Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 luglio 2015, n. 31390

Tributi - IVA - Omesso versamento - Legale rappresentante - Società - Sequestro preventivo - Beni e somme di denaro - Procedimento dell'illecito amministrativo dell'ente - Sussiste

 

Ritenuto in fatto

 

L'indagato M.G. ha presentato ricorso in cassazione ex art. 325 c.p.p., per l'annullamento dell' ordinanza del 23 settembre 2014, depositata il 10 dicembre 2014, con la quale il Tribunale di Potenza, in funzione di giudice del riesame, ha confermato il decreto di sequestro preventivo del 12 giugno 2014 adottato dal GIP dello stesso Tribunale, avente ad oggetto beni e somme in disponibilità del M., fino alla concorrenza della somma di 1.189.189,00 euro, indagato del reato - commesso dal medesimo nella qualità di legale rappresentante della società M. auto motive srl - di omesso versamento dell'IVA (di cui all'art. 10 ter D.Lgs. n. 74 del 2000), in relazione agli anni di imposta 2009 e 2010.

Nel corso del procedimento non è stata posta in discussione la materialità del fatto, atteso che la società ha espressamente riconosciuto di essere debitrice della somme relative all'IVA dovuta negli anni in riferimento. Secondo il Tribunale di Potenza la responsabilità penale per tale fatto di reato grava sul legale rappresentante, atteso che per la commissione di reato è sufficiente il dolo generico e la contrazione delle commesse, e di conseguenza del fatturato, non può valere ad escludere il fumus delicti. Né può avere rilevanza il fatto che l'art. 7 del D.L. n. 269 del 2003 preveda una responsabilità autonoma in via amministrativa in capo alla persona giuridica.

Il ricorrente ha lamentato:

Violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione la mancata corresponsione del debito fiscale e delle sanzioni, in quanto le sanzioni amministrative sono esclusivamente a capo della persona giuridica, trattandosi di all'art. 7 D.L. n. 260 del 2003, dovendosi escludere la responsabilità del legale rappresentante per disposizione speciale rispetto al d.lgs n. 472/97, per cui la pregressa disposizione dell'art. 11 del d.lgs n. 472 non è più giuridicamente sussistente e non vi è alcuna solidarietà tra persona giuridica e legale rappresentante, come confermato dalla giurisprudenza di Cassazione; l'amministratore risponde solo per la conservazione del patrimonio sociale. L'ordinanza impugnata ha invece scisso gli effetti del mancato versamento IVA attribuendo la responsabilità amministrativa alla società e quella penale al legale rappresentante, sul presupposto della sua responsabilità per il mancato accantonamento dell'importo IVA. La tesi è del tutto svincolata dalla gestione legale delle società come prevista dal codice civile, che stabilisce quali siano accantonamenti legali, mentre quello destinato al pagamento IVA sarebbe in concreto una violazione del grado dei privilegi disposto dall'art. 2745 c.c. (in quanto l'IVA verrebbe riscossa con prededuzione dai ricavi di esercizio, in contrasto con la corretta gestione delle risorse finanziarie già esposte dal ricorrente innanzi al riesame e riassunte nel ricorso, dalle quali emerge la crisi di liquidità connessa alla drastica riduzione del fatturato (del 60%) per la crisi del committente unico F.S. dall'inizio del 2010, dovendo garantire i salari degli addetti sia nel 2010 che anche nel 2011, nonostante l'interruzione dell'attività, per cui la società è stata nell'oggettiva impossibilità del pagamento dell'IVA alla scadenza;

Violazione dell'art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all'art. 322-ter c.p.p. (ndr art. 322-ter c.p.) per difetto di responsabilità penale del ricorrente. La motivazione del Tribunale è carente di logica consequenzialità; in quanto è stato provato il motivo del mancato versamento IVA e, di contro, i giudici del riesame hanno valutato la responsabilità penale senza alcuna motivazione sul dolo addebitabile, ricondotto alla dichiarazione annuale di debito IVA e, quindi alla conoscenza del debito. Mentre manca nel caso di specie la volontarietà dell'inadempimento, essendo lo stesso riconducibile a fatti oggettivi ed alla anomala crisi aziendale, il Tribunale del riesame pretende dall'indagato una condotta inesigibile per fatto oggettivo attesa la corretta gestione della società. Quindi il giudice non ha svolto un accertamento concreto del fumus commissi delicti, essendosi limitato ad una postulazione formale offerta dal pubblico ministero, in contrasto con quanto affermato in giurisprudenza. Né è stata precisata l'attinenza tra i beni personali dell'indagato sottoposti a sequestro e l'esercizio della società, trattandosi di beni personali, di provenienza ereditaria o dall'attività di altre compagini societarie.

