Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 luglio 2015, n. 15870

Contratto a tempo determinato - Nullità del termine - Inerzia del lavoratore - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Configurabilità - Limiti

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza depositata il 7.7.08 la Corte d’appello di Caltanissetta rigettava, per intervenuto mutuo consenso, il gravame di V.P. contro la sentenza del Tribunale di Enna che aveva respinto la sua domanda di accertamento d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze di P.I. S.p.A. previa declaratoria di nullità del termine apposto al contratto fra loro stipulato per il periodo 2.8.99 - 30.10.99.

Per la cassazione della sentenza ricorre V.P. affidandosi a due motivi.

P.I. S.p.A. resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata.

 

Motivi della decisione

 

1- Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per non avere la sentenza impugnata pronunciato su tutti i motivi d’appello.

Il motivo è infondato, avendo la gravata pronuncia ritenuto di concentrare la propria attenzione sul rilievo assorbente, perché ritenuto fondato (ancorché erroneamente: v. infra), dell’esistenza di un mutuo consenso alla risoluzione del rapporto fra le parti.

2 - Con il secondo motivo il ricorso si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 e ss. c.c. nella parte in cui la Corte territoriale ha confermato l’avvenuta risoluzione del contratto per mutuo consenso.

Il motivo è fondato.

Invero, la più recente giurisprudenza di questa S.C. - cui va data continuità - è ormai consolidata nello statuire che nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l'azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l'assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, cod. civ. di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine (cfr., ex aliis, Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. 1°.2.2010 n. 2279).

Ed ancora, afferma Cass. n. 9583/2011 che grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v., sempre in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).

Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame della S.C., ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici) l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.

Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: "D'altra parte, come è noto, l'azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell'art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sé solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824). Comunque, consentendo l'ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l'azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sé, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l'estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell'imprescrittibilità dell'azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l'esercizio del diritto o dell'azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa delle parti di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). È, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell' 1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007)." (v„ altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).

Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Né è indicativa d’un mutuo consenso alla risoluzione la condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass. n. 15900/2005, in motivazione), trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine, così come non è interpretabile in tal senso neppure l’accettazione del TFR da parte del lavoratore (cfr. Cass. n. 15628/2001, in motivazione).

La sentenza impugnata non si è attenuta ai principi sopra ricordati.

3 - In conclusione, si accoglie il secondo motivo di ricorso, si rigetta il primo e si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Palermo.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Palermo.