Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 luglio 2015, n. 15302

Tributi - IVA - Fatture irregolari - Omessa regolarizzazione della commissionaria - Sanzioni - Presupposti

 

In relazione all'anno d'imposta 2003, l’Agenzia delle entrate, per quanto ancora d'interesse, ha applicato alla società, commissionaria italiana in nome proprio e per conto di P., sanzione pecuniaria per l'omessa regolarizzazione di fatture di cessione per la vendita di partite di sementi emesse dalla committente, delle quali assumeva l’irregolarità, perché esponevano l'imponibile totale, pari al prezzo convenuto tra la commissionaria ed il terzo acquirente, con l'applicazione dell'aliquota speciale del 4% previsto per le sementi, dal quale imponibile era stato scorporato l'importo pari alla provvigione spettante alla commissionaria, sul quale era stato calcolata l'iva, in base all'aliquota ordinaria del 20%; nelle fatture, infine, era calcolata la differenza tra l'iva al 4% sul totale e l'iva al 20% sulla percentuale corrispondente alla provvigione, con addebito alla commissionaria della differenza fra i due valori. Secondo l'Agenzia, di contro, poiché i passaggi di beni per la vendita dal committente al commissionario sono cessioni imponibili, la base imponibile delle quali è pari al prezzo di vendita convenuto tra il commissionario ed il terzo acquirente, al netto della provvigione spettante al commissionario, il committente avrebbe dovuto addebitare al commissionario soltanto l'iva prevista per la cessione, con l'aliquota pari al 4%, su un imponibile pari alla differenza tra il prezzo finale al terzo acquirente e la provvigione.

Inoltre, l'Agenzia, con riferimento a partite di mais che la società aveva dovuto riacquistare da agricoltori propri clienti, contestò, in base ai prezzi di riacquisto fatturati dagli agricoltori che, sebbene le partite fossero state rivendute solo in piccola parte, non risultavano tra le rimanenze finali e, per conseguenza, non erano state trattate come componenti positivi di reddito, ai fini Irpeg ed Irap.

La Commissione tributaria provinciale accolse il ricorso proposto dalla società con riguardo alla ripresa concernente l’iva, rigettando quella rilevante ai fini dell'irpeg e dell'irap, là dove quella regionale ha respinto l'appello dell'ufficio, facendo leva sulla mancanza di danno per l'erario, accogliendo, invece, il gravame incidentale della società, in ragione della mancanza di idonea documentazione della rivendita della medesima merce nel corso dell'anno 2004 e, quindi, l'insussistenza dell'obbligo di contabilizzarla fra le rimanenze finali.

Ricorre l’Agenzia delle entrate per ottenere la cassazione della sentenza, affidando il ricorso a due motivi, cui la società reagisce con controricorso, spiegando altresì ricorso incidentale, articolato in due mezzi, che illustra con memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Diritto

 

1. - Va preliminarmente dichiarata l'inammissibilità del ricorso incidentale, il quale non verte su questioni preliminari in senso proprio, ma su argomenti logicamente prodromici rispetto a quelli dedotti dal giudice d'appello, idonei, in quanto tali, a modificare la motivazione, fermo restando il dispositivo. Un tale ricorso è carente d'interesse, in quanto l'auspicata correzione si può ottenere mediante la semplice riproposizione delle difese nel controricorso o attraverso l’esercizio del potere correttivo attribuito alla corte di cassazione dall’art. 384 c.p.c. (Cass. 24 marzo 2010, n. 7057; 16 gennaio 2015, n. 658).

2. - Ad ogni modo, gli argomenti dedotti col primo motivo di esso sono fondati a contrastare il primo motivo del ricorso principale, col quale l’Agenzia lamenta, ex art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 3, primo periodo, seconda parte della l. 27 luglio 2000, n. 212, dell’art. 6, comma 8, prima parte e lett. b) del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, dell’art. 6, comma 5 bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e degli artt. 17, comma 1, 28, comma 1 e 30 del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, rimarcando che le violazioni della contribuente, consistite nell’omessa regolarizzazione specificata in narrativa, hanno inciso sulla determinazione della base imponibile, sull’imposta e sul versamento di questa, risultando per conseguenza sanzionabili.

Sostiene, di contro, la società che l'obbligo di regolarizzazione dall'inadempimento del quale è scaturita l'irrogazione della sanzione, riguarda soltanto i vizi evidenti, non potendosi estendere, invece, a casi, come quello in esame, in cui l'erronea fatturazione dipende dall'erronea interpretazione del rapporto sottostante.

