio di imposta; c) l’Agenzia delle entrate aveva determinato, perciò, una maggiore IRPEG di € 21.625.181,00, una maggiore IRAP di € 1.906.504,00, oltre sanzioni, per l’anno 2006; d) la s.r.l. G. aveva impugnato l’avviso davanti alla Commissione tributaria provinciale di Roma, che, con sentenza n. 73/01/2006, aveva rigettato il ricorso; e) la società aveva appellato la sentenza deducendo, tra l’altro: 1. l’omessa decisione sull’eccezione di difetto della cosiddetta "supermotivazione" (motivazione richiesta a pena di nullità dall’art. 37-bis, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973), relativa alle giustificazioni fornite dalla contribuente in risposta al questionario inviatole, in ordine a componenti negativi di reddito concernenti costi per cointeressenza pari a €. 29.216.503,00 ritenuti dall’ufficio tributario non deducibili; 2. l’inapplicabilità dell’art. 31-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 sia a tali componenti negativi, sia alla complessiva fattispecie di causa; 3. la mancata considerazione che la cointeressata s.r.l. H.B. era stata acquistata dalla s.r.l. D. il 16 gennaio 2006, oltre un anno dopo il contratto di cointeressenza, e poi acquistata dalla società lussemburghese R.H. SARL, non appartenente al gruppo; 4. l’inesistenza di un indebito risparmio d’imposta e l’esistenza di valide ragioni per la stipula dei contratti di cointeressenza (rappresentate dalla tipica finalità assicurativa del rischio d’impresa propria di tali contratti); 5. l’omessa decisione sulla dedotta insufficienza di presunzioni circa l’esistenza dell’abuso del diritto (anche per l’estraneità al gruppo "S." delle altre contraenti dei contratti di cointeressenza); 6. l’omessa decisione sull’eccezione di carenza di motivazione dell’avviso (che si limitava a rinviare al processo verbale di constatazione) in ordine all’addebitata violazione del criterio di competenza per l’anno 2005 per costi pari a € 36.314.350,00; 7. l’omessa decisione sull’eccezione della mancata esclusione dei ricavi correlati ai suddetti costi, ritenuti dall’ufficio tributario non di competenza dell’anno 2006; 8. la mancata considerazione del rispetto, da parte della contribuente, dell’art. 109 del TUIR, secondo cui i corrispettivi delle cessioni di immobili si considerano conseguiti e le spese si considerano sostenute alla data dell’atto di trasferimento ovvero, se successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo della proprietà (il prezzo non era determinato in modo definitivo nell’atto di compravendita); 9. l’erronea inversione dell’onere della prova, illegittimamente posto a carico della contribuente.

In punto di diritto, la CTR, nel respingere l’appello osservava, per quanto qui interessa, che: a) l’avviso di accertamento era compiutamente, correttamente e dettagliatamente motivato, anche mediante l’espresso e legittimo richiamo al processo verbale di constatazione, notificato alla società; b) il diritto di difesa della società non era stato leso, anche perché alla contribuente era stato notificato (prima dell’emissione dell’avviso) il questionario previsto dall’art. 31-bis, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973; c) alla fattispecie di causa era applicabile la clausola generale antielusiva di cui all’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, il quale non prevede ipotesi tassative, ma costituisce espressione del principio generale del divieto dell’abuso del diritto; d) in particolare, i due contratti di cointeressenza («privi della causa economica in concreto», in quanto «volti unicamente all’ottenimento di vantaggi fiscali di gruppo») avevano consentito alla s.r.l. G. di trasferire parte del suo reddito imponibile sia alla s.r.l. A. (le cui precedenti perdite fiscali avevano compensato la parte di utili conseguiti dalla cointeressante), sia alla società lussemburghese R.H. SARL, in tal modo rendendo applicabili alle tre società imposte solo per complessivi € 2.741.220,00 in luogo dei complessivi € 12.402.503,00, altrimenti dovuti dalla s.r.l. G.; e) i suddetti contratti di cointeressenza, come dimostrato dall’ufficio tributario in base a «diversi elementi presuntivi, tutti concordanti», avevano natura elusiva ed erano, «perciò, inopponibili alle ragioni erariali», con conseguente indeducibilità dei costi derivati dai suddetti contratti in misura pari a € 29.216.503,00; f) era corretta la ritenuta indeducibilità dei costi relativi alla vendita del compendio immobiliare per € 36.314.350,00, riguardanti l’anno 2005, per la violazione dell’inderogabile criterio di competenza sancito dall’art. 109, comma 2, lettera a), del TUIR; g) in tema di abuso del diritto, l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare, anche nell’atto impositivo, l’anomalia o l’inadeguatezza economica delle operazioni effettuate dal contribuente, mentre spetta a quest’ultimo provare l’esistenza di un non marginale contenuto economico dell’operazione, diverso dal mero risparmio fiscale.

