Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 maggio 2015, n. 10264

Tributi - Diritti del contribuente - Sanzioni in caso di interpello sbagliato - Non sussistono

 

Svolgimento del processo

 

Con atto di citazione del 2003 R.D. ha convenuto davanti al Tribunale di Trieste il Ministero dell'economia e delle Finanze, l'Agenzia delle Entrate - Direz. Centrale e direzioni regionali di Trieste e del Friuli Venezia Giulia, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni in € 4.763.497,38, addebitando loro di avergli impedito di usufruire del condono di cui alla legge n. 289 del 2002, con il loro comportamento colposo.

Fra il 1986 e il 1989 aveva ricevuto dall'Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Trieste - poi divenuto Ag. Entrate -

sei avvisi di accertamento di imposte relative agi anni 1980-1985, a seguito della rettifica delle sue dichiarazioni dei redditi mediante inclusione fra i suoi redditi personali di quelli prodotti da due società di cui era socio, che l'Ufficio ha ritenuto fittizie ed in realtà attinenti ad attività da lui svolte personalmente.

Egli ha proposto opposizione alle suddette cartelle e, sopraggiunta la legge n. 413/1991 che all'art. 34 consentiva di condonare le controversie tributarie, ha proposto istanza di condono, pagando a questo titolo £ 2.840.248.000, somma ottenuta detraendo dall'importo dovuto le somme pagate negli anni precedenti dalle due società a titolo di Irpeg e di Ilor.

La detrazione è avvenuta sulla base di un certificato rilasciato il 16.4.1992 dall'Ufficio delle imposte dirette di Trieste, il quale attestava ai sensi dell'art. 59 legge 30 dicembre 1991 n. 413 che i redditi prodotti dalle due società, essendo stati imputati al D., non dovevano essere ad esse attribuiti, ed elencava le somme che le società avevano pagato a titolo di Irpeg e Ilor, per gli effetti di cui all'art. 34 legge n. 413 cit., quindi agli effetti del condono.

L'importo pagato da contribuente per il condono del 1992, al netto della compensazione, è stato pari a £ 2.840.248.000. Successivamente, il 7 maggio ed il 2 giugno 1994 l'ufficio delle imposte ha emesso a carico del D. due cartelle di pagamento - una per £ 7.564.017.000 e l'altra per £ 2.948.128.930, in addebito di Irpef e Ilor pagate dalle società fittizie - cioè le somme che il contribuente aveva compensato, sulla base della recedente dichiarazione - con l'aggiunta di interessi, soprattasse e sanzioni, affermando che non ne era ammessa la compensazione.

Il D. ha impugnato le due cartelle, instaurando un processo conclusosi con sentenza n. 4958/2000 della Corte di cassazione, che ha respinto la domanda.

Altro processo avente ad oggetto la domanda di restituzione delle somme già versate a titolo di Irpeg e Ilor dalle società ritenute fittizie, si è concluso con l'accoglimento della domanda con sentenza della Commissione Tributaria provinciale di Trieste, confermata dalla Commissione regionale del Friuli Venezia Giulia con sentenza depositata in data 11.12.2002 e notificata il 20.12 successivo, che ha condannato l'Agenzia delle entrate a provvedere al rimborso.

Il ricorso in Cassazione dell'Agenzia delle Entrate è stato respinto con sentenza n. 10835/2005.

Nelle more fra la decisione di secondo grado e quella della Corte di cassazione è sopraggiunta la legge 27 dicembre 2002 n. 289, il cui art. 12 ha ammesso l'estinzione dei debiti verso le esattorie mediante il pagamento in via bonaria del 25% degli importi iscritti a ruolo.

Il D. ha sollecitato l'Agenzia debitrice ad effettuare il rimborso delle imposte - a lui spettante in virtù della sentenza della Commissione Tributaria Regionale - direttamente in favore dell'Agenzia di Trieste, creditrice dell'importo delle due cartelle emesse nel 1994, che si erano nel frattempo incrementate di interessi di mora e soprattasse, quanto meno fino a concorrenza dell'importo occorrente per la definizione agevolata (€ 1.587.832,4 6), assumendo di non avere denaro per procedere direttamente al pagamento della somma occorrente per la conciliazione della vertenza ai sensi della legge n. 289/2002.

