Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 giugno 2015, n. 12128

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Lavoratrice in gravidanza - Risoluzione consensuale del rapporto - Convalida del competente servizio ispettivo del Ministero del lavoro - Necessità - Sussiste

 

Svolgimento del processo

 

1. Con ricorso al Tribunale di Tolmezzo N.N., premesso di aver consensualmente risolto il rapporto di lavoro con la A. Srl in data 14 maggio 2001, esponeva che il successivo 24 luglio aveva inviato alla società un certificato medico attestante lo stato di gravidanza alla data di cessazione del rapporto, chiedendone il ripristino.

Essendo fallito il tentativo di conciliazione esperito in data 5 dicembre 2002, la N. quindi chiedeva al Tribunale che venisse accertato il diritto ed essere reintegrata in servizio a decorrere dal 24 luglio 2001 e che la società venisse condannata a pagare le retribuzioni maturate sino al ripristino dell'originario rapporto di lavoro.

Con sentenza del 17 novembre 2007 la Corte di Appello di Trieste, in riforma della decisione del primo giudice, dichiarava che la N. aveva diritto a vedere ripristinato il rapporto di lavoro in essere tra le parti dalla data del 24 luglio 2001 e condannava l’A. Srl a corrisponderle le retribuzioni globali di fatto maturate da detta data sino al 5 dicembre 2002.

La Corte territoriale ha ritenuto l'art. 55, co, 4, d.Igs, n. 151/2001, secondo cui la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo dì gravidanza, deve essere convalidata dal competente servizio ispettivo del Ministero del Lavoro, estensivamente applicabile anche all'ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto. Ne ha fatto derivare che la risoluzione contenuta nella conciliazione del 14 maggio 2001 dovesse ritenersi "sospensivamente condizionata alla convalida di cui all'art. 55", con diritto della N. al ripristino del rapporto di lavoro e condanna della società al pagamento delle retribuzioni dalla comunicazione del 24 luglio 2001.

I giudici di appello hanno poi limitato la condanna al pagamento delle retribuzioni sino al 5 dicembre 2002, motivando che "in tale data ... l'odierna appellata, come emerso pacificamente dall'istruttoria svolta, ha offerto la reintegrazione del posto di lavoro alla ricorrente. Ad avviso della Corte, pertanto, il rifiuto della medesima a fronte di un'offerta di reintegrazione nel posto di lavoro non può che condizionare il termine ultimo di computo delle retribuzioni dovute".

Con ricorso dell'8 novembre 2008, iscritto al R.G.N. 27083/2008, l'A. Srl ha domandato la cassazione della sentenza per due motivi. Ha resistito con controricorso l'intimata, contenente impugnazione incidentale affidata a quattro motivi. Ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

2. - Avverso la sentenza d'appello pubblicata il 17 novembre 2007 la N. ha proposto anche ricorso per revocazione innanzi alla medesima Corte triestina ai sensi dell'art. 395, n, 4, c.p.c, sostenendo che l'errore commesso nella sentenza impugnata consisteva nel l'afferma re che le era stata offerta la reintegrazione, mentre da tutti i documenti di causa emergeva che la società le aveva proposto solo il ripristino de! rapporto e cioè una nuova assunzione.

Con sentenza del 19 giugno 2009 la Corte di Appello di Trieste ha respinto l'istanza di revocazione. Ha escluso che nella specie si fosse realizzata una falsa percezione di un fatto storico (ritenuto pacifico contrariamente al vero, o viceversa), attenendo l'errore denunciato alla valutazione ed interpretazione delle risultanze dell'istruttoria o dei comportamenti processuali o dei fatti giuridici allegati dalle parti.

Con ricorso del 27 novembre 2009, iscritto al R.G.N. 26459/2009, N.N. ha domandato la cassazione della sentenza affidandosi ad un unico motivo, illustrato da memoria. Ha resistito con controricorso l'A. Srl.

3. - All'udienza pubblica del 17 marzo 2015 i ricorsi sono stati riuniti, in continuità con l'orientamento favorevole all'applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c. promosso da questa Corte a Sezioni unite, n. 10933 del 1997 (conformi: Cass. n. 21938 del 2006; Cass. n. 25376 del 2006; da ultimo: Cass. n. 23445 del 2014).

 

Motivi della decisione

 

4. - Con il ricorso principale della A. Srl, iscritto al R.G.N. 27083/2008, sono proposti due mezzi di impugnazione che possono essere come di seguito sintetizzati:

- con il primo motivo si denuncia violazione dell'art. 55 del d. Igs. n. 151 del 2001, in riferimento all'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale approvate preliminarmente al codice civile, per aver ritenuto applicabile la disposizione ivi contenuta, espressamente prevista per le dimissioni, ad una ipotesi di scioglimento consensuale del rapporto di lavoro;

- con il secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale in quanto la Corte territoriale, applicando lart. 55, co. 4, cit. alla fattispecie in esame, avrebbe operato una interpretazione analogica vietata dalla natura eccezionale della norma.