2. "Avverso la sentenza di appello, la società propone ricorso per cassazione, notificato il 21 giugno 2013 ed affidato a quattro motivi.

3. - L'Agenzia delle entrate resiste con controricorso notificato a mezzo posta il 31 luglio-5 agosto 2013.

 

Considerato in diritto

 

1.- La controricorrente Agenzia delle entrate eccepisce l’inammissibilità del ricorso, proposto dal legale rappresentante della s.r.l. G. il 21 giugno 2013, dopo che questa era stata dichiarata fallita con sentenza n. 472/13, emessa dal Tribunale ordinario di Roma il 13 giugno 2013, quando l’unico legittimato all’impugnazione era ormai il curatore fallimentare.

L’eccezione non è fondata, tenuto conto che i presupposti della pretesa tributaria sono anteriori al fallimento.

In primo luogo va rilevato, al riguardo, che la procura speciale alla lite per la proposizione del ricorso per cassazione (art. 365 cod. proc. civ.) risulta rilasciata dalla società il 3 giugno 2013, prima del fallimento, dichiarato il 13 giugno 2013. Ne deriva che la procura alla lite è stata rilasciata da soggetto che, in quanto rappresentava regolarmente la società, ancora in bonis, aveva il potere di rilasciarla. A nulla rileva la data di notificazione del ricorso (successiva alla dichiarazione di fallimento), anche in considerazione delle peculiarità degli effetti temporali del mandato alle liti.

In secondo luogo, deve qui ribadirsi che, in caso di fallimento del contribuente successivamente alla notifica dell'avviso di accertamento e all’instaurazione del relativo giudizio d’impugnazione, qualora il processo non sia stato interrotto ed il curatore non si sia in esso costituito, la sentenza che lo conclude non è opponibile alla procedura fallimentare (Cass. n. 16816 e n. 22809 del 2014) Anche sotto tale profilo, dunque, non ci sono ragioni per escludere l’ammissibilità del ricorso in esame.

In terzo luogo, argomentando a fortiori, occorre ricordare che vi sono eccezioni alla regola secondo cui la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta sia la perdita della capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, sia il trasferimento della legittimazione processuale (in via esclusiva) al curatore (art. 43 della legge fallimentare): una di tali eccezioni (oltre a quella in cui il fallito agisca per la tutela di diritti strettamente personali) consiste nell’ipotesi in cui, pur trattandosi di rapporti patrimoniali, l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio (ex plurimis, Cass. n. 10146 del 1998; n. 15369 del 2005; n. 7791 del 2006; n. 8990 del 2007; n.4448 del 2012; n. 24159 del 2013; n. 6248 e n. 9434 del 2014). Nella specie, l’evidente mera inerzia degli organi fallimentari avrebbe, perciò, comunque legittimato il fallito a proporre ricorso, in quanto titolare della suddetta speciale ed eccezionale legittimazione processuale suppletiva.

