Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 luglio 2015, n. 14481

Rapporto di lavoro - Licenziamento - Inottemperanza al divieto di fumare in area vietata - Stabilimento con lavorazione di materiale infiammabile

 

Svolgimento del processo

 

1. - La sentenza attualmente impugnata - decidendo sull’appello principale proposto da C.C. s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Casale Monferrato n. 43/2011, dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa comminato dalla suddetta società ad A.I., nonché sull'appello incidentale condizionato del lavoratore avverso la medesima sentenza - dispone quanto segue: 1) accoglie l’appello principale e respinge quello incidentale condizionato; 2) conseguentemente, rigetta le domande proposte dal lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio e condanna l’I. a restituire alla datrice di lavoro quanto riscosso in esecuzione della sentenza appellata, con interessi dalla data dei pagamenti; 3) condanna il lavoratore a rimborsare alla C.C. le spese processuali di entrambi i gradi di merito del giudizio.

La Corte d’appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa che:

a) con lettera del 24 settembre 2008 la C.C. s.p.a. ha contestato ad A.l. - dipendente della società dal 9 settembre 1982, con qualifica di operaio e, da ultimo, con inquadramento al V livello e mansioni di caporeparto - che due giorni prima il Vice Responsabile Produzione Reparto Stampaggio aveva visto l’I. fumare una sigaretta all’interno dello stabilimento, in particolare ‘‘in mezzo alla porta dell’uscita di emergenza", dello stabilimento di Occimiano, strada X e che la suddetta mancanza era da considerare di gravità tale da giustificare il licenziamento senza preavviso ex art. 25, parte B. lettera f, del CCNL per gli addetti all’industria metalmeccanica privata, con contestuale sospensione cautelare del dipendente;

b) il giorno successivo, l’interessato rendeva le proprie difese e giustificazioni verbalmente, come espressamente previsto dall’art. 8, comma 5, del titolo VII del CCNL di categoria;

c) quindi, il 26 settembre 2008 l’azienda comunicava al lavoratore il licenziamento per giusta causa, in base al suddetto art. 25, parte B. lettera f, del CCNL, sottolineando la gravità della condotta contestata, ancor più evidenziata dalla duplice circostanza della sua recidiva specifica e della funzione di caporeparto svolta dall’I., elementi che provavano in modo evidente come al lavoratore non poteva non essere noto che il divieto di fumo era vigente in tutta l’azienda data la rilevata pericolosità di incendio ivi esistente, in considerazione della presenza di materiali facilmente infiammabili;

d) del resto, lo stesso I., nella sua qualità di caporeparto, aveva in precedenza segnalato alla direzione di aver trovato un addetto al reparto intento a fumare nello stabilimento e di conseguenza l’azienda aveva proceduto a contestare ed irrogare al fumatore una sanzione disciplinare;

e) a fronte di questa ricostruzione della vicenda, da un lato, deve essere respinta, sulla base di Cass. SU 7 maggio 2003, n. 6900, la censura proposta dall’I. - nell'appello incidentale condizionato - di illegittimità del licenziamento per irregolarità della procedura disciplinare derivante dalla avvenuta contestazione degli addebiti prima del decorso del termine di cinque giorni dalla contestazione scritta di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, senza che la datrice di lavoro abbia provato in giudizio la completezza delle difese e delle giustificazioni spiegate dal lavoratore soltanto in forma orale, in quanto nel giudizio non è emerso che l'interessato abbia manifestato alcuna riserva esplicita di successive integrazioni al riguardo;

f) nel merito, non può essere condivisa la conclusione del primo giudice secondo cui avendo il CTU ritenuto che il comportamento contestato, pur costituendo violazione del divieto di fumo, non aveva, in concreto, dato luogo ad alcun pericolo per la sicurezza degli impianti o per l'incolumità delle persone - non sarebbe applicabile, nella specie, la richiamata clausola contrattuale e, comunque, non potrebbe applicarsi la sanzione espulsiva, in quanto,per la recidiva, si richiede la presenza di due precedenti sanzioni disciplinari per la medesima violazione, mentre, nei confronti dell’I., il precedente è uno solo;

