Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 giugno 2015, n. 12127

Contratto di Agenzia - Scioglimento - Indennità ex art. 1751-bis, secondo comma, cod. civ. - Contratto cessato dopo l'entrata in vigore della norma - Patto di non concorrenza stipulato anteriormente

 

Svolgimento del processo

 

1. - Con sentenza del 7 gennaio 2008 la Corte di Appello di Torino ha confermato la decisione del primo giudice con la quale la M.P. Srl era stata condannata al pagamento in favore di S. L. - con cui aveva intrattenuto un rapporto di agenzia dal 1° aprile 1983 al 24 gennaio 2003 - di euro 8.283,00, a titolo di indennità di risoluzione del rapporto, e di euro 32.987,11; quale corrispettivo del patto di non concorrenza contenuto nel contratto di agenzia stipulato nel 1983.

2. - Con un primo ricorso per cassazione, notificato in data 26 novembre 2008 ed iscritto al R.G.N. 28401/2008, la M.P. Srl ha impugnato detta sentenza per cinque motivi. Ha resistito con controricorso l'intimato, eccependo, tra l'altro, l'inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366, co. 1, n. 3, c.p.c., per essere stata omessa l'esposizione sommaria dei fatti di causa.

Con un secondo ricorso, notificato in data 19 dicembre 2008 ed iscritto al R.G.N. 369/2009, la M.P. Srl ha impugnato la medesima sentenza con i medesimi cinque motivi, anteponendo agli stessi l'esposizione dei fatti della causa. Anche in questo caso ha resistito l'intimato, eccependo, tra l'altro, l'inammissibilità del secondo ricorso per violazione del "c.d. principio di consumazione dell'impugnazione" di cui all'art. 387 c.p.c.

La società ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

3. - Pregiudizialmente occorre delibare le eccezioni di inammissibilità dei ricorsi formulate dal controricorrente.

3.1. - Il ricorso iscritto al n. 28401 del 2008 del Registro Generale è inammissibile per violazione dell'art. 366, co. 1, n. 3, c.p.c., per mancanza di una completa esposizione dei fatti di causa, tale da aver indotto la parte a depositare un secondo ricorso; la mancanza non può essere superata attraverso l’esame delle censure in cui si articola l'impugnazione né attraverso l'esame di altri atti processuali, ostandovi il principio di autonomia del ricorso per cassazione (da ultimo: Cass. SS.UU. n. 11308 del 2014).

3.2.- Il secondo ricorso, iscritto al N.R.G. 369/2009, è invece ammissibile perché il diritto di impugnazione in Cassazione non si consuma, a mente dell'art. 387 c.p.c., finché non interviene una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità del ricorso e può essere, in conseguenza, proposto nuovo ricorso, sempre che siano osservati i requisiti di legge e non siano decorsi i termini per impugnare (per tutte v. Cass. n. 21702 del 2008).

Nella specie tale secondo atto risulta notificato il 19 dicembre 2008, quindi entro un anno dalla pubblicazione della sentenza impugnatile contiene l'esposizione sommaria dei fatti di causa.

4. - Posta l'ammissibilità del ricorso iscritto al R.G.N. 369 del 2009 occorre esaminare partitamente le cinque censure in cui esso si articola.

5. - Con il primo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 416 e 437, co. 2, c.p.c., ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., interrogando la Corte sul se la questione relativa al pagamento dell'indennità di risoluzione del rapporto, formante oggetto di una eccezione in senso lato, debba essere esaminata nel giudizio di appello qualora la parte interessata, rimasta contumace nel giudizio di primo grado, abbia dedotto con l'impugnazione l'avvenuta effettuazione del pagamento di quanto preteso per il ridetto titolo, facendo leva sulla documentazione all'uopo prodotta con l'impugnazione stessa.

Con il secondo motivo si lamenta carenza di motivazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per avere la Corte torinese ritenuto le produzioni documentali attestanti l'adempimento "obbiettivamente incomprensibili".