In quarto luogo, sempre argomentando a fortiori, deve sottolinearsi che, nel caso in cui non risulti che il curatore abbia operato una valutazione specifica in ordine alla condotta processuale da seguire nelle controversie patrimoniali del fallito, il difetto di legittimazione del fallito, in quanto integra una limitazione della capacità prevista a tutela della massa dei creditori, costituisce oggetto di eccezione di carattere relativo, perché può essere eccepito soltanto dal curatore (ex pluribus, Cass., sezioni unite, n. 27346 del 2009; Cass. n. 15713 del 2010; n. 5571 del 2011). Nella specie, tale difetto non si sarebbe potuto rilevare né d’ufficio né su eccezione dell’Agenzia delle entrate.

Si deve concludere per l’ammissibilità (sotto tale profilo) del ricorso della società.

2. - Con il primo motivo di ricorso, la s.r.l. G. denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione delle disposizioni relative al contraddittorio nel procedimento previsto dall’art. 31-bis, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973.

Secondo la ricorrente, la CTR, nonostante le specifiche doglianze in primo grado e nelle difese in appello della contribuente, non avrebbe considerato che l’art. 31-bis, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973 richiede, a pena di nullità, una motivazione rafforzata in relazione alle giustificazioni fomite dalla contribuente a proposito della addebitata condotta abusiva. Nella specie, la contribuente aveva risposto al questionario inviatole ai sensi del comma 4 del predetto art. 31-bis precisando che (diversamente da quanto prospettato dall’amministrazione finanziaria) non tutte le società sottoscrittrici dei contratti di cointeressenza presi in considerazione dall’ufficio tributario erano riconducibili al "gruppo S.", in quanto: a) in ordine al contratto di cointeressenza del 9 gennaio 2005, tra la s.r.l. G. (partecipante al gruppo) e la s.r.l. H.B. (con la quale era stata pattuita la partecipazione di quest’ultima al 25% degli utili e delle perdite relativi alla cessione di un immobile in Milano, sito in via (...), e di un immobile sito in Napoli via (...), la cointeressata era stata "acquistata" dalla s.r.l. D. (facente parte, come la contribuente, del medesimo gruppo S.) solo in data 16 gennaio 2006, cioè oltre un anno dopo la stipula del contratto di cointeressenza; b) soltanto dopo tale "acquisto", la s.r.l. D. aveva deliberato di modificare la denominazione della s.r.l. H.B. in s.r.l. A., trasferendone la sede legale in Roma in un indirizzo presso il quale avevano sede anche altre società del gruppo S.; c) in ordine al contratto di cointeressenza del 25 gennaio 2006, tra la s.r.l. G. e la cointeressata (per il 50% degli utili e delle perdite derivanti dalla cessione alla s.r.l. M. dell’immobile sito in Milano, via (...) società lussemburghese R.H. SARL, quest’ultima non faceva parte del gruppo anche se aveva sede in Lussemburgo, dove erano domiciliate società estere del gruppo S. (L.H. SARL; M. SA). Nello stesso questionario la contribuente aveva poi sottolineato che i due contratti di cointeressenza rispondevano alla motivazione economica di ripartire il rischio d’impresa con altri soggetti interessati a partecipare all’affare. Su tali giustificazioni dei costi dei contratti di cointeressenza per € 29.216.503,00 l’ufficio non aveva preso posizione nell’avviso di accertamento e la CTR non aveva applicato la sanzione di nullità per tale omissione.