g) infatti, i dati risultanti dalla medesima CTU esperita in primo grado evidenziano l’alta potenzialità di rischio di incendio nell’ambiente di lavoro e quindi la necessita di un incondizionato e assoluto rispetto del divieto di fumo - supportato da rigorosa disciplina sanzionatoria nell'ambito del CCNL - sulla base di una valutazione ex ante e non ex post, come affermato dal primo giudice - cioè in via preventiva onde evitare e scoraggiare qualsiasi comportamento imprudente dei lavoratori, potenzialmente idoneo ad innescare un incendio;

g) ne consegue che, escluso il carattere discriminatorio del licenziamento, lo stesso appare come una sanzione adeguata al grave comportamento commesso dall’I. sia per il luogo in cui la condotta contestata è stata posta in essere, sia perché l’I. rivestendo il ruolo di responsabile di reparto già aveva subito una sanzione conservativa per la trasgressione del divieto di fumo e, nel l’occasione, la datrice di lavoro non aveva irrogato il licenziamento in quanto il lavoratore si era impegnato a un reiterare la condotta sia perché in tale ruolo l’I. aveva il compito di controllare che i lavoratori del reparto rispettassero le nonne contrattuali, compreso il divieto di fumo (compito nel cui esercizio egli aveva segnalato alla direzione un collega trasgressore, poi sanzionato).

2. - Il ricorso di A.l. domanda la cassazione  della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, C.C. s.p.a.

 

Motivi della decisione

 

I - Sintesi dei motivi di ricorso

1. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

1,1. - Con il primo motivo si denuncia errata applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, dell’art. 2697 cod. civ. e dell'art. 5 della legge n. 604 del 1966, con riguardo sia alla mancata dichiarazione di illegittimità del procedimento disciplinare sia al riparto dell'onere della prova.

Si ribadisce - rispetto a quanto già dedotto in appello - che poiché, nella specie, il licenziamento è stato irrogato prima del decorso del termine minimo di cinque giorni previsto, come regola generale, dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970 in applicazione dell’orientamento espresso da Cass. SU 7 maggio 2003, n. 6900, richiamato dalla Corte torinese, ma, nei fatti, disatteso, la datrice di lavoro avrebbe dovuto allegare e provare la sussistenza della circostanza eccezionale, rispetto alla suddetta regola, rappresentata dalla compiutezza ed esaustività delle difese orali spiegate dal lavoratore nel giorno successivo alla ricezione della lettera di contestazione degli addebiti.

Non doveva, quindi, essere il lavoratore a dimostrare che le suddette difese erano state spiegate in via definitiva e senza alcuna riserva.

1,2. - Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione sulla pericolosità della condotta contestata al lavoratore.

Si sostiene che la statuizione relativa alla pericolosità della condotta dell’I. sarebbe supportata da motivazioni prive di adeguato riscontro probatorio e senza menzione dei numerosi elementi di prova raccolti in corso di causa, in senso contrario a quanto affermato, sul punto, nella sentenza impugnata.

In particolare, si rileva che la sussistenza di un elevato grado di rischio desunta dalla classificazione antincendio sarebbe errata mentre sarebbe contraddittoria e insufficiente la motivazione sia ove viene richiamata una precedente sanzione subita dal lavoratore per trasgressione del divieto di fumo sia ove si menziona la segnalazione in precedenza effettuata dall’I. di un altro lavoratore che aveva trasgredito il suddetto divieto. Infatti, queste ultime sarebbero circostanze irrilevanti, perché richiamate in modo generico.

1.3 - Con il terzo motivo si denuncia violazione del d.m. 10 marzo 1998 (in combinazione con l’art. 2729 cod. civ.), in ordine alla classificazione del livello di rischio incendio.