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto riguardano, con reciproche connessioni, il medesimo capo di condanna della società al pagamento dell'indennità di risoluzione del rapporto di agenzia, sono infondati.

E' certamente vero che l'eccezione di pagamento costituisce eccezione in senso lato e, come tale, è ammissibile anche in appello (da ultimo, Cass. SS.UU. ord. n. 10531 del 2013), ma è altrettanto vero che il fondamento fattuale di una tale eccezione deve essere provato. Già questa Corte a Sezioni unite con la sentenza n. 1099 del 1998 affermava che la rilevabilità d'ufficio dell'eccezione in senso lato fosse comunque soggetta alla prova del fatto estintivo, modificativo, impeditivo a cura della parte interessata. Successivamente, nella medesima composizione (n. 15661 del 2005), avuto riguardo all'eccezione in senso lato di interruzione della prescrizione, la Corte ha ritenuto che essa "può essere rilevata d'ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti". Ciò ha consentito di continuare a sostenere che l'eccezione in senso lato (con riguardo sempre a quella di interruzione della prescrizione, cfr. Cass. n. 2035 del 2006) deve essere sorretta da allegazioni e prove, "incluse quelle documentali, ritualmente acquisite al processo, nonché di fatti anch'essi ritualmente acquisiti al contraddittorio".

Da ultimo le Sezioni unite, con la pronuncia n. 10531 del 2013 innanzi citata, "dando continuità all'orientamento già insito nelle citate sentenze del 2001 e 2005, ritengono corretta la tesi che ammette la possibilità di rilevare di ufficio le eccezioni in senso lato, anche in appello, che risultino documentate ex actis, indipendentemente da specifica allegazione di parte". In tale occasione si è altresì avuto cura di precisare che, così circoscritta la materia del caso di specie, non occorreva pronunciarsi "anche sulla possibilità di articolare nuovi mezzi di prova e produrre documenti allorquando la parte faccia valere oltre il limite delle preclusioni istruttorie, o in appello, eccezioni rilevabili di ufficio o il giudice rilevi tardivamente tali questioni".

Tanto premesso la Corte territoriale ha ritenuto le produzioni documentali effettuate dalla società solo con l'appello e che avrebbero dovuto documentare l'eccepito adempimento, "oltre che obiettivamente incomprensibili, senz'altro tardive, essendo di formazione sicuramente precedente al ricorso di primo grado e non essendovi motivi di sorta per ammettere in termini la parte, che appunto è rimasta in quella fase contumace".

Ciò è conforme all'insegnamento espresso a Sezioni unite da questa Corte nella sentenza n. 8202 del 2005 (e non rimesso in discussione dalla pronuncia n. 10531 del 2013 prima citata), secondo cui l’omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello, per cui la sentenza impugnata per questo aspetto di rilievo assorbente è esente da censure.

6. - Con il terzo motivo, dedotto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., si chiede alla Corte "se considerata la disciplina, concernente la gestione e la liquidazione dell'indennità di risoluzione del rapporto, risultante dall’art. 2, co. 2, della I. n. 12 del 1973, dall'art. 10, sub I, dell'AEC 20.3.2002 e dall'art. 12, sub I, dell'AEC 26.2.2002 ... ed in carenza di dimostrazione, da parte dell'agente cessato, di fatti o circostanze impedienti l'applicazione di detta disciplina, sia conforme a legge e a detta disciplina porre a carico del preponente la liquidazione dell'indennità di risoluzione del rapporto a favore dell'agente medesimo".

Nella sostanza si sostiene che, in forza della disciplina normativa e contrattuale richiamata nonché delle produzioni documentali comprovanti l'avvenuto periodico accantonamento, doveva ritenersi che il L. avesse già percepito l'indennità in parola dall'ENASARCO.

Evidentemente anche tale motivo è infondato perché, una volta non acquisita la prova del preteso adempimento, esso si basa sull'erroneo assunto che il fatto dell'avvenuto versamento fosse stato processualmente accertato.

7. - Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1751 bis c.c., e dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale nella parte In cui la sentenza impugnata ha condannato la società al pagamento di euro 32.987,11, quale corrispettivo del patto di non concorrenza contenuto nel contratto di agenzia stipulato nel 1983.

Si chiede alla Corte se possa il giudice attribuire l'indennità prevista dal secondo comma dell'art. 1751 bis c.c. "ad un agente cessato che era legato al preponente in forza di un contratto di agenzia già in corso al momento di entrata in vigore di detta norma e che conteneva un patto di non concorrenza privo dei requisiti concernenti la zona, la clientela, il genere di beni o servizi quali delineati nell'art. 1751 bis, co. 1, c.c.".

7.1. - Opportuna una preliminare ricognizione delle disposizioni rilevanti nella fattispecie.

Con il d. lgs. n. 303 del 1991, art. 5 (di attuazione della direttiva n. 86/653/CEE), è stato inserito nel codice civile l’art. 1751-bis, sul patto di non concorrenza, con il seguente testo: "il patto che limita la concorrenza da parte dell'agente dopo lo svolgimento del contratto deve farsi per iscritto. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all'estinzione del contratto".

La suddetta disposizione, in base all'art. 6 del decreto legislativo medesimo, si applica anche ai contratti in corso di esecuzione al 1° gennaio 1990, come quello in controversia, stipulato nel 1983, per il quale non può farsi applicazione dell'art. 2596 c.c., cui la giurisprudenza faceva riferimento in precedenza per la disciplina dei limiti dello svolgimento dell'attività dell’agente per il tempo successivo alla cessazione del contratto di agenzia (da ultimo Cass. n. 4461 del 2015; conformi: Cass. n.8295 del 2012, Cass. n. 14454 del 2000; Cass. n. 11003 del 1997).

Con la successiva I. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 23 (entrata in vigore il 4 febbraio 2001) è stato stabilito di aggiungere un secondo comma all'art. 1751-bis c.c. del seguente tenore: "L'accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all'agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale. L’indennità va commisurata alla durata, non superiore a due anni dopo l'estinzione del contratto, alla natura del contratto di agenzia e all'indennità di fine rapporto. La determinazione della indennità in base ai parametri di cui al precedente periodo è affidata alla contrattazione tra le parti tenuto conto degli accordi economici nazionali di categoria. In difetto di accordo l'indennità è determinata dal giudice in via equitativa anche con riferimento: 1) alla media dei corrispettivi riscossi dall'agente in pendenza di contratto ed alla loro incidenza sul volume d'affari complessivo nello stesso periodo; 2) alle cause di cessazione del contratto di agenzia; 3) all'ampiezza della zona assegnata all’agente; 4) all’esistenza o meno del vincolo di esclusiva per un solo preponente".

Lo stesso art. 23 ha stabilito che le suindicate disposizioni - efficaci a partire dal 1° giugno 2001 - si applicano esclusivamente agli agenti che esercitano in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con un solo socio, nonché, ove previsto da accordi economici nazionali di categoria, a società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente da agenti commerciali.

7.2. - Per un primo aspetto la società lamenta "la genericità assoluta" del patto di non concorrenza contenuto nel punto n. 10 del contratto individuale di agenzia, difettando esso del requisiti di cui al comma 1 dell'art. 1751 bis c.c.in punto di indicazione di "zona, clientela e genere di beni e servizi"; dalla non conformità di tale patto al modello delineato dalla disposizione codicistica citata al primo comma deriverebbe l'inapplicabilità del secondo comma che prevede l'erogazione di un corrispettivo.

Tale doglianza non può trovare accoglimento.

Si pone questione delle conseguenze derivanti dalla stipulazione di un patto di non concorrenza, collegato ad un contratto di agenzia, in pretesa violazione della disposizione dettata dall'art. 1751 bis, co. 1, c.c., pacificamente applicabile alla fattispecie ai sensi dell'art. 6 del d. Igs. n. 303/91 cit., trattandosi di rapporto in corso di esecuzione al 1° gennaio 1990.