Il controllo sulla irregolarità della fattura richiesto al cessionario o al committente dall'8° comma dell'art. 6 del d.lgs. n. 471 del 1997 è difatti intrinseco al documento, in quanto limitato alla regolarità formale della fattura, e, dunque, alla verifica dei requisiti essenziali individuati dall’art. 21 del d.p.r. 633/72, tra i quali rilevano, tra gli altri, i dati relativi alla natura, qualità, quantità dei beni e dei servizi, all'ammontare del corrispettivo, all'aliquota ed all'ammontare dell’imposta e dell'imponibile. La regolarizzazione richiesta al cessionario o committente consiste nel fornire le indicazioni dell’art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972, il quale appunto elenca gli elementi da inserirsi nella fattura. L’inclusione, fra i compiti del cessionario o committente, di un apprezzamento critico, su quanto l’emittente di fattura completa dichiari in ordine alla individuazione della base imponibile e dell’aliquota applicabile, in esito ad una ricognizione critica del rapporto giuridico sottostante, trasformerebbe l’obbligato in rivalsa in un collaboratore con supplenza in funzioni di esclusiva pertinenza dell’ufficio finanziario, e, dunque, andrebbe oltre la ratio di assicurare all’ufficio medesimo la conoscenza piena dei fatti rilevanti ai fini impositivi, introducendo una sorta di accertamento privato in rettifica della dichiarazione del debitore d’imposta.

Una dilatazione delle incombenze in discorso, nel senso voluto dall’amministrazione, non sarebbe del resto coerente con il contestuale obbligo del soggetto tenuto alla regolarizzazione della fattura altrui di pagare l’imposta non versata o versata in misura insufficiente.

La tesi porterebbe ad esigere quel versamento prima che l’ufficio abbia controllato ed eventualmente rettificato la suddetta dichiarazione in ordine a misura ed estensione della soggezione ad imposta, e quindi ad imporre il soddisfacimento di un credito non ancora accertato e fatto valere nel rapporto con il soggetto passivo, sulla mera base della prefigurabilità di una successiva iniziativa dell’ufficio stesso; il risultato sarebbe anomalo, e non scevro da dubbi di compatibilità con i precetti di cui agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, in quanto si richiederebbe al cessionario o committente, solo perché debitore finale in esito alla rivalsa, una solatio di tipo anticipatorio e cautelativo rispetto a credito d’imposta non ancora esercitato (in termini, Cass. 12 dicembre 2014, n. 26183; 18 agosto 2013, n. 18743).

Né è esportabile in materia il diverso indirizzo sugli oneri di diligenza con riguardo all'applicabilità del regime del margine, giacché, essendo questo un regime speciale, implica un vaglio critico della sussistenza dei relativi presupposti, pienamente compatibile con la diligenza qualificata prevista dal 2° comma dell'art. 1176, del codice civile. Le fatture ricevute dalla commissionaria italiana, di contro, risultando complete di tutti i dati prescritti, vanno qualificate, ai fini sanzionatori, come regolari.

3. - Col secondo motivo di ricorso, l'Agenzia lamenta, ex art. 360, 1° co., n. 3 e 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 166 c.p.c., dell’art. 59, 1° co., e 75, 5° co., del d.p.r. 917/86, nel testo vigente fino all' 1 gennaio 2004 nonché, ex art. 360, 1° co., n. 5, c.p.c., l'omessa valutazione di documenti decisivi.

Il motivo, benché accorpi più censure, è ammissibile, contrariamente a quanto eccepito in controricorso, giacché, evidenzia specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 23 aprile 2013, n. 9793).

La complessiva censura, peraltro, non è fondata.

Non è fondata sotto il profilo della violazione del principio di non contestazione, in quanto la stessa Agenzia riconosce di aver fatto leva con l'avviso di accertamento, al fine di ricostruire le rimanenze di magazzino delle quali si discute, non già su precisi fatti storici, bensì sulla deduzione ritraibile dall’obbligo di riacquisto, dalla modesta entità della somma ottenuta dalla rivendita e dalla circostanza che il 29 dicembre 2004 il mais «...era stato in parte ...riaddebitato alla propria committente svizzera...e in parte venduto a terzi», senza ulteriori specificazioni.

Là dove il principio della non contestazione può condurre ad affermare pacifico il solo fatto significante, non mai anche il fatto che si sostenga da quello direttamente desumibile - il cd. significato (Cass. 6 febbraio 2015, n. 2196).

Parimenti infondata è la censura concernente il vizio di motivazione per omesso esame di documenti decisivi, in quanto il documento in questione, ossia un punto dell'avviso di accertamento, non assurge al rango di documento decisivo, essendo privo di efficacia probatoria, poiché è l'oggetto immediato del processo introdotto dal ricorso del contribuente.

Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile quello incidentale e condanna l'Agenzia a pagare le spese sostenute dalia società, liquidate in euro 10000,00 per compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi ed al rimborso delle spese forfetarie, nella misura del 15%.