2.1. - Il motivo è in parte inammissibile ed in parte non fondato. Il motivo è inammissibile, in quanto la valutazione giudiziale della completezza e fondatezza, nel merito, della motivazione dell’avviso di accertamento attiene all’argomentazione della sentenza, cioè ad un aspetto motivazionale della decisione della CTR, che non può essere censurato sotto il diverso profilo della violazione e falsa applicazione delle disposizioni di legge. In particolare, la CTR non ha interpretato le norme nel senso che l’amministrazione finanziaria non debba esaminare i rilievi del contribuente desunti dalle risposte al questionario, ma ha semplicemente ritenuto in concreto dimostrative di tale esame e sufficienti all’emanazione dell’avviso le considerazioni e gli accertamenti contenuti nello stesso avviso. Il motivo è, poi, anche infondato, perché la risposta al questionario soddisfa l’obbligo dell’instaurazione dell’anticipato contraddittorio con il contribuente, il quale in quella sede può fornire i chiarimenti richiesti, specie in ordine alle ragioni economiche delle operazioni realizzate. Se poi la motivazione dell’avviso emesso a seguito della richiesta di chiarimenti sia o no adeguata, è questione di valutazione di merito e non di violazione di legge.

3. - Con il secondo motivo di ricorso, la contribuente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione del complesso delle disposizioni antielusive contenute nell’art. 31-bis del d.P.R. n. 600 del 1973.

La ricorrente afferma che, contrariamente a quanto ritenuto dalla CTR, la fattispecie imputatale dall’ufficio tributario (stipula dei due contratti di cointeressenza) non rientra tra quelle elusive tassativamente descritte nel citato art. 31-bis.

3.1. - Il motivo è inammissibile, perché non coglie la duplicità delle rationes decidendi della sentenza e rende irrilevante la censura riguardante solo una di esse.

La CTR, infatti, afferma: a) sia che alla fattispecie di causa è applicabile la clausola generale antielusiva di cui all’art. 31-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, il quale non prevede ipotesi tassative, ma costituisce espressione del principio generale del divieto dell’abuso del diritto; b) sia che i due contratti di cointeressenza sono «privi della causa economica in concreto», in quanto «volti unicamente all’ottenimento di vantaggi fiscali di gruppo». Nonostante che il giudice di appello mostri di ritenere che il rilievo sub b) sia ricompreso o costituisca un’esplicazione di quello sub a), in realtà le due argomentazioni sono del tutto distinte, tanto che ciascuna di esse è astrattamente idonea a sorreggere la decisione.

In ordine alla prima argomentazione, va premesso - per chiarezza - che nel presente giudizio (nel quale non viene richiamato il contenuto degli atti di altri giudizi riguardanti la stessa contribuente e pendenti davanti a questa Corte) non viene dedotto, né risulta dalla decisione di appello, che le società coinvolte nell'operazione abbiano esercitato l’opzione per il regime di tassazione di gruppo. Non v’è perciò (qui) la possibilità dì ritenere sussistente in concreto l’ipotesi di cui alla lettera f-bis) del comma 3 dell’art. 31-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione dì gruppo) e, in particolare, di valutare se il contratto di cointeressenza (art. 2554 cod. civ.) comporti necessariamente, nonostante l’eventuale tenore contrario del testo contrattuale, un «apporto» (come ritiene una consistente parte della dottrina), oppure solo in alcuni casi (come afferma la giurisprudenza di questa Corte: per tutte, vedi Cass. n. 8955 del 2014), e, quindi, di accertare in punto di fatto la sua riconducibilità ad un rapporto sinallagmatico integrante cessioni di beni e prestazioni di servizi.