Testualmente detta norma, dopo aver prescritto che il patto che limita la concorrenza da parte dell'agente dopo lo svolgimento del contratto deve farsi per iscritto, sancisce che "esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all'estinzione del contratto".

Dal tenore testuale della disposizione non si evince che esso prescriva contenuti essenziali del patto a pena di nullità, bensì che esso non può eccedere i limiti posti dalla norma medesima a tutela della libertà negoziale dell'agente per il periodo successivo all'estinzione del contratto; la ratio è quella di evitare una eccessiva compressione della libertà individuale nello svolgimento di un'attività finalizzata al soddisfacimento di esigenze primarie di vita.

Ciò si traduce nel divieto di limitare la concorrenza a zone, tipologie di clienti, genere di beni e servizi, che non costituissero già oggetto del contratto di agenzia cessato, ovvero di prolungare la restrizione oltre un certo lasso temporale.

Ben diversa la formulazione letterale dell'art. 2125 c.c., secondo cui "il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo" (su cui v. Cass. n. 5691 del 2002 e giurisprudenza ivi citata, oltre che Cass. n. 10062 del 1994), così come il dato testuale del più generale art. 2596 c.c., per il quale il patto che limita la concorrenza, salva la prescrizione formale ad probationem, "è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni" (su cui v. da ultimo Cass. n. 7141 del 2013).

Secondo l'art 20 della Direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18 dicembre 1986, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, "Un patto di non concorrenza è valido solo nella misura in cui: a) sia stipulato per iscritto; b) riguardi il settore geografico o il gruppo di persone e il settore geografico affidati all'agente commerciale, nonché le merci di cui l'agente commerciale aveva la rappresentanza ai sensi del contratto", ed è "valido solo per un periodo massimo di due anni dopo l'estinzione del contratto".

Anche per la disciplina dell'Unione europea, dunque, il patto di non concorrenza è valido e produce i suoi effetti sino al punto in cui non eccede la misura definita dall'art. 20 citato; ove oltrepassi tale misura il patto è invalido e non produce i suoi effetti per la parte eccedente.

Pertanto la mancata specificazione nell'accordo tra agente e preponente della zona, della clientela o della tipologia di prodotti e servizi, di per sé, non può determinare - come pretenderebbe parte ricorrente - l'invalidità dell'intero negozio, fuori del caso in cui, non oggetto del presente contenzioso, dopo aver proceduto all'interpretazione del contratto, si giunga al risultato esegetico che lo stesso manchi nell'oggetto dei requisiti di determinatezza o determinabilità (art. 1421 c.c. in combinato disposto con l'art. 1346 c.c.).

Resta fermo che, ove il patto ecceda i limiti imposti dal comma in esame, per stabilire se, a norma dell'art. 1419, co. 1, c.c., la nullità di una parte del contratto comporti la nullità del tutto ovvero se debba operare il principio utile non inutile non vitiatur, la scindibilità del contratto deve essere valutata attraverso la potenziale volontà delle parti (per come operare tale giudizio al fine di stabilire l'ambito di incidenza dell'impedimento opposto dalla nullità e l'eventualità della sua propagazione a tutto il negozio v., analiticamente, Cass. n. 11749 del 2012).

Occorre quindi, per tale aspetto, dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte che ha già ha avallato interpretazioni dei giudici di merito secondo cui il patto di non concorrenza inserito in un contratto di agenzia può, ai sensi dell'art. 1751 bis c.c., co. 1, c.c., operare soltanto per la medesima zona e clientela per le quali era stato concluso il contratto ed è nullo solo per la parte eventualmente eccedente (Cass. n. 27839 del 2009; conforme: Cass. n. 19586 del 2010; Cass. n. 8295 del 2012).