Si sottolinea che in base alla normativa antincendio, per le attività industriali e produttive sono previste tre categorie di rischio antincendio: basso, medio, elevato.

La C.C. s.p.a. era compresa tra le aziende con rischio medio, di conseguenza la Corte territoriale, facendo corretta applicazione del combinato disposto dell’art. 2729 cod. civ. e del d.m.10 marzo 1998, avrebbe dovuto, nella specie, escludere una grave, precisa e concordante presunzione di pericolosità derivante dalla violazione del divieto di filmo e valutando, in concreto, la condotta del lavoratore ne avrebbe dovuto escludere la pericolosità, sulla base della CTU di primo grado.

1.4. - Con il quarto motivo si denuncia, per il duplice profilo di violazione di legge e vizio di motivazione, errata applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell’art. 2119 cod. civ., con riguardo al principio di proporzionalità e congruità della sanzione disciplinare nonché alla sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Si contesta la statuizione della Corte d’appello sulla sussistenza della giusta causa di licenziamento e si fa rilevare - anche come discriminazione - che nei confronti di altri lavoratori la trasgressione del divieto di fumo era stata tollerata dall'azienda, senza irrogare alcuna sanzione.

Si aggiunge che, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, non sarebbe configurabile alcuna intenzionalità della condotta, essendo stato il lavoratore spinto piuttosto da una "dipendenza dal fumo", mentre la sussistenza dell’elemento soggettivo sarebbe stata affermata soltanto in via presuntiva senza considerare le difficoltà di contrastare l’anzidetta dipendenza e, quindi, in assenza di un accertamento in concreto di tutti gli elementi richiesti dalla disciplina contrattuale per il licenziamento per giusta causa.

II - Esame delle censure

2. - Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

3."Il primo motivo non è fondato.

3..1. In base alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 5, "in ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa".

Dal dato letterale della suddetta norma si desume che - come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità - in tema di sanzioni disciplinari riferibili al rapporto di lavoro privato contestazione dell'addebito ha lo scopo di fornire al lavoratore la possibilità di difendersi, la specificità della contestazione sussiste quando sono fornite le indicazioni necessarie ad individuare nella sua materialità il fatto nel quale il datore di lavoro abbia ravvisato la sussistenza di infrazioni disciplinari (Cass. 23 agosto 2006, n. 18377).

Una volta che il ‘'fatto" contestato  sia chiaro il lavoratore ha la facoltà di esercitare il proprio diritto di difesa nella più completa libertà di forme e, dunque, può decidere di adottare come linea difensiva il silenzio, può invece chiedere di essere sentito oralmente dal datore di lavoro, può difendersi per iscritto oppure farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisca o conferisca mandato (Cass. 25 gennaio 2008, n. 1661; Cass. 28 agosto 2000, n. 11279; Cass. 31 marzo 2011, n. 7493; Cass. 19 ottobre 2011, n. 21622).

Come chiarito da un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, la suddetta norma si preoccupa principalmente di garantire il diritto di difesa dell’incolpato e, in questa ottica, prevede che debba intercorrere un termine minimo di cinque giorni tra la contestazione dell’addebito e l’irrogazione della sanzione disciplinare.

Ove, però, risulti che il lavoratore abbia pienamente esercitato il proprio diritto di difesa prima della scadenza del suddetto termine, facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive, il datore di lavoro può legittimamente irrogare la sanzione senza necessità di attendere il decorso della residua parte del termine  suindicato (vedi, fra le tante: Cass. SU 26 aprile 1994, n. 3965; Cass. SU 7 maggio 2003, n. 6900; Cass. 9 febbraio 2012, n. 1884; Cass. 26 ottobre 1982, n. 5618).

3.2. - La Corte d'appello di Torino si è uniformata ai suindicati principi ed ha fornito un'adeguata e logica motivazione al riguardo. Dallo svolgimento della complessiva vicenda risulta, infatti, che il lavoratore, con la lettera di contestazione del 24 settembre 2008, è stato posto in condizione di conoscere compiutamente gli addebiti, tanto che il giorno successivo ha scelto, come era sua facoltà, di rendere le proprie difese e giustificazioni verbalmente, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 8, comma 5, del titolo VII del CCNL di categoria.