Ciò premesso, appare evidente che la CTR ha inteso evocare (con l’argomentazione sub a) quel predominante indirizzo giurisprudenziale secondo cui sussiste nel nostro ordinamento una clausola generale antielusiva, desumibile direttamente dai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (artt. 53, primo e secondo comma, Cost.), in forza della quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale (explurimis, Cass., sezioni unite, n. 30055, n. 30057 del 2008; Cass. n. 19324 e n. 21390 del 2012; n. 17965 del 2013). In base a tale impostazione, la CTR ha coerentemente ritenuto esistente anche per i tributi non armonizzati, il principio generale antiabuso riconosciuto vigente per i tributi armonizzati (ed applicabile d’ufficio) dalla giurisprudenza eurounitaria (a partire da CGCE 21 febbraio 2006, in causa C- 255/02, Halifax; vedi anche 21 febbraio 2008, in causa C-425/06, Part Service s.r.l. in liquidazione.; 22 maggio 2008, in causa C-162/07, Ampliscientifica ed Amplifm). Appare perciò consequenziale l’argomentazione dello stesso giudice di appello secondo cui, poiché in materia di tributi armonizzati il divieto di abuso del diritto vige in relazione a qualsiasi operazione ed a qualsiasi condotta (non essendo stata limitata l’operatività del divieto a condotte elusive tipiche), anche in materia di tributi non armonizzati il divieto (oltre ad essere applicabile d’ufficio) non è limitato all’utilizzazione delle operazioni indicate dal comma 3 dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, il  quale non integra un limite al divieto, ma costituisce uno degli indici sintomatici della sussistenza del divieto stesso, individuando alcuni esempi di fattispecie nelle quali è più facilmente riscontrabile il pericolo di un abuso. Tale orientamento (divenuto pressoché univoco, alla data della presente decisione, nella giurisprudenza di questa Corte) implica l’inespresso (ma necessitato) corollario che, di fronte ad un siffatto principio - in quanto derivato "direttamente" dall’art. 53 Cost. -, qualsiasi disciplina limitativa (anche meramente procedurale) sarebbe incostituzionale, ove non intervenisse un bilanciamento con altre norme costituzionali. Questa impostazione interpretativa appare opinabile, perché (a tacer d’altro) vanifica quasi ogni intervento del legislatore in materia e trascura la lettera dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (non colpita, allo stato, da dichiarazioni di illegittimità costituzionale), che ha previsto, quale «condizione» per l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria degli effetti dell’elusione fiscale, l’utilizzazione di una o più tra le operazioni elencate nel comma 3 dello stesso articolo.

Tuttavia, indipendentemente da tale opinabilità, la CTR ha fatto espresso riferimento anche alla non impugnata argomentazione sub b), che attiene al diverso profilo dell’inesistenza della causa concreta dei contratti di cointeressenza. Il ricorso alla nozione di mancanza della causa concreta del contratto di cointeressenza si ricollega all’impostazione seguita da questa Corte (sempre in materia di elusione fiscale) con le sentenze n. 20398 e n. 22932 del 2005, nelle quali (pur non essendo formalmente impiegata l’espressione letterale «causa concreta») veniva rilevato che l’effettiva funzione economico individuale del contratto era diversa da quella astrattamente collegabile al tipo contrattuale adottato, perché i negozi posti in essere avevano la diversa ed unica finalità di ottenere un indebito vantaggio fiscale. È chiara la diversità delle impostazioni: nel divieto generale di elusione fiscale (argomento sub a) non viene in rilievo la legittimità dei negozi posti in essere, ma solo l’inesistenza di valide ragioni economiche extrafiscali giustificative delle operazioni utilizzate ai fini dell’inopponibilità al fisco; nel difetto di causa concreta (argomento sub b) viene invece in rilievo un vizio del negozio che ne comporta l’invalidità (o l’inefficacia). Il fatto che la CTR abbia ritenuto che la mancanza della causa concreta comporti non la nullità dei contratti di cointeressenza, ma la loro inopponibilità al amministrazione finanziaria, non è aspetto qui rilevante (tanto più che, come visto, tale ratio decidendi non è impugnata). Ciò che emerge, invece, è l’irrilevanza della denunciata violazione di legge.

4. " Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa il fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, riguardante la legittimità e non elusività dei due sopraindicati contratti di cointeressenza.

