Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 luglio 2015, n. 15045

Lavoro - Contratto a termine - Esigenze eccezionali - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Volontà delle parti - Accertamento

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 7 ottobre 2008 la Corte d’appello di Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale di Ancona del 20 marzo 2006 con la quale era stata dichiarata la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato da P.I. s.p.a. con G. G. per il periodo 7 marzo 2000 - 30 giugno 2000 ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane. La Corte territoriale ha considerato che il contratto in questione era stato stipulato oltre il termine di validità del contratto collettivo che autorizzava l’apposizione del termine ai contratti di lavoro. La stessa Corte territoriale ha pure considerato che la mera inerzia del lavoratore non è indice della volontà di risolvere il rapporto per cui ha escluso che il rapporto in questione si sia risolto per mutuo consenso.

P.I. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a tre motivi illustrati da memoria.

Resiste la G. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1372, comma 1 e 2 cod. civ. nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e nullità del procedimento ex art. 360, nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ. con riferimento alla mancata considerazione della risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Con il secondo motivo del ricorso principale si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e segg., e omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. con riferimento alla considerata limitata efficacia temporale della previsione collettiva relativa all’apposizione del termine ai rapporti di lavoro.

Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto, e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. con riferimento alla necessità della prova da parte del lavoratore, del danno subito a causa dell’illegittima apposizione del termine.

Il primo motivo è infondato. Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8- 2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15 - 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887). Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l'indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all'uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizza esclusivamente il "piano oggettivo" nel quadro di una presupposta valutazione sociale "tipica", fondata sull'art. 1372 c.c., comma 1 e sui principi di settore in materia di rapporto di lavoro subordinato (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209). In primo luogo la norma codicistica non prevede affatto una valorizzazione esclusiva del mero "piano oggettivo" e neppure stabilisce una sorta di "clausola generale" che consenta una siffatta valorizzazione. Stabilendo che il contratto "non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge", la norma richiede, anzi, chiaramente un "mutuo consenso", che ben può esprimersi con una manifestazione negoziale tacita, attraverso comportamenti significativi tenuti dalle parti, certamente valutabili anche sul piano oggettivo, ma pur sempre necessariamente concludenti, univoci e tali da evidenziare una volontà risolutoria o, se si vuole (nel quadro di una crescente "oggettivazione" del contratto), un completo e definitivo disinteresse alla attuazione del rapporto (v. fra le altre Cass. 29-3-1995 n. 3753, Cass. 15-6-2001 n. 8106, Cass. 11- 9-2003 n. 13370, circa la necessità, comunque, che la durata della cessazione della funzionalità di fatto del rapporto sia accompagnata da circostanze e modalità tali da evidenziare un siffatto disinteresse). In altre parole, non può prescindersi dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale che, in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo. D'altra parte, il mero decorso del tempo e la mera inerzia del lavoratore costituiscono un semplice fatto che, al di fuori delle ipotesi tipiche fissate dalla legge, di per sé è irrilevante. Né può essere sufficiente al fine della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti (v. fra le altre Cass. 7- 7-1998 n. 6615). Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver richiamato la giurisprudenza prevalente di legittimità, ha rilevato che "vuoi l’obiettivo dato cronologico, vuoi le considerazioni soggettive che si sono svolte escludono che l’appellata abbia inteso, per facta concludentia, risolvere il rapporto con P.I.". Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.

Pure il secondo motivo è infondato. Osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali ai sensi dell'art. 8 del CCNL del 1994, come integrato dall'accordo aziendale 25 settembre 1997, in data successiva al 30 aprile 1998 (e anteriormente alla operatività del CCNL del 2001), in epoca cioè in cui "era venuta meno la contrattazione autorizzatoria". Tale considerazione, in base all'indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001), è sufficiente a sostenere l'impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo. Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che "l'attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall'intento del legislatore di considerare l'esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l'unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all'autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063, Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato" (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378). In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866). In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l'accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell'art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell'ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998. Ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell'art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230" (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 novembre 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.). Tanto basta per respingere il motivo di ricorso in esame relativo al limite temporale a cui sono subordinate le assunzioni a termine delle P.I., così confermandosi la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo.

Il terzo motivo è inammissibile per carenza di valido quesito di diritto, risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4 gennaio 2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7 aprile 2009 n. 8463). Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15 febbraio 2003 n. 2331, Cass. 10 luglio 2001 n. 9336).

In memoria si invoca lo jus superveniens, costituito dal disposto della L. n. 183 del 2010, art. 32, in tema di risarcimento danni in caso di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Con riferimento alla tutela indennitaria introdotta dal Legislatore del 2010 va ribadita l'inammissibilità della relativa domanda, stante la ritenuta inammissibilità del motivo di ricorso riguardante il risarcimento del danno che comporta il passaggio in giudicato della relativa statuizione.

È stato infatti ritenuto (tra le tante, Cass. 4363/2009) che la formazione della cosa giudicata per mancata impugnazione, o per inammissibile impugnazione, su un determinato capo della sentenza investita dal gravame, può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di impugnazione, perché fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno, mentre, invece, non può verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove quest'ultima sia oggetto del gravame. Infatti, ove fosse state travolta la prima statuizione sull'illegittimità del termine sarebbe fatalmente venuta meno la statuizione sul quantum, in forza dell'effetto espansivo previsto dall’art. 336 cod. proc. civ., secondo cui la riforma o la cassazione produce effetti sui capi dipendenti. Si cita, in questi casi, l'istituto del giudicato apparente, destinato cioè a venir meno ove venga travolta la statuizione principale di sostegno. Una volta però che quest'ultima venga confermata, non può che formarsi la preclusione sulla questione del quantum, in quanto non sottoposta ad impugnazione o comunque impugnata in modo dichiarato inammissibile, come nel caso in esame. In altri termini, ove fossero state accolte, in questa sede, le censure proposte sulla illegittimità del termine apposto al rapporto di lavoro, sarebbe stata travolta la dipendente decisione sul quantum, ma una volta che la prima è stata confermata, non è consentito alla Corte di esaminare la seconda, nei cui confronti non è stata proposta valida impugnazione. Né questi principi possono essere travolti dallo ius superveniens, in quanto la relativa applicazione deve pur sempre essere coordinata con il regime delle impugnazioni. È stato infatti affermato (ex multis, Cass. 15357/2012) che i principi della rilevabilità, anche d'ufficio, dello ius superveniens e della sua applicabilità nei giudizi in corso non operano indiscriminatamente, ma devono essere coordinati con quelli che regolano l’onere dell'impugnazione e le relative preclusioni, con la conseguenza che la loro operatività trova ostacolo nel giudicato interno formatosi in relazioni, alle questioni, sulla decisione delle quali avrebbe dovuto incidere la normativa sopravvenuta, e nella conseguente inesistenza di controversie in atto sui relativi punti. In altri termini, il passaggio in giudicato della statuizione relativa al risarcimento, preclude il diritto di invocare lo ius superveniens retroattivo.

Il ricorso sulla base delle esposte considerazioni, in conclusione, va rigettato.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso;

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessive € 100,00 per esborsi ed € 3.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.