Tanto basta per escludere che la datrice di lavoro dovesse attendere lo spirare del termine dì cinque giorni per l'irrogazione del licenziamento, visto che la finalità perseguita dall’art. 7, comma 5, cit. - di assicurare all’incolpato l’esercizio del proprio diritto di difesa - risultava essersi realizzata, come correttamente affermato dalla Corte d’appello.

4. - Il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso - da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione - non sono da accogliere.

4.1. - In linea generale va osservato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell’intestazione del terzo e del quarto motivo, tutte le censure, sostanzialmente, si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi finiscono con l’esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello.

Deve essere ricordato, al riguardo, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione anche nel testo dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ. applicabile nella specie non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento.

Con la conseguenza che - secondo il consolidato e condiviso orientamento della giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. S.U. 27 dicembre 1997, n. 13045 e di recente, fra le tante: Cass. 18 marzo 2013, n. 6710; Cass. 10 gennaio 2014, n. 377)- il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione.

Non rileva, invece, la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: infatti una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.

4.2. - Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congniamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di violazioni di legge o di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

Pertanto le censure sono prive di fondamento, tanto più che la conclusione cui è pervenuta la Corte d’appello - attraverso un'attenta valutazione da un iato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi c all'intensità dell'elemento intenzionale, dall’altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta - di considerare la sanzione espulsiva adeguata rispetto alla condotta addebitata all’I. e tale da determinare la lesione irreparabile dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro con il datore di lavoro è del tutto conforme al costante orientamento di questa Corte in materia.

4.3. - Al riguardo va ricordato che in base alla costante giurisprudenza di questa Corte relativa ai criteri di valutazione della condotta addebitata al lavoratore ai fini disciplinari da parte del giudice di merito:

a) il principio di proporzione tra la gravità dell’illecito disciplinare e la relativa sanzione comporta che il giudice debba valutare non solo il comportamento previsto dalla norma, di contratto o di altra fonte, come punibile con il licenziamento, ma anche l’inserimento eventuale di esso nella vicenda caratterizzata da altri e sia pur meno gravi illeciti disciplinari (Cass. 18 dicembre 2008, n. 29668; Cass. 5 gennaio 2015, n. 13);

b) in tenia di licenziamento, la valutazione della condotta del lavoratore in contrasto con obblighi che gli incombono, deve tenere conto anche del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, essa può assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi (Cass. 6 giugno 2014, n. 12806; Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208).

4.4. - La Corte torinese, in primo luogo, ha correttamente sottolineato che i dati risultanti dalla CTU esperita in primo grado hanno evidenziato l'alta potenzialità di rischio di incendio nell'ambiente di lavoro e quindi la necessità di un incondizionato e assoluto rispetto del divieto di fumo - peraltro, supportato da rigorosa disciplina sanzionatoria nell'ambito del CCNL - sulla base dì una valutazione ex ante, cioè in via preventiva onde evitare e scoraggiare qualsiasi comportamento imprudente dei lavoratori, potenzialmente idoneo ad innescare un incendio.

Il che trova conferma anche d.m. 10 marzo 1998 - richiamato dal ricorrente - che e stato emanato in attuazione al disposto dell’articolo 13, comma 1, (Prevenzione incendi) del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, onde stabilire "i criteri per la valutazione dei rischi di incendio nei luoghi di lavoro ed indica le misure di prevenzione e di protezione antincendio da adottare, al fine di ridurre l'insorgenza di un incendio e di limitarne le conseguenze qualora esso si verifichi" (vedi art. 1, comma 1, del d.m. cit.).