L'Agenzia delle Entrate non ha aderito alla richiesta e ha proposto il ricorso per cassazione.

Da qui la domanda di risarcimento dei danni proposta dal D. nel 2003 per l'importo di € 4.763.497,38, somma che avrebbe potuto risparmiare se si fosse potuto avvalere della definizione agevolata della controversia con il fisco, di cui alla legge n. 289/2002.

Il titolo della responsabilità è stato indicato nella violazione delle norme della legge 27 luglio 2000 n. 212 - Statuto dei diritti del contribuente, ed in particolare degli art. 10 e 11 dello Statuto sul dovere di collaborazione e di buona fede a cui l'amm. ne finanziaria deve improntare il suo comportamento.

La somma chiesta in risarcimento è pari alla differenza fra l'importo del debito oggetto di contestazione e ciò che il D. avrebbe dovuto pagare per la conciliazione al 25%.

Hanno resistito alla domanda il Ministero dell'Economia e l'Agenzia delle Entrate sollevando varie eccezioni di rito e di merito, proponendo domanda riconvenzionale di quantificazione dei danni che il D. era stato condannato a risarcire all'Agenzia in altro processo, con sentenza limitata all'an debeatur.

Con sentenza n. 1342/2007 il Tribunale ha respinto la domanda attrice ed ha accolto la riconvenzionale, condannando il D. a pagare all'amm.ne finanziaria € 164.233,20 in risarcimento dei danni.

Proposto appello dal D., con sentenza 1° dicembre 2010 - 1° febbraio 2011 n. 35, notificata il 22 giugno 2011, la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto ad € 9.296,22, oltre interessi e rivalutazione, la somma spettante in risarcimento all'amm.ne finanziaria e ha respinto le altre domande dell'appellante, ponendo a carico dello stesso le spese processuali.

La Corte ha ritenuto inoperante il principio dell'affidamento, con la motivazione che il D. non aveva fatto acquiescenza alle cartelle esattoriali del 1986-89; che il contenzioso sul punto era ancora pendente alla data in cui la Corte di cassazione, con sentenza n. 4958/2000, ha respinto il ricorso contro le cartelle esattoriali emesse nel 1994, e che il giudizio relativo al suo diritto al rimborso delle somme versate dalle società si è concluso in suo favore solo con la sentenza n. 10835/2005 della Corte di cassazione; che comunque l'amm.ne finanziaria non ha tenuto un comportamento incoerente e ingannevole, perché il certificato 16.4.1992 dell'Ufficio delle Imposte non aveva l'effetto di definire nell'an e nel quantum i diritti del contribuente e nulla ha a che vedere con il condono del 2002.

Ha poi escluso che il D. abbia fornito la prova della sua impossibilità di usufruire del condono in assenza di rimborso.

Il D. propone due motivi di ricorso illustrati da memoria.

Resiste con controricorso l'Agenzia delle Entrate.

 

Motivi della decisione

 

1. - Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli art. 3, 24, 53 e 97 Cost.; 8, 10 e 11 della legge 27 luglio 2000 n. 212 sullo Statuto del contribuente; 2043 cod. civ.; nonché insufficiente motivazione e omesso esame di documenti, nel capo in cui la Corte di appello ha escluso che l'Agenzia delle Entrate sia incorsa nella violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei rapporti con esso contribuente, sia in relazione alle vicende svoltesi fino al 1992, dalle quali è nato l'ingente debito fiscale a suo carico; sia in relazione al comportamento tenuto in occasione delle agevolazioni concesse ai contribuenti dalla legge 27 dicembre 2002 n. 289, che gli ha impedito di avvalersi delle suddette agevolazioni.

Con il secondo motivo denuncia violazione degli art. 2056, 1227 e 2697 cod. civ., nel capo in cui la Corte di appello ha escluso che l'appellante e odierno ricorrente abbia fornito la prova del nesso causale fra gli inadempimenti imputati all'Agenzia delle Entrate e il danno da lui risentito, ed ha escluso che abbia fornito la prova dei danni.

2. - I due motivi, che vanno congiuntamente esaminati perché connessi, non sono fondati.