In particolare, la CTR non avrebbe tenuto conto dei seguenti fatti, evidenziati sia nelle risposte al questionario, sia nel ricorso presentato alla Commissione tributaria provinciale, sia negli scritti difensivi in appello: a) la cointeressata s.r.l. H.B. era stata "acquistata" dal gruppo S. al prezzo di € 1.180.000,00 (tramite la partecipata s.r.l. D.) il 16 gennaio 2006, successivamente al primo contratto di cointeressenza, stipulato con la s.r.l. G. (partecipata al 50% dal suddetto gruppo) il 9 gennaio 2005; b) la cointeressata società lussemburghese R.H. SARL (sottoscrittrice del secondo contratto di cointeressenza in data 25 gennaio 2006) non faceva parte del gruppo S., non essendo prova sufficiente di tale partecipazione la circostanza che la sede della SARL in Lussemburgo fosse comune a quella di altre società del gruppo S. (nello stesso indirizzo erano domiciliate oltre 200 società ed ivi operava la società V.L. SARL, che prestava servizi di domiciliazione per numerosissime società); c) i contratti di cointeressenza rispondevano alla ragione economica di ripartire il rischio di impresa in relazione alla cessione — subordinata a determinate condizioni — di due immobili di proprietà della s.r.l. G., siti uno in Milano, via (...), l’altro in Napoli, via (...); d) in particolare, il rischio relativo alla cessione dell’immobile sito in Milano derivava; d.1) dall’esigenza "dell’acquirente" s.r.l. M. di ottenere l’autorizzazione ad utilizzare l’immobile come esercizio commerciale entro il 30 giugno 2006, con successiva definitiva fissazione del prezzo e con possibilità per l’acquirente medesima o di fissare il prezzo indipendentemente dalle autorizzazioni o di rivendere alla venditrice il bene privo di autorizzazioni allo stesso prezzo di acquisto o di ridurre il prezzo per «un importo predeterminato» (€ 34 milioni) ottenendo in restituzione della venditrice la differenza rispetto al prezzo originario; d.2.) dalla vendita dell’immobile, in data 2 marzo 2005, alla s.p.a. Banca Italease, in accordo con la s.r.l. M., alla quale l’immobile stesso veniva concesso in locazione finanziaria dalla indicata s.p.a., con conferma delle condizioni pattuite tra la venditrice e la s.r.l. M.; d.3.) dall’accordo in data 19 gennaio 2006, in forza del quale, da un lato, la s.r.l. G. aveva la possibilità di prorogare al 30 marzo 2007 il termine per ottenere le autorizzazioni e, dall’altro, erano parzialmente modificate le condizioni per l’obbligo della s.r.l. G. di riacquistare il bene dalla s.p.a Banca Italease al medesimo prezzo oppure di ridurre il prezzo di vendita; d.4.) dalla comunicazione in data 16 ottobre 2006, da parte della s.r.l. G. alla s.r.l. M., della scelta di considerare «irrilevante» il rilascio delle autorizzazioni, con conseguente definitiva fissazione del prezzo; e) i contratti di cointeressenza non avevano provocato alcun risparmio d’imposta (calcolato dall’avviso di accertamento nella differenza tra l’ammontare di € 12.402.503,00, corrispondente alle imposte che si sarebbero liquidate a carico della s.r.l. G. senza i contratti di cointeressenza e quello effettivamente liquidato di € 2.146.806,00), perché l’ufficio tributario - ove si seguisse la sua impostazione circa l’imputazione dei costi di € 36.314.350,00 all’esercizio 2005 - era incorso nell’errore di non escludere dalla rideterminazione del reddito imponibile del 2006 i ricavi di € 78.000.000,00 derivati dalla vendita dell’immobile di Milano, da imputarsi invece (sempre secondo la stessa impostazione dell’ufficio) all’anno 2005, con la conseguenza che il periodo d’imposta 2006 si sarebbe dovuto chiudere in perdita (pagine 76, 77 e 104 del ricorso); f) l’indebito risparmio d’imposta non può realizzarsi in presenza di un incremento delle perdite, data l’assoluta alcatorietà del risparmio, subordinato all’esistenza negli esercizi successivi di un reddito idoneo ad assorbire anche le perdite derivanti direttamente dall’operazione negoziale ritenuta elusiva

4.1. - Il motivo è inammissibile. La ricorrente, infatti, prospetta una serie di elementi che non sono decisivi né singolarmente né nel loro complesso, in quanto vanno inseriti in una valutazione complessiva di un fenomeno articolato che può essere considerato solo nella sua interezza.