4. Con motivi aggiunti, depositati 18 giugno 2015, i difensori hanno censurato l'ordinanza avuto a riguardo alle seguenti violazioni di legge: 1) dell'art. 325 c.p.p., essendo la confisca per equivalente subordinata all'impossibilità di applicare la confisca diretta del profitto, mentre il Tribunale del riesame non ha effettuato alcun accertamento circa la rinvenibilità del profitto presso la persona giuridica; b) manca il fumus delicti, attesa l'insussistenza dell'elemento psicologico del dolo, atteso che l'omesso versamento IVA è stato dovuto ad una provvisoria indisponibilità economica della società; c) risulta violato il termine di cui all'art. 309 commi 9 e 10 c.p.p. atteso che il Tribunale ha depositato il 23 settembre 2014 il solo dispositivo dell'udienza camerale.

 

Considerato in diritto

 

1. Va premesso che, a norma dell'art. 325 c.p.p., il ricorso per cassazione può essere proposto soltanto per violazione di legge. Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 5876 del 28/1/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv.226710), nella nozione di "violazione di legge" rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, quali ad esempio l'art. 125 c.p.p., che impone la motivazione anche per le ordinanze, ma non la manifesta illogicità della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso dall’art. 606 c.p.p., lett. e). Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n.25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 25932, secondo cui nella violazione di legge debbono intendersi compresi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonee a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice.

2. Il Tribunale, con motivazione non certo apparente ed apodittica, ha ritenuto che sussistesse il fumus del reato ipotizzato, senza che potesse avere alcun rilievo il disposto di cui all'art. 7 del d.l. n. 269 del 2003. E' stato ripetutamente affermato che il reato di cui all'art. 10 ter del d.lgs n. 7-l del 2000, che ha natura di reato omissivo a carattere istantaneo e si perfeziona con l'omesso pagamento alla scadenza del termine, è ascrivibile all'amministratore e non all'Ente da lui amministrato, in relazione al quale, come questa Corte ha statuito, non è ravvisabile alcuna responsabilità da reato per la mancanza di una espressa previsione legislativa in tal senso, sicché non ha senso dolersi del fatto che non sia stato attivato il procedimento per l'illecito amministrativo tributario nei confronti dell'ente, non potendo tale corpus normativo spiegare rilevanza nell’ambito dei criteri di imputazione della responsabilità penale che vanno applicati nel caso di specie.

3. Quanto poi alle argomentazioni relative alla gestione legale della società ed alla presunta violazione legale dell'ordine dei privilegi, va rilevato che è proprio la prudente gestione del bilancio e la chiarezza dello stesso, che vengono ad essere garantite dal corretto accantonamento delle imposte dovute, quale auspicabile condotta virtuosa esigibile dal legale rappresentante; non può infatti essere invocato il criterio di riparto del patrimonio tra i diversi creditori in relazione al titolo del loro credito, riparto che potrebbe divenire operativo solo in una futura e futuribile fase liquidatone, quale criterio di gestione dell'ordinaria attività societaria.

4. Quanto al secondo motivo di ricorso, occorre ricordare che in tema di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, ai fini dell'esclusione della colpevolezza è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (cfr. Sez. 3, n. 2614 del 6/11/2013, Saibene, Rv. 258595). La giurisprudenza più recente ha insisto sull'onere probatorio che grava sul responsabile dell'omissione del pagamento di imposta in riferimento non solo alla non imputabilità alla sua gestione della crisi economica, che improvvisamente avrebbe investito l'azienda, ma anche alla circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto. E' quindi necessario che venga fornita la prova che non sia stato possibile, alla scadenza per il pagamento, reperire altrimenti risorse economiche e finanziarie necessarie all'adempimento delle obbligazioni tributarie, "pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un'improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili", tanto che è stato affermato che "la scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono" (cfr. Sez. 3, n. 8352 del 24/6/2014, Schirosi, Rv. 263128).

5. Ciò significa che va attribuita rilevanza alla impossibilità oggettiva di adempiere solo se dovuta a causa di forza maggiore, circostanza che deve essere esclusa, in presenza di un possibile margine dì scelta, ed invece può essere affermata, quando deriva da fatti non ascrivibili al soggetto responsabile delle scelte aziendali, il quale non abbia potuto porre tempestivamente rimedio alla situazione "per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico".

6. Nel caso in esame, l'ordinanza impugnata ha ritenuto, allo stato delle indagini, non raggiunta la prova di tale impossibilità ad adempiere sulla scorta della sola dimostrazione della riduzione delle commesse, e quindi del fatturato, richiamando, con argomentazione adeguata e perciò condivisibile, la necessità di una più completa ricostruzione della situazione patrimoniale della società. Nell'attuale fase cautelare, gli elementi forniti dall'istante non sono perciò idonei a contrastare le valutazioni espresse dal Tribunale del riesame e quanto alla dedotta mancanza di collegamento tra beni sequestrati e le attività della società M. Automotive, non può che essere confermato quanto esposto nell'ordinanza impugnata circa l'irrilevanza di tale constatazione, attesa la natura di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.