Infatti, nella parte generale di tale decreto (art. 3) si stabilisce, fra l’altro, che tutti i datori di lavoro devono adottare le misure finalizzate a: 1) ridurre la probabilità di insorgenza di un incendio secondo i criteri di cui all’allegato II; 2) realizzare le vie e le uscite di emergenza previste dall’articolo 13 del DPR n. 547/1955, così come modificato dall’articolo 33 del d.lgs. n. 626/1994, per garantire l’esodo delle persone in sicurezza in caso di incendio.

E poi, nell’allegato II, punto 2.2, nell’elenco stilato a titolo esemplificativo delle cause e dei pericoli di incendio più comuni si inserisce anche "j) presenza di fiamme libere in aree ove sono proibite, compreso il divieto di fumo o il mancato utilizzo di portacenere". E dopo si include la "- presenza di fumatori" tra gli elementi cui va data particolare attenzione per prevenire gli incendi.

Mentre si dedica il successivo punto 2.7 proprio alla "Presenza di fumatori", stabilendosi, fra l'altro, che: 1) "Occorre identificare le aree dove il fumare può costituire pericolo di incendio e disporne il divieto, in quanto la mancanza di disposizioni a riguardo è una delle principali cause di incendi"; 2) "Non deve essere permesso di fumare nei depositi e nelle aree contenenti materiali facilmente combustibili od infiammabili".

Infine, nell’Allegato III, si precisa che le vie di uscita (da utilizzare in caso di emergenza) sono dei percorsi senza ostacoli per il deflusso che consentono agli occupanti un edificio o un locale di raggiungere un luogo sicuro e che, quindi, al pari delle uscite di piano, devono essere sempre disponibili per l’uso e tenute libere da ostruzioni in ogni momento.

A fronte di tale disciplina appare del tutto irrilevante per la ricostruzione della presente vicenda la classificazione del livello di rischio incendio proprio della C.C. ove si consideri che comunque all’I. è stato contestato di aver fumato una sigaretta non solo all’interno dello stabilimento, ma in particolare "in mezzo alla porta dell’uscita di emergenza" e, quindi, che egli non solo ha posto in essere un comportamento vietato in linea generale ma lo ha anche fatto in modo tale da rappresentare un ostacolo per un eventuale deflusso, secondo la logica propria della disciplina della prevenzione antincendi.

4.5. - Su questa corretta base la Corte territoriale, in conformità con i su riportati indirizzi della giurisprudenza di questa Corte ha posto l’accento sulle due principali circostanze dalle quali la datrice di lavoro ha desunti) la gravità della condotta contestata: a) la recidiva specifica; b) la funzione di caporeparto svolta dall’I. cui non si fa riferimento specifico nel presente ricorso.

Da tali circostanze, infatti, non solo, si desume, in modo evidente, la piena consapevolezza del lavoratore circa la vigenza del divieto di fumo in tutta l’azienda (data la rilevata pericolosità di incendio ivi esistente, in considerazione della presenza di materiali facilmente infiammabili), ma soprattutto si evince il particolare "disvalore ambientale" della condotta contestata, derivante dal fatto che l’I. rivestiva il ruolo di responsabile di reparto, sicché il suo comportamento poteva assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo, tanto più che nel suddetto ruolo l’I. aveva anche il compito di controllare che i lavoratori del reparto rispettassero le norme contrattuali, compreso il divieto di fumo (compito nel cui esercizio egli in precedenza aveva segnalato alla direzione un collega trasgressore, che poi era stato sanzionato dalla datrice di lavoro).

Infine, la Corte territoriale ha sottolineato che in occasione della prima trasgressione del divieto di fumo all’ I era stata irrogata soltanto una sanzione conservativa e non il licenziamento in quanto il lavoratore si era impegnato a non reiterare la condotta ed è evidente che, anche il mancato mantenimento di questo impegno, rappresenta un elemento ulteriore della lesione dell’elemento fiduciario.

IlI - Conclusioni

5. - In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione - liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza,

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 (cento/00) per esborsi, euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.