In dettaglio: a) poiché l’utilizzazione dei contratti di cointeressenza, per la parte che in questa sede rileva (2006), è avvenuta, secondo la CTR, nell’ambito di una strategia unitaria del gruppo di cui faceva parte la ricorrente, non hanno rilievo i dati precedenti al periodo d’imposta in esame; b) la valutazione della sufficienza degli elementi per ritenere che la società lussemburghese R.H. SARL facesse parte del gruppo S. costituisce giudizio riservato al giudice di merito, che non può essere qui censurato dalla ricorrente soltanto adducendo una opposta valutazione; c) la funzione tipica dei contratti di cointeressenza non rileva sul giudizio della CTR, la quale ha basato la sua decisione proprio sul fatto che detti contratti vennero utilizzati in modo distorto al fine di eludere norme fiscali; d) l’applicazione, da parte del giudice di appello, del criterio di competenza sancito dall’art. 109, comma 2, lettera a), del TUIR costituisce una valutazione giuridica dalla quale è scaturita la ritenuta indeducibilità dei costi relativi alla vendita del compendio immobiliare di via (...), in Milano, per € 36.314.350,00, riguardanti l’anno 2005 (in relazione al contratto di vendita stipulato il 2 marzo 2005 con la s.p.a. I.) e, pertanto, è inconferente affermarne la deducibilità per il 2006; e) la stessa ricorrente per cassazione, nel riportare in parte l’avviso di accertamento, riferisce che, secondo l’ufficio tributario, «i proventi derivanti dalla cessione e i relativi oneri di diretta imputazione dell’immobile di Milano, via (...) devono intendersi di competenza dell’anno 2005»; f) l’eccezione che il ricavo della vendita, per un corrispettivo di € 78.000.000, era stato erroneamente mantenuto nel 2006 dall’ufficio tributario (in contrasto con il passo dell’avviso sopra trascritto), anziché imputato, come i costi, al 2005, è priva di autosufficienza, perché non risultano riprodotti nel ricorso per cassazione i passi dell’avviso dì accertamento dai quali possa desumersi con certezza l’errore dedotto dalla ricorrente (non sono sufficienti a tal fine, data la loro genericità, le tabelle di cui alle pagine 77, 91 e 104 del ricorso per cassazione, che oltretutto, per ammissione della parte, non costituiscono neppure una trascrizione letterale dell’avviso); g) il calcolo del vantaggio fiscale basato sul risultato differenziale delle imposte applicabili, rispettivamente, con e senza i contratti di cointeressenza non è inficiato dalle sopra riportate valutazioni (pertanto non decisive) della ricorrente.

Gli elementi prospettati nel ricorso per cassazione, dunque, non sono idonei ad incidere sulla valutazione complessiva della CTR, ad avviso della quale i due contratti di cointeressenza («privi della causa economica in concreto», in quanto «volti unicamente all’ottenimento di vantaggi fiscali di gruppo» e in relazione ai quali la contribuente non aveva fornito prove della sussistenza di valide ragioni extrafiscali per la loro stipula) avevano consentito alla s.r.l. G. di trasferire parte del suo reddito imponibile sia alla s.r.l. A. (le cui precedenti perdite fiscali avevano compensato la parte di utili conseguiti dalla cointeressante), sia alla società lussemburghese R.H. SARL, in tal modo rendendo applicabili alle tre società imposte solo per complessivi € 2.741.220,00 in luogo dei complessivi € 12.402.503,00, altrimenti dovuti dalla s.r.l. G..

