Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 giugno 2015, n. 11597

Avvocato - Patto tra avvocato e cliente in ordine al compenso professionale - Prova testimoniale - Divieti ex artt. 2722 e 2723 cod. civ. - Esclusione

 

Svolgimento del processo

 

Con decreto n. 164/1997, su ricorso dell’avvocato A. A. T., il pretore de L’Aquila ingiungeva ad A. P. il pagamento della somma di lire 10.668.592, oltre interessi, spese ed accessori, quale ammontare dei compensi al ricorrente dovuti per l’attività professionale svolta nell’interesse dell’ingiunta in un giudizio dinanzi al t.a.r. degli Abruzzi.

Con atto di citazione notificato in data 17.6.1997 A. P. proponeva opposizione; chiedeva la revoca dell’ingiunzione ed in via riconvenzionale la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni materiali e morali ad ella arrecati; in subordine la liquidazione delle avverse spettanze nella misura dovuta.

Deduceva in particolare che all’atto del conferimento dell'incarico si era pattuito che il compenso fosse pari nel complesso a lire 3.000.000, sicché non era tenuta a pagare somme eccedenti tale importo, che aveva subito pregiudizio in dipendenza della ingiustificata rinuncia del ricorrente al mandato conferitogli, rinuncia per giunta tardivamente comunicatale, che l’avvocato T. aveva tenuto una condotta censurabile sul piano deontologico, che in ogni caso era stato erroneamente applicato lo scaglione relativo alle controversie di valore indeterminabile di straordinaria importanza.

Costituitosi, il ricorrente instava per il rigetto dell’opposizione.

Con sentenza dei 21.6/16.7.2003 il tribunale de L’Aquila - divenuto nelle more competente - accoglieva l’opposizione, revocava il decreto opposto, a tal fine dichiarando e dando atto dell’integrale compensazione del credito del ricorrente e del credito al risarcimento del danno all’uopo riconosciuto a vantaggio della opponente, e condannava l’opposto alla rifusione delle spese.

Interponeva appello l’avvocato A. A. T.

Resisteva A. P.

Con sentenza n. 325/2008 la corte d’appello de L’Aquila, in parziale accoglimento dell’appello, revocava la condanna dell’appellante al pagamento delle spese della fase monitoria, confermava nel resto la gravata sentenza, compensava per 1/3 le spese del grado e condannava l’appellante a rimborsare a controparte i residui 2/3.

Esplicitava la corte distrettuale che "l’oggetto della prova testimoniale aveva riguardo unicamente all’ammontare del compenso per la prestazione professionale, non già alla circostanza dell’esistenza o meno del mandato ad litem" (così sentenza d'appello, pag. 6); che era fuori di luogo il richiamo al disposto degli artt. 2721 e ss. c.c., "atteso che il documento, in aggiunta ovvero contro il cui contenuto sarebbero intervenuti patti verbali fra le parti, non può all’evidenza individuarsi nella Tariffa Professionale, che documento in senso tecnico proprio non è" (cosi sentenza d’appello, pagg. 6-7).

Esplicitava inoltre, in ordine all’inadempienza contrattuale ascritta all’appellante, che la contestata inadempienza piuttosto che nella rinuncia al mandato era da individuare, siccome aveva correttamente opinato il primo giudice, nell’assunzione da parte dell’avvocato T. della difesa dinanzi al medesimo giudice amministrativo di Rosalia Argentiero, "parte controinteressata nel medesimo processo" (così sentenza, pag. 7), sicché, in tal guisa operando, l’appellante aveva posto "in essere una condotta contraria ai propri doveri professionali, che implicò, quale evento, un nocumento agli interessi della patrocinata, inteso oltre che nel senso di pregiudizio patrimoniale (...) anche nel senso di mancato conseguimento di benefici di ordine solo morale" (così sentenza d’appello, pag. 7)\ che l’avvocato T. del resto era "ben consapevole di versare in una situazione di illiceità, sotto il duplice aspetto disciplinare e penale" (così sentenza d’appello, pag. 7); che invero l’appellante non aveva rappresentato alla P. "sia di avere avuto contatti nel proprio studio con Argentiero Rosalia - cui aveva fatto notificare il ricorso in qualità di controinteressata (...) - sia di avere assunto l’incarico di difenderla, posto che, dopo l’evidenziazione del conflitto di interessi (...), operata dal presidente del Collegio giudicante, si affrettò a formalizzare la rinuncia al mandato" (così sentenza d’appello, pagg. 7-8).

