Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 29 luglio 2015, n. 16077

Lavoro - Contratto a termine - Poste italiane - Esigenze di carattere straordinario - Processi di riorganizzazione - Nullità del termine

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 9/10/06 il Giudice del lavoro del Tribunale di Pistoia accoglieva la domanda proposta da L.M. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 15/10/01 al 31/1/02 per "esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio..., nonché in concomitanza di assenze per ferie".

Detta pronuncia veniva confermata dalla Corte d'Appello di Firenze con sentenza depositata il 14/11/08, che respingeva l'appello proposto dalla società, essenzialmente sul rilievo della mancata dimostrazione da parte della stessa, del rispetto del limite di contingentamento fissato dalle parti sociali all'art.25 c.c.n.l. 2001, nella misura del 5% del personale in servizio alla data del 31 dicembre dell'anno precedente.

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi corredati da quesiti di diritto ed illustrati da memoria ex art.378 c.p.c.

La L. ha resistito con controricorso.

Infine il Collegio ha autorizzato la stesura di motivazione semplificata.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo mezzo di impugnazione, la ricorrente critica la sentenza impugnata perché nell'affermare l'illegittimità del contratto a termine per violazione della quota numerica prevista dall'art.25 ccnl di settore, ha ritenuto che l'onere di fornire la prova in proposito incombeva sulla società anziché sulla lavoratrice, la quale aveva dedotto l'illegittimità del contratto. Sostiene inoltre che la Corte di merito, considerata insufficiente la documentazione prodotta dall'azienda a sostegno della dedotta insussistenza della violazione della clausola di contingentamento, avrebbe dovuto esercitare i suoi poteri istruttori officiosi, ordinando una consulenza contabile d'ufficio al riguardo, prima di concludere per la violazione del limite numerico.

Il motivo non merita accoglimento.

Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, "nel regime di cui alla legge 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall'art.23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono - essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l'indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell'apposizione del termine nei contratti stipulati in base all'ipotesi individuata ex art. 23 citato, l'indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L'onere della prova dell'osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui all'art.3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro." (vedi ex plurimis, Cass. 19-1-2010 n. 839, cui adde Cass. 8-1-15 n.65 e Cass. 10-3-15 n.4764).

E nella specie, tale dimostrazione non risulta fornita.

La Corte di merito ha infatti al riguardo rimarcato che la prova documentale versata in atti consisteva in una serie di comunicazioni indirizzate alle organizzazioni sindacali, concernenti mere intenzioni di assunzione e di rispetto dei limiti di legge, che non consentivano di ritenere integrata una prova specifica del rapporto fra il numero dei dipendenti nell'ambito della regione, al 31/12/2000, e la percentuale di contratti a termine stipulati fino alla data di sottoscrizione di quello in oggetto. Ha aggiunto, quindi, che il motivo di gravame presentava evidenti profili di inammissibilità, per la mancanza di specifica enunciazione dell'errore di valutazione. Inammissibile risulta, poi, la censura relativa al mancato esercizio di poteri istruttori d'ufficio ed in specie al mancato espletamento di una CTU contabile, da parte dei giudici di merito.

Come più volte è stato precisato da questa Corte "il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull'onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori" (v. Cass. 12-3-2009 n. 6023, Cass. 2.6-6-2006 n. 14731) . In ogni caso, poi, i detti poteri, "- pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi - non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale" (cfr. Cass. 8-8-2002 n. 12002, Cass. 215-2009 n. 11847, Cass. 22-7-2009 n. 17102, Cass. 15-3-2010 n. 6205).

Orbene la ricorrente neppure indica se, quando ed in quali termini abbia sollecitato la nomina di un CTU.

Peraltro non va trascurato che la consulenza tecnica d'ufficio "è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell'ausiliario giudiziario e la motivazione dell'eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice" (v. fra le altre Cass. 5-72007 n. 15219, Cass. 21-4-2010 n. 9461).

Anche sotto tale profilo, la articolata censura non si palesa meritevole di accoglimento.

Con il secondo motivo, calibrato in relazione alle richieste economiche sotto il profilo della violazione di legge e della insufficiente o contraddittoria motivazione, la società deduce che nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la prova dell'effettivo danno subito, e che neppure vi sarebbe stata una concreta offerta della prestazione con conseguente mora accipiendi del datore di lavoro.

Tale motivo risulta del tutto generico e astratto (così come, peraltro, il relativo quesito conclusivo formulato ex art. 366 bis applicabile ratione temporis, cfr. fra le altre Cass. 2499/2012, 2615/2012, 12954/2012, 15461/2012, 1211/2013, 3819/2013, 18735/2013) nonché privo di autosufficienza ed è pertanto da ritenersi inammissibile.

Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha condannato la società al pagamento delle retribuzioni omesse dalla data di messa in mora (ravvisata nella istanza di convocazione innanzi alla commissione di conciliazione), la ricorrente censura tale decisione in modo assolutamente generico, senza riportare il testo dell'atto che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato la offerta della prestazione e la messa in mora.

Con il terzo motivo la ricorrente censura poi la sentenza per non avere tenuto conto che l'aliunde perceptum... non può che essere genericamente dedotto dall'istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga).

Il motivo, cosi riassunto, conclude poi con la formulazione di un quesito anch'esso più volte ritenuto inidoneo ed inammissibile da questa Corte (v. fra le numerose altre Cass. 10-1-2011 n. 325).

Del resto anche la relativa censura risulta assolutamente generica e priva di autosufficienza, non essendo riportati i termini con i quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum.

Né è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della richiesta di esibizione di documentazione (libretti di lavoro e buste paga) che (peraltro in tempo e in modo non precisato) sarebbe stata avanzata dalla società.

Come questa Corte ha più volte chiarito, "il rigetto da parte del giudice di merito dell'istanza di disporre l'ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non è sindacabile in cassazione, perché, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l'iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione" (v. fra le altre Cass. 14-7-.2004 n. 12997, Cass. sez. I 17-5-2005 n. 10357, Cass. sez. IlI 2-2-2006 n. 2262). D'altra parte "l'esibizione di documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio" (v. fra le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Così risultati inammissibili, in specie, gli ultimi due motivi, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall'art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest'ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

In definitiva, il ricorso va respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della L. nella misura in dispositivo liquidata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali ed accessori di legge.