Occorre concludere che le censure addotte nel ricorso per cassazione sono inammissibilmente dirette ad ottenere una nuova valutazione del merito della causa.

5. - Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso (che riprende una parte del precedente motivo), la contribuente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa il fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, riguardante la ripresa a tassazione di € 36.314.350,00, che l’ufficio tributario ha ritenuto di competenza dell’anno 2005 e non del 2006.

La CTR, infatti, non avrebbe considerato che solo con lettera raccomandata del 16 ottobre 2006, la venditrice s.r.l. G. aveva comunicato alla s.r.l. M., acquirente dell’immobile sito in Milano, che il prezzo dell'immobile era definitivamente fissato il € 78 milioni, oltre IVA, e che, pertanto, le componenti positive e negative di reddito erano state correttamente contabilizzate in relazione all’anno d’imposta 2006, anno nel quale il prezzo era stato fissato in modo non definitivo, mentre nell’anno precedente erano incerti l’an ed il quantum dell’affare (in considerazione delle condizioni pattuite circa il rilascio di autorizzazioni commerciali afferenti il medesimo immobile), tanto da giustificare l’appostazione da parte della s.r.l. G. per l’anno 2005 sia dell’importo di € 78 milioni in aumento del reddito imponibile per i ricavi derivati dalla vendita dell’immobile di Milano, sia di un fondo rischi dell'importo di € 34 milioni in diminuzione del reddito imponibile (per il caso di successivo esercizio della facoltà per l’acquirente di richiedere la riduzione dell’originario prezzo di vendita.) La stessa CTR, poi, non avrebbe tenuto conto che l’ufficio, pur ritenendo di competenza del 2005 i costi ed i ricavi della suddetta compravendita, non aveva considerato per tale anno i ricavi.

5.1. "Il motivo è inammissibile. Le ragioni dell'inammissibilità discendono dal fatto che la ricorrente ha omesso di prendere in considerazione, nel suo motivo, il citato contratto di vendita (relativo al compendio immobiliare di via (...), in Milano) stipulato il 2 marzo 2005 tra la venditrice società e l’acquirente s.p.a. I.. La mancata rappresentazione di tale dato (su cui si basa il processo verbale di constatazione e l’avviso di accertamento richiamati dalla CTR per l’applicazione del criterio di competenza al 2005) rende inidoneo il motivo, che prospetta fatti non decisivi. Inoltre valgono le medesime osservazioni di cui al punto precedente: a) la stessa ricorrente per cassazione, nel riportare in parte l’avviso di accertamento, riferisce che, secondo l’ufficio tributario, «i proventi derivanti dalla cessione e i relativi oneri di diretta imputazione dell’immobile di Milano, via (...) devono intendersi di competenza dell’anno 2005»; b) di fronte a tale contenuto dell’avviso, l’eccezione sollevata dalla società, secondo cui il ricavo della vendita, per un corrispettivo di € 78.000.000, sarebbe stato erroneamente mantenuto nel 2006 dall’ufficio tributario (in contrasto, quindi, con il passo dell’avviso sopra trascritto), anziché imputato, come i costi, al 2005, è priva di autosufficienza, perché non risultano riprodotti nel ricorso per cassazione i passi dell’avviso di accertamento dai quali possa desumersi con certezza l’errore dedotto dalla ricorrente (non sono sufficienti a tal fine, data la loro genericità, le tabelle di cui alle pagine 77, 91 e 104 del ricorso per cassazione, che oltretutto, per ammissione della parte, non costituiscono neppure una trascrizione letterale dell’avviso).

7. - Al rigetto complessivo del ricorso consegue sia la condanna al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente Agenzia delle entrate (per un valore dichiarato di € 23.531.685,00), sia l’applicazione dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002; comma inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione. Ai sensi di tale disposizione, infatti, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto - senza ulteriori valutazioni - della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante integralmente soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente Agenzia delle entrate le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in € 55.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13.