Esplicitava ancora che non sembrava la "misura del compenso convenzionalmente fissata (...) inferiore ai minimi tariffari, tenuto conto che la causa, per il suo contenuto, rientrava nello scaglione del valore indeterminabile semplice" (così sentenza d'appello, pag. 8)\ che, d’altronde, identico era il "parametro (...) preso in considerazione dal secondo difensore per determinare il suo compenso, con un imponibile, portato dalle due fatture in atti, per complessive lire 1.455.676" (così sentenza d’appello, pag. 8).

Esplicitava infine, "circa la debenza del ristoro dei danni e della loro entità, (...) che il fatto commesso dall’impugnante in effetti presenta connotazione di ordine penale ex art. 380 (non 381) cod. pen., con conseguente riconoscimento in favore di P. anche del danno morale ex art. 2059 cod. civ., e che del tutto congrua appare la quantificazione che ne è stata operata in sentenza sotto il duplice profilo del pregiudizio morale e di quello più propriamente patrimoniale" (così sentenza d'appello, pagg. 8 - 9).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’avvocato A. A. T.; ne ha chiesto sulla scorta di sei motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

A. P. non ha svolto difese.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo il ricorrente deduce "violazione e falsa applicazione delle norme che limitano l’assunzione di prove testimoniali ex art. 2721 e segg. c.c. con specifico riferimento al contratto di mandato ad litem in relazione all’art. 360, comma 1, sub 3 c.p.c." (così ricorso, pag. 9).

Adduce che, quantunque all’epoca del ricorso non fosse stato ancora introdotto l’attuale 3° co. dell’art. 2233 c.c., "la pattuizione del compenso doveva comunque essere redatta per iscritto, risultando ben troppo facile per il cliente dimostrare (mediante prove testimoniali fasulle) di aver stabilito un compenso inferiore alla tariffa" (così ricorso, pag. 10); che, "d’altra parte, il compenso professionale dell’avvocato è quello riportato nella tariffa (...) onde la detta tariffa va intesa come un vero e proprio documento" (così ricorso, pag. 10); che, "pertanto, la prova testimoniale, ammessa ed espletata nella specie, risulta chiaramente inammissibile, non potendosi provare per testi una circostanza contraria al contratto di mandato e alla sottesa tariffa finalizzata alla determinazione del compenso" (così ricorso, pag. 18).

Il motivo non merita seguito.

Siccome il medesimo ricorrente riconosce non opera ratione temporis nella fattispecie il disposto del 3° co. dell’art. 2233 c.c. ("sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali"), giacché introdotto mercé l’art. 2 del dee. leg. 4.7.2006, n. 223, convertito - con modificazioni - nella legge 4.8.2006, n. 248.

Ne discende che va senz’altro condiviso il rilievo - in precedenza testualmente riprodotto - sulla cui scorta la corte di merito ha reputato fuor di luogo il riferimento agli artt. 2721 e segg. c.c..

Del resto l’espressione "documento" usata negli artt. 2722 e 2723 c.c. va intesa nel senso di atto scritto avente un contenuto convenzionale, con il quale contrasti il patto aggiunto o contrario che si vuole provare con i testimoni (cfr. Cass. 31.3.1988, n. 2716).