3. - Va premesso che le domande proposte dal ricorrente nel presente giudizio - sfrondate da tutte le lamentele, le censure e gli addebiti (pur in gran parte giustificati), che vengono rivolti ai pregressi comportamenti del fisco nei suoi confronti e che hanno condotto all'emissione delle cartelle esattoriali relative al suo debito - hanno per oggetto esclusivamente il risarcimento dei danni che egli assume di avere subito per il fatto che nell'ottobre 2003 - trovandosi a dover rispondere di cartelle esattoriali per l'importo complessivo di oltre € 6.350.000,00 - non ha potuto usufruire dell'opportunità offerta dall'art. 12 della legge 27 dicembre 2002 n. 289, di estinguere i debiti verso le Esattorie mediante il pagamento del 25% degli importi iscritti a ruolo, in quanto l'Agenzia delle Entrate, debitrice nei suoi confronti di un'ingente somma, non ha dato corso alla sua richiesta che detta somma gli venisse versata direttamente presso l'Agenzia delle Entrate di Trieste, presso la quale egli avrebbe dovuto procedere all'estinzione agevolata, quanto meno fino a concorrenza dell'importo richiesto dalla legge allo scopo che, nel suo caso ammontava ad € 1.587.832,46.

Ha dedotto che il mancato pagamento, nonostante la sua formale diffida, con riserva di azione per danni, gli ha impedito di saldare il debito verso il fisco, non avendo egli disponibilità di denaro, anche a causa dei precedenti, illeciti comportamenti degli uffici tributari.

Ha quindi quantificato la somma dovutagli in risarcimento nell'importo di € 4.763.497,38, pari alla differenza fra il totale da lui dovuto al fisco nel 2002 e la minor somma di € 1.587.832,46, con la quale avrebbe potuto estinguere il suo debito in forza delle agevolazioni (nella sostanza, un vero e proprio condono) di cui all'art. 12 legge n. 289/2002 cit.

4. - In prelazione a tali domande, che - si ripete costituiscono l'oggetto diretto e immediato del giudizio - la sentenza impugnata non è meritevole di censura.

La Corte di appello ha ritenuto insussistente l’illecito sul rilievo che, alla data della richiesta di pagamento, il debito del fisco nei confronti del ricorrente non era ancora certo, in quanto la sentenza emessa in appello dalla Commissione tributaria centrale, che detto credito aveva riconosciuto, era ancor suscettibile di impugnazione ed è stata effettivamente impugnata con ricorso alla Corte di cassazione, la quale ha respinto il ricorso e confermato il buon diritto del ricorrente solo alcuni anni dopo, con sentenza n. 10835/2005.

Il ricorrente non ha prospettato, a tal proposito, argomentazioni sufficienti a dimostrare che il rifiuto di dare esecuzione alla sentenza prima del suo definitivo passaggio in giudicato fosse di per sé ingiustificabile, o contrario a buona fede, o comunque illecito.

Gli addebiti e le censure rivolti all'Agenzia delle Entrate si riferiscono pressoché esclusivamente ai rapporti pregressi, dai quali è derivata l'ingente esposizione del D nei confronti del fisco. Ma, in relazione a tali comportamenti, non è stata formulata né dimostrata specifica domanda di risarcimento dei danni, come si dirà fra breve (infra, § 6).

4.1.- Ancor più decisivo è il rilievo della Corte di appello circa l'insussistenza della prova del nesso causale fra l'illecito e il danno, per il fatto che la mera dichiarazione del D. di non avere denaro per provvedere al condono non costituisce di per sé prova sufficiente dell'impossibilità da parte sua di provvedere al condono.

È appena il caso di ricordare il principio "genus numquam perit" che - soprattutto in un'economia di mercato - sta alla base del carattere oggettivamente ingiustificato che viene sempre e comunque assegnato al mancato pagamento di cose fungibili, ed in particolare di somme di denaro, per cui il debitore non può addurre come causa di giustificazione del suo inadempimento o di altro comportamento doveroso il semplice fatto di non avere denaro, ma è tenuto a dimostrare le circostanze eccezionali, imprevedibili ed insuperabili con l'ordinaria diligenza che gli abbiano impedito di accantonare le somme necessarie a far fronte alle sue obbligazioni, o comunque di procurarsele sul mercato, ricorrendo ad apposito finanziamento.