5. - Il Collegio ritiene che i denunciati vizi della sentenza impugnata possano essere esaminati congiuntamente per reciproca inferenza, in quanto lamentano l'errata sussunzione nell'ambito di applicazione dell'art. 55 del d. Igs. n. n. 151 del 2001 di una fattispecie concreta costituita da una ipotesi di scioglimento consensuale del rapporto di lavoro.

Giudica le censure non meritevoli di accoglimento,

5.1. - Nell'ambito del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (d. Igs. n. 151 del 26 marzo 2001) è contenuto, nel capo IX dedicato a "Divieto di licenziamento, dimissione, diritto al rientro", l'art. 55 che, al quarto comma, nella versione di testo applicabile ratione temporis, così disponeva:

"La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno dì vita del bambino o nel primo anno dì accoglienza del minore adottato o in affidamento, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio. A detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro".

5.2. In generale il recesso del lavoratore è atto unilaterale di autonomia negoziale che ha come effetto tipico quello di risolvere il rapporto di lavoro nel momento in cui perviene nella sfera di conoscenza del destinatario.

Esso è tradizionalmente affidato al principio della libertà delle forme (v. Cass. n. 2048 del 1998), salvo i casi di diversa previsione della contrattazione individuale o collettiva ovvero di prescrizione da parte dell'ordinamento di una particolare procedura che condiziona l'efficacia o la validità dell’atto, contro eventuali abusi datoriali volti a viziare la genuinità del recesso dal rapporto di lavoro.

Così, a tutela della maternità e della paternità, il legislatore, una volta posti i divieti di licenziamento di cui all'art. 54 del d. Igs. n. 151 del 2001, simmetricamente ha previsto una procedura di convalida delle dimissioni formulate dal lavoratore nel periodo protetto.

La ratio è quella di evitare che, nello stesso periodo, possa essere raggiunto il medesimo effetto di risoluzione del rapporto di lavoro derivante da un licenziamento, attraverso un atto che è formalmente ad iniziativa della lavoratrice o del lavoratore ma che non corrisponde ad una volontà dismissiva liberamente formatasi.

Si presume, infatti, che le dimissioni possano essere influenzate "da ragioni collegate alla specifica situazione che induce a privilegiare esigenze di tutela della prole rispetto alla stabilità dell'occupazione lavorativa" (così Cass. n. 4919 del 2014) e che possano essere indotte dal datore di lavoro che approfitti di una peculiare situazione psicologica dei dipendente.

Pertanto si affida ai servizi ispettivi ministeriali il compito di indagare la genuinità e la spontaneità della volontà dismissiva; solo ove intervenga la "convalida" -interpretabile come condizione di efficacia del negozio- si realizza "la risoluzione del rapporto di lavoro",

5.3. - Ciò posto, questa Corte ritiene che, nonostante la disposizione in esame si riferisca testualmente alle sole "dimissioni", la stessa sia applicabile, come ritenuto dai giudici di appello, anche alle ipotesi di "risoluzione consensuale".

Invero, sebbene le due tipologie negoziali si distinguano chiaramente per struttura, connessa all’unilateralità della prima ed alla bilateralità della seconda, esse hanno in comune l'effetto, che è quello di produrre la risoluzione del rapporto di lavoro.

Ed è proprio questo effetto a cui guarda l'intento protettivo della norma, finalizzata ad evitare che la parte che lavora, in un momento così particolare della propria vita in cui è madre o padre, risolva il rapporto esprimendo una volontà che non si sia correttamente determinata.

In tale prospettiva è sicuramente omogenea la situazione di chi si dimette senza che sia formalmente acquisito il consenso dei datore di lavoro con la situazione di chi si dimette con l'accordo di questi, nell'ambito di una risoluzione consensuale del rapporto.

Diversamente ragionando le finalità di tutela della disposizione sarebbero agevolmente eluse. Posto che sia il datore di lavoro a voler ottenere la cessazione del rapporto di lavoro con una lavoratrice in gravidanza, sarebbe facile evitare il controllo dei servizi ispettivi ministeriali formalizzando una risoluzione consensuale in luogo di un mero atto di dimissioni.

L'interpretazione accolta, che estensivamente attribuisce ai termini della norma scrutinata il più ampio significato tra quelli possibili, è altresì costituzionalmente orientata al rispetto dell’art. 37 Cost., secondo cui le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento dell'essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione.

Pertanto la disciplina che regola le dimissioni della lavoratrice madre non può essere interpretata in modo differenziato rispetto a quella che regola la risoluzione del rapporto con il consenso del datore di lavoro, acquisite le identiche ed ineludibili esigenze di salvaguardia della funzione familiare e di protezione della prole.

5.4.  L'esegesi qui affermata appare altresì coerente con la successiva evoluzione legislativa della materia, sebbene non applicabile ratione temporis al caso all'attenzione del Collegio.