Nessuno ostacolo, pertanto, si frapponeva all’ammissione della prova testimoniale.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce "omessa quanto meno solo apparente motivazione e comunque inidoneità della stessa su punto decisivo della controversia ovvero se il presunto compenso pattuito tra avvocato e cliente era inferiore o superiore ai minimi inderogabili di tariffa per i procedimenti dinanzi agli organi di giustizia amministrativa in relazione all’art. 360 sub 5 c.p.c." (così ricorso, pag. 11).

Adduce che la corte distrettuale ha omesso "di indicare gli elementi da cui desumere che il compenso pattuito tra avvocato e cliente fosse superiore ai minimi di tariffa" (così ricorso, pag. 11)\ che segnatamente e tra l’altro non si comprende "cosa debba intendersi per evalore indeterminabile semplice (...); se sia stata o meno considerata tutta l’attività professionale svolta sino all’udienza di discussione (...); se siano state o meno conteggiate (...) tutte le voci dei diritti e degli onorari (...); se la statuizione (...) sia o meno confermativa di quella (...) di primo grado (...)" (così ricorso, pagg. 11 - 12)', che, d’altra parte, non "può in alcun modo rilevare (...) la inconferente considerazione sulla presunta congruità del compenso richiesto dal difensore subentrato all’avv. T., che, per determinare la sua parcella, avrebbe fatto riferimento allo scaglione del valore indeterminabile semplice" (così ricorso, pag. 13)', che quindi l’asserito accordo siglato con la P. sarebbe in ogni caso nullo "perché la somma pattuita per l’intera prestazione, comprensiva financo di spese vive e imposte, risulta di gran lunga inferiore ai minimi inderogabili della tariffa professionale all’epoca vigente per le cause proposte dinanzi alla giurisdizione amministrativa" (così ricorso, pagg. 13 - 14); che, invero, alla stregua della tariffa applicabile ratione temporis, l’onorario minimo per la cause di valore indeterminabile dinanzi agli organi di giustizia amministrativa sarebbe stato pari nel complesso a lire 1.190.000 ed i diritti sarebbero stati pari nel complesso a lire 1,750.000, sicché al lordo delle spese vive, del rimborso forfetario e degli accessori di legge le spettanze minime sarebbero state pari a lire 4.346.416, importo senza dubbio superiore al compenso omnicomprensivo di lire 3.000.000 asseritamente pattuito.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce "omessa quanto meno insufficiente motivazione ex art. 360, comma 1, sub 5 c.p.c. sotto diverso profilo su altro punto decisivo della controversia ovvero se il ricorso al t.a.r. fosse o meno di <routine> e quindi quale fosse il compenso effettivamente spettante sulla base dello scaglione di valore indeterminabile" (così ricorso, pag. 16).

Adduce che, contrariamente a quanto opinato dalla corte di merito, che con motivazione solo apparente ha evidentemente ritenuto che il ricorso al t.a.r. proposto nell’interesse dalla P. fosse di mera routine, l’esperito ricorso era ben lungi dall’esser tale, giacché afferente ad un ambito dell5attività della pubblica amministrazione, quello scolastico, segnato dalla vigenza di "centinaia di leggi, di regolamenti, di circolari e perfino di istruzioni ministeriali che il difensore deve ben conoscere prima di redigere il ricorso" (così ricorso, pag. 17); che in ragione di ciò "la parcella inviata alla cliente, il parere di congruità sulla stesso reso dal competente Ordine professionale e quindi il successivo decreto ingiuntivo, risultano pienamente validi e legittimi" (così ricorso, pag: 17); che pertanto era da confermare l’ingiunzione opposta, "tenuto conto che la somma ingiunta di £ 10.668.592, comprensiva anche di spese vive, tasse e spese del procedimento monitorio, risulta pienamente conforme e congrua alla tariffa professionale" (così ricorso, pag. 18).

Il secondo ed il terzo motivo sono strettamente connessi.

Se ne giustifica, pertanto, la disamina congiunta.

Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.

Si rileva innanzitutto che - e per l’uno e per l’altro - difetta del tutto l’assolvimento dell’onere di cui alla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al caso di specie.

In particolare si rappresenta che il requisito prescritto all’art. 366 bis, seconda parte, c.p.c. per il motivo di cui al n. 5) del 1° co. dell’art. 360 c.p.c. deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente deputata all’osservanza del requisito de quo agitur, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione (cfr. Cass. ord. 18.7.2007 n. 16002; cfr. Cass. sez. un. 1.10.2007, n. 20603).

Al contempo - e contrariamente a quanto pretende il ricorrente con le osservazioni depositate in replica alle conclusioni del pubblico ministero - è da escludere che la prescrizione di cui all’art. 366 bis, seconda parte, c.p.c. possa considerarsi assolta alla stregua della intestazione - della rubrica - del motivo.

Invero l’onere di indicare chiaramente il fatto controverso, ossia le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto formulando, al termine del motivo di ricorso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo stesso, così da consentire al giudice di valutare immediatamente la ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. 8.3.2013, n. 5858).

In ogni caso si rappresenta quanto segue.

In primo luogo che, a rigore, la corte distrettuale - siccome si è testualmente riferito - non ha in parte qua agitur omesso la motivazione, giacché ha dato conto della eccedenza del compenso convenzionalmente pattuito rispetto ai minimi tariffari (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16762, secondo cui il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunciatale in cassazione ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 5), c.p.c., ricorre, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro approfondita disamina logicogiuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito).

In secondo luogo, in relazione all’asserita "inidoneità" della motivazione che in parte qua sorregge il dictum di seconde cure, che al cospetto delle recise contestazioni che A. P. ha evidentemente formulato nei precorsi gradi di merito, il ricorrente avrebbe dovuto, in ossequio al canone di cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’art. 366, 1° co., n. 6), c.p.c., fornire appropriata dimostrazione delle sue pretese, onde consentire "in fatto" - in special modo ai fini del computo dei "diritti" - il relativo riscontro, e non limitarsi, siccome si è limitato alle pagine 14,15 e 16 del ricorso, alla mera enunciazione - elencazione delle attività espletate (in proposito cfr. Cass. 11.1.1997, n. 242; Cass. 23.7.1979, n. 4409) ed all5affermazione del carattere non routinario del ricorso al t.a.r. all’uopo predisposto.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce "difetto e comunque illogicità e inidoneità della motivazione su altro e diverso punto decisivo della controversia ovvero se con la rinuncia al mandato si sia o meno procurato danno risarcibile alla cliente in relazione all’art. 360, 1° comma, sub 5 c.p.c." (così ricorso, pag. 19).

Adduce che, contrariamente a quanto assunto dalla corte aquilana, che "ha compiutamente svolto tutta l’attività difensiva, conclusasi con il deposito della memoria venti giorni prima della discussione, tanto è vero che il secondo difensore si è limitato semplicemente a depositare la procura ad litem, riportandosi, per il resto, agli scritti del primo difensore, con ciò implicitamente riconoscendo l’esaustività della difesa svolta" (così ricorso, pag. 20); che "altra attività di natura professionale non doveva essere compiuta atteso che (...) nei giudizi di legittimità non è neppure necessaria la presenza del difensore in quanto il Collegio introita la causa a decisione anche in sua assenza" (così ricorso, pag. 20).

Il quarto motivo è del pari immeritevole di seguito.

Si rileva previamente che pur in relazione al motivo de quo non risulta assolto l’onere di cui alla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c.

Si rileva in ogni caso che il motivo in disamina è ad altro titolo inammissibile.

Invero, suo tramite, il ricorrente prospetta un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti.

U motivo, dunque, involge gli aspetti - del giudizio - interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti - afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360,1° co., n. 5), c.p.c..