7.3. - In secondo luogo la società comunque censura la sentenza impugnata per essere stata condannata al pagamento di un corrispettivo in ragione di un patto di non concorrenza stipulato prima dell'entrata in vigore del secondo comma dell'art. 1751 bis c.p.c. (ndr art. 1751 bis c.c.), operandosi così una indebita applicazione retroattiva della disciplina.

Il Collegio giudica tale rilievo fondato.

Il patto di non concorrenza è stato siglato dalle parti in causa nel 1983, in un'epoca in cui la legislazione allora vigente non prevedeva un compenso per l'obbligo di astensione post contrattuale assunto dall'agente, a differenza di quanto prescritto dall'art. 2125 c.c. per il contratto di lavoro subordinato che già allora comminava una espressa sanzione di nullità "se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro". Sicché la previsione di un compenso per l'impegno assunto dall'agente, così come, all'opposto, la gratuità di esso nell'ambito del più generale assetto di reciproca cooperazione dettato dal contratto di agenzia, erano lasciati all'ordinaria dinamica contrattuale.

Non vi può essere dubbio, dunque, che nel momento in cui la M.P. Srl ed il L. sottoscrissero il patto di non concorrenza senza previsione di un corrispettivo, il negozio fosse geneticamente conforme all'ordinamento, restando escluso che la validità di tale patto potesse essere pregiudicata dalla mancata previsione di un siffatto obbligo (Cass. n. 9802 del 1998).

Solo con l'art. 23 della I. n. 422 del 2000, il legislatore italiano, senza che ciò fosse necessitato dalla disciplina comunitaria in materia, ha introdotto il secondo comma dell'art. 1751 bis c.c.

Ha espressamente stabilito che "l'accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all'agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale"; ha indicato i parametri cui l'indennità va commisurata; ha affidato la determinazione di essa alla "contrattazione tra le parti tenuto conto degli accordi economici nazionali di categoria"; "in difetto di accordo" ha previsto che l'indennità venga determinata in via equitativa dal giudice.

Pertanto, a decorrere dal 1° giugno 2001, come stabilito dall'art. 23 della I. n. 422/2000 cit., il patto di non concorrenza per l'ordinamento italiano è tipicamente oneroso, tanto che, nel caso in cui il compenso non sia stato stabilito dalle parti, soccorre l'intervento integrativo del giudice. Si delinea un rapporto di scambio a prestazioni corrispettive, in cui viene garantito un equilibrio economico minimo, grazie anche all'eventuale intervento del giudice in funzione di equità integrativa.

Tuttavia, in assenza di una specifica disciplina transitoria predisposta dal legislatore, il Collegio ritiene che tale disposizione non possa trovare applicazione ai patti stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore, sebbene rispetto ad un rapporto di agenzia cessato successivamente e ad un patto di non concorrenza che non ha ancora avuto esecuzione.

Tanto in ragione dell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, premesse al codice civile, secondo cui; "La legge non dispone che per l'avvenire; essa non ha effetto retroattivo".

Sebbene la regola dell'irretroattività della legge assuma rango costituzionale in riferimento alle norme penali incriminatici, in ambito civile solo al legislatore compete di derogarvi, peraltro non senza limiti, per cui, in mancanza di difforme previsione legislativa, opera il principio generale dell'assoggettamento della disciplina di ciascun fatto alla normativa del tempo in cui esso si verifica.

Coerentemente per questa Corte, in assenza di diverse previsioni, le condizioni di validità di un contratto devono essere vagliate sulla base della normativa in vigore al momento in cui esso è stato concluso, secondo il principio tempus regit actum. Lo ius supenrveniens non può essere applicato, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future dello stesso (Cass. S.U. n. 2926 del 1967, Cass. n. 3231 del 1987, Cass. n. 4462 del 1999, Cass. n. 2433 del 2000; Cass. n. 14073 del 2002; più in generale, sull'operatività del principio tempus regit actum ai contratti, cfr. Cass. n. 9551 del 1994; Cass. n. 17906 del 2004; Cass. n. 24330 del 2009).