7. Per quanto attiene ai motivi aggiunti, il secondo motivo risulta meramente reiterativo della doglianza in materia di fumus delicti, in riferimento al profilo psicologico, doglianza alla quale è stata data risposta con quanto già esposto in precedenza considerata la sussistenza del fumus del dolo generico, richiesto quale elemento costitutivo della fattispecie, valutata dal Collegio del riesame.

8. Per quanto attiene invece al primo motivo aggiunto, va qui ricordato che la giurisprudenza ha affermato che il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito tributario (Sez. un., n. 18734 del 31/1/2013, Adami, Rv. 255036). Va qui ricordato che il profitto in denaro è sequestrabile direttamente nelle giacenze attive presso i conti della persona fisica o della società (cfr. Cass S.U. 10561/2014, Gubert). Sempre tale supremo consesso ha precisato che è legittimo nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica, ma deve essere considerata rilevante l'impossibilità, seppure transitoria, di procedere a tale vincolo in via diretta, situazione che consente l'aggressione dell'equivalente di tale profitto. Ed è quanto avvenuto nel caso di specie. D'altra parte, la menzionata decisione delle Sezioni Unite ha sottolineato che non è necessario attivare preliminarmente una ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato stesso, tanto che non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa (salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio).

9. Orbene a tale proposito non è fondata la censura di mancata motivazione dell'ordinanza impugnata e neppure quella del provvedimento cautelare emesso dal G.i.p. e della relativa richiesta della Procura della Repubblica, atti che questo Collegio è legittimato ad esaminare essendo stata censurata la assoluta carenza motivazionale. Di contro la problematica in questione è stata attentamente esaminata sin dalla fase della richiesta, avente ad oggetto il vincolo nel limite quantitativo del profitto, riservando alla fase esecutiva l'individuazione del beni da sottoporre a sequestro preventivo nel pieno rispetto del principi di diritto che privilegiano il vincolo diretto del profitto, rispetto a quello dei beni per equivalente. D'altra parte nessuna censura sullo specifico punto fu sollevata innanzi al Tribunale del riesame, per cui nessuna doglianza in ordine ad una omessa pronuncia può essere sollevata in riferimento al corpus motivazionale dell'ordinanza del Collegio cautelare.

10. Quanto al terzo motivo aggiunto, va peraltro subito evidenziato che lo stesso è del pari infondato, in quanto il termine di dieci giorni imposto, a pena di decadenza della misura cautelare reale, dal combinato disposto degli artt. 324, c. 7, e 309, c. 9 e 10 c.p.p. per la decisione da parte del Tribunale del riesame, decorre dal giorno della ricezione degli atti processuali e non sussiste alcuna perdita di efficacia della misura nel caso in cui la decisione sulla richiesta di riesame, completa di motivazione, sia depositata oltre il termine di dieci giorni quando, entro il previsto termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, il tribunale del riesame abbia deliberato in merito alla richiesta ed abbia depositato il dispositivo, poiché la motivazione, in applicazione della norma generale sul procedimento camerale, può essere depositata nel termine ordinatorio di cinque giorni dalla deliberazione (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 38105 del 12/10/2006, Trombin e altro, Rv. 235760),

11. D'altra parte, quanto osservato a proposito del motivo suddetto risulta nel caso di specie qualificabile quale obiter, atteso che, seppure i motivi nuovi in sede cautelare possono essere enunciati sino a che non sia iniziata la discussione, è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che gli stessi possono investire soltanto i capi o i punti della decisione impugnata ai quali si riferisce l’impugnazione originaria (cfr. Sez. 1, n. 46711 del 14/7/2011, dep. 19/12/2011, Colitti, Rv. 251412 e Sez. U, n. 4683 del 25/2/1998, dep. 20/4/1998, Bono, Rv. 210259), ciò perché la "novità" è riferita ai "motivi", ossia "alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame su singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati con il ricorso" (così Sez. 1, n. 40932 del 26/5/2011, dep. /11/2011, Califano e altri, Rv. 251482), non potendo l'elemento della novità essere utilizzato per introdurre nuovi capi o punti di impugnazione, in deroga al termine temporale previsto per la presentazione del ricorso (in tal senso, cfr. Sez. 5, n. 1070 del 14/12/1999, dep. 1/2/2000, Tonduti ed altri, Rv. 215669).

Pertanto il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.