Infatti, l'art. 4, co. 16, della I. n. 92 del 2012, ha sostituito l'art. 55, co. 4, del d. Igs. n. 151 del 2001, prevedendo espressamente, fra l'altro, che "la risoluzione consensuale del rapporto", oltre alla richiesta di dimissioni, debba essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e che a tale convalida sia "sospensivamente condizionata l'efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro"

In questa parte la l. n. 92 del 2012, come già ritenuto da questa Corte a proposito dell'estinzione del rapporto di lavoro in seguito all'esercizio dell'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione (Cass. SS.UU. n. 18353 del 2014), ha, dunque, una "valenza confermativa e chiarificatrice" di quanto era già previsto e ricostruirle anche sulla base della precedente disciplina.

6. Respinto il ricorso principale, deve essere dichiarato assorbito il ricorso incidentale affidato da N.N. a quattro motivi. Infatti, nelle conclusioni contenute alle pagg. 42, 43 e 44 del controricorso, espressamente si chiede l'accoglimento di ciascuno dei motivi di impugnazione incidentale "in via subordinata" rispetto al rigetto del ricorso principale. Sicché, nonostante il terzo e quarto motivo impugnino il capo autonomo della sentenza di appello che ha limitato la condanna al pagamento delle retribuzioni alla data del 5 dicembre 2002, il ricorso incidentale, considerata l'espressa graduazione delle richieste, deve essere qualificato nel suo complesso come condizionato al l'accogli mento del principale, condizione nella specie non verificatasi.

7. - Con l'unico motivo del ricorso iscritto al R.G.N. 26459/2009, N.N. impugna la sentenza del 19 giugno 2009 con cui la Corte di Appello di Trieste ha respinto la domanda di revocazione della precedente sentenza del 17 novembre 2007 della stessa Corte.

Si denuncia la violazione di norme dì diritto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. e si Interroga la Corte sul "se violi il punto 4) dell’art. 395 c.p.c., in quanto effetto di errore di fatto risultante dagli atti e documenti di causa, la sentenza che - nel determinare le retribuzioni spettanti ad una lavoratrice dalla data di ripristino del rapporto di lavoro - affermi che le stesse retribuzioni competono esclusivamente sino alla data in cui alla lavoratrice è stata offerta la reintegra nel posto di lavoro in un caso di specie nel quale: a) l'esistenza di tale offerta di reintegra sia stata invece incontestabilmente esclusa in quanto l'offerta era costituita in una mera nuova assunzione; b) l'offerta di nuova assunzione e non di reintegra nel posto di lavoro non aveva costituito un punto controverso tra le parti concordando le stesse che nella fattispecie l'offerta è stata di una nuova assunzione e non di reintegra nel posto di lavoro".

La doglianza è infondata.

L'ipotesi di revocazione di cui al n. 4 dell'art. 395 c.p.c. sussiste se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.

Per pacifica giurisprudenza di questa Corte tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l'altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un Iato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall'altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (per tutte Cass. SS.UU. n. 5303 del 1997).

Pertanto l'errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l'interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell'assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l'errore la pronuncia sarebbe stata diversa.

Orbene nella specie l'errore di cui sarebbe stata affetta la sentenza impugnata dalla N. sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., consisterebbe nell'aver ritenuto una "offerta di reintegrazione" nel posto di lavoro quella che invece, secondo l'istante, era una mera "offerta di nuova assunzione".

All'evidenza tale prospettazione non investe un errore di percezione della realtà nella sua materialità fattuale, quanto piuttosto le conseguenze giuridiche derivanti dalla qualificazione di tale fatto.

Ed infatti la Corte adita per la revocazione ha escluso che la sentenza impugnata avesse dato acriticamente per vero un fatto mal accaduto, ritenendo piuttosto possibile che la stessa avesse errato nel l'interpretazione dei documenti acquisiti nel corso dell'istruttoria, oppure nel valutare il comportamento processuale delle parti o, ancora, nell'individuare la natura giuridica dell'offerta di reintegrazione posta in essere dalla società.

Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha concluso per l'insussistenza nella specie di un errore revocatorio rilevante ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., e quindi di un errore di fatto che si traducesse in una falsa percezione della realtà, trattandosi, in ipotesi, di un errore nella qualificazione giuridica dei fatti di causa ovvero nella individuazione delle loro conseguenze sul piano del diritto.

8.— Conclusivamente, respinti i ricorsi principali di entrambe le parti, la reciproca soccombenza e la novità di talune questioni giuridiche affrontate inducono a compensare integralmente le spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale della società iscritto al R.G.N. 27083/2008 e dichiara assorbito il ricorso incidentale della N. rigetta il ricorso iscritto al R.G.N. 26459/2009; dichiara integralmente compensate le spese dei due ricorsi riuniti.