Ove non si applicasse la regola descritta della naturale irretroattività della legge al caso che ci occupa, si altererebbe in modo determinante l'originario programma contrattuale che le parti si erano liberamente date, producendo effetti iniqui.

La preponente sarebbe obbligata a pagare - come ritenuto nella specie dalla Corte torinese - un corrispettivo non pattuito neanche nell'ammontare, esponendosi ad un costo imprevisto di cui non ha potuto valutare la convenienza, in palese violazione del legittimo affidamento di chi tale accordo aveva siglato sul presupposto che fosse privo di conseguenze economiche.

L'agente, dal suo canto, che aveva originariamente acconsentito ad obbligarsi senza corrispettivo, evidentemente valutando il sacrificio come adeguatamente compensato nell'ambito del più ampio equilibrio contrattuale derivante dal rapporto di agenzia nel suo insieme, si troverebbe gratificato di un beneficio economico non previsto e ab imo non dovuto.

Nella specie non si tratta neanche di dotare la disciplina precedente di effetti ultrattivi non più meritevoli di protezione (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 204 del 1997), consentendo che si realizzino conseguenze vietate da una normativa imperativa sopravvenuta.

Infatti per il secondo comma dell'art. 1751 bis c.c. la corresponsione di una indennità all'agente commerciale non è prevista a pena di nullità del patto di non concorrenza post contrattuale; anche per la nuova disciplina l'agente, d'intesa con la preponente, può espressamente stabilire che all'obbligo assunto non sia correlato un corrispettivo, atteso che la non specifica valorizzazione economica dell'impegno può giustificarsi come conveniente nel contesto dell'intero rapporto di agenzia.

Dunque, anche nel vigore della nuova disciplina, la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile, in quanto non presidiata da una sanzione di nullità espressa e non diretta alla tutela di un interesse pubblico generale.

Pertanto, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., deve essere enunciato il seguente principio di diritto:

"Il secondo comma dell'art. 1751 bis c.c., introdotto dall'art. 23 della legge 29 dicembre 2000, n. 422, secondo cui l'accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all'agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale, non si applica ai patti stipulati prima della sua entrata in vigore, ancorché i contratti di agenzia cui si riferiscano siano cessati successivamente".

La sentenza impugnata deve dunque, per il motivo accolto, essere cassata, con rinvio al giudice designato in dispositivo, che si uniformerà al principio di diritto affermato.

8. - Con l'accoglimento del quarto motivo resta assorbito il quinto, con cui si denuncia violazione e falsa applicazione di legge interrogando la Corte sul se all'agente possa essere riconosciuta "l'indennità di cui all'art. 1751 bis, co. 2, c.c., calcolata con i criteri di cui all'art. 7 dell'AEC 26.2.2002 per la disciplina del rapporto di Agenzia e rappresentanza commerciale nel settore commerciale, ove siano state poste a base del calcolo provvigioni in ordine alle quali nel giudizio l'agente stesso non abbia provato trattarsi di <provvigioni spettategli effettivamente>". Considerato che si lamenta che le provvigioni sulla base delle quali è stata calcolata l'indennità di non concorrenza fossero effettivamente spettanti al L., il riesame della questione in ordine alla debenza di tale indennità assorbe il motivo in discussione.

9. - Conclusivamente è inammissibile il ricorso iscritto al R.G.N. 28401/2008; in relazione al secondo ricorso, rigettati i primi tre motivi, deve essere accolto, per quanto di ragione, il quarto motivo e, in relazione ad esso, va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Torino in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese; resta assorbito il quinto motivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso iscritto al R.G.N. 28401/2008; in relazione al secondo ricorso iscritto al R.G.N. 369/2009 rigetta i primi tre motivi, accoglie il quarto e, in relazione ad esso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Torino in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese; dichiara assorbito il quinto motivo.