Ad opinar diversamente - ossia per l’ammissibilità - il motivo di ricorso ex art. 360, 1° co., n. 5), c.p.c. si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; altresì Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Con il quinto motivo il ricorrente deduce "nullità della sentenza in relazione alla dichiarata sussistenza del reato di infedele patrocinio per violazione del principio tra quanto chiesto e pronunciato, del contraddittorio, del diritto di difesa e del giusto processo in relazione all’art. 360, 1° comma, sub 4" (così ricorso, pag. 20).

Adduce che certamente "il giudice del gravame può dare anche una diversa qualificazione giuridica al fatto" (così ricorso, pag. 21); che, nondimeno, resta indubbio che egli ricorrente, in veste di appellante, "aveva svolto la difesa basandosi sul reato contestatogli in primo grado" (così ricorso, pag. 21); che, conseguentemente, qualora "il giudice di secondo grado (...) ritenga che la fattispecie sia da ascrivere ad altro tipo di reato, deve consentire alle parti di proporre, in contraddittorio, le opportune difese sulla nuova fattispecie di reato, non essendo consentito dal vigente ordinamento che la diversa qualificazione del fatto, specie laddove v’è una reformatio in pejus, venga assunta dal giudice in assenza del necessario contraddittorio tra le parti, posto che, così operando, le parti vengono a conoscenza di ciò solo successivamente alla pubblicazione della sentenza" (così ricorso, pag. 21).

Con il sesto motivo il ricorrente deduce "omessa e comunque difetto di motivazione sulla ritenuta sussistenza del reato di infedele patrocinio in relazione all’art. 360, 1° comma, sub 5 c.p.c." (così ricorso, pag. 20).

Adduce che "è del tutto illogico (...) che possa commettersi il reato di infedele patrocinio laddove la cliente abbia ottenuto dal giudice una decisione del tutto favorevole che le ha consentito di essere persino assunta a tempo indeterminato" (così ricorso, pag. 22); che, al riguardo, la corte territoriale "nulla dice circa la sussistenza dell’elemento soggettivo e oggettivo del reato e nulla dice proprio perché di reato nella specie non solo non può parlarsi ma esso non è neppure ipotizzabile in via astratta e accademica" (così ricorso, pag. 23).

Il quinto ed il sesto motivo parimenti sono strettamente connessi.

Il che suggerisce il loro esame contestuale.

Entrambi i motivi, in ogni caso, sono immeritevoli di seguito.

SÌ rileva preliminarmente e precipuamente in relazione al sesto motivo che risulta del tutto omesso l’assolvimento dell’onere di cui alla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c..

Si rileva specificamente in ordine al quinto motivo che nessuna menomazione del diritto di difesa può correlarsi alla circostanza per cui la corte di merito abbia ritenuto di connotare altresì l’illecito deontologico, al contempo sostanziante inadempimento contrattuale, prefigurato a carico del ricorrente alla stregua della previsione dell’art. 380 c.p., anziché dell’art. 381 c.p.

E’ ben evidente che nella fattispecie non si versa sul terreno dell’illiceità penale.

In ogni caso, la doglianza de qua si risolve in una censura del tutto generica.

E ciò tanto più che la garanzia del contraddittorio rileva in chiave concreta e non già in linea astratta e di principio (cfr, sul terreno della garanzia del contraddittorio Cass. (ord.) 30.4.2011, n. 9591).

D’altro canto, è innegabile che pur col sesto motivo il ricorrente parimenti ambisce a conseguire una revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, sicché analogamente il motivo de quo si risolve in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto (del resto a pag. 22 del ricorso leggesi: "ci si chiede, in verità, quale sia il nocumento che la cliente ha subito dalla vittoriosa prestazione professionale e soprattutto quale volontà criminale sia rinvenibile nella condotta del difensore ").

A. P. non ha svolto difese.

Nonostante il rigetto del ricorso, pertanto, nessuna statuizione va assunta in ordine alle spese del presente grado.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.