Nella specie, come ha sostanzialmente ritenuto la Corte di appello, il D. avrebbe dovuto quanto meno dedurre, oltre che dimostrare, le ipotetiche circostanze eccezionali che gli hanno impedito di procurarsi la somma necessaria per provvedere al condono: se per esempio tutti i suoi beni fossero stati assoggettati a sequestro o a divieti del giudice di procedere a qualunque pagamento (pur se è difficile ipotizzare che gli sarebbe stato vietato anche di pagare le imposte, pur se tramite un condono); se avesse dimostrato di avere richiesto finanziamenti bancari, senza poterli ottenere, a causa di una sua ipotetica posizione personale di incapienza, e così via. Vale a dire, anche ammessa l'illiceità del rifiuto dell'Agenzia delle Entrate di pagare (anticipatamente) il suo debito, il D. non avrebbe potuto acquetarvisi, trasferendo automaticamente sulla debitrice il danno conseguente al mancato condono, ma avrebbe dovuto attivarsi per procurarsi altrimenti il denaro, sì da poter addebitare al fisco - una volta acquisito definitivamente il suo credito - tutti gli oneri e le spese incontrati per procurarsi altrimenti la somma; necessaria a far fronte al condono.

Che questo sia il danno risarcibile nei casi in cui il creditore non possa far fronte ad un suo debito a causa dell'inadempimento del debitore risulta non solo dai principi generali in materia, ma anche da specifica norma dello Statuto del contribuente, che al 4° comma dell’art. 8 dispone che l'amm.ne finanziaria è tenuta a rimborsare al contribuente il costo delle fideiussioni che questi abbia dovuto contrarre per pagare i tributi od ottenerne la rateizzazione, quando si dimostri che l'imposta non era dovuta.

Nel nostro sistema economico-giuridico la mera affermazione "non avevo denaro" non vale come causa di giustificazione del mancato pagamento di un debito: soprattutto con riferimento a persona facoltosa, residente in un paradiso fiscale e titolare di varie imprese in Italia, i cui debiti fiscali - per quanto onerosi, ingiustificati o vessatori - si valutavano nell'ordine di milioni di euro, facendo pensare ad introiti di analogo ordine di grandezza.

5. - Per quanto concerne, quindi, la domanda risarcitoria che costituisce diretto e immediato oggetto di controversia, la sentenza impugnata non può che essere confermata.

Se il D. - non avendo ricevuto dall'Agenzia delle Entrate il rimborso di quanto indebitamente pagato in precedenza, ha rinunciato al condono del 2002 e non ha dimostrato in giudizio la sua impossibilità di procurarsi i mezzi economici e per procedervi, lo ha fatto a suo rischio e pericolo, e non può riversare sulla controparte il danno conseguente.

6. - Quanto agli altri illeciti che il ricorrente addebita all'Agenzia delle Entrate, per violazione dei doveri di correttezza e buona fede di cui allo Statuto del contribuente, essi risultano assorbiti, a fronte della mancanza di una specifica domanda di condanna al risarcimento dei danni ad essi direttamente correlata.

Vero è che la motivazione della sentenza impugnata è evasiva e tutt'altro che soddisfacente, nella parte in cui ha escluso che il comportamento dell'Ufficio delle imposte di Trieste abbia creato un ingiustificato affidamento nel D., allorché - su apposito interpello di quest'ultimo - ha rilasciato il certificato del 16.4.1992, elencando le somme pagate per Irpeg e Ilor dalle due società ritenute fittizie con esplicito richiamo dell'art. 34 della legge n. 413/1991, che riguardava il condono fiscale, e dell'art. 59 della legge stessa, che riguardava modalità di calcolo della somma dovuta per ottenere il condono, specificando che gli importi dovuti sulle annualità definite dovevano essere calcolati al netto degli importi pagati dal contribuente.

Tale documento - che non conteneva alcuna riserva circa l'applicabilità della compensazione alla peculiare fattispecie riguardante il D. - era indubbiamente idoneo a indurre in errore il contribuente sulla possibilità della compensazione.

Sicché l'emissione di altre due cartelle per quasi dieci miliardi di lire, fra capitale, penali, sanzioni e interessi di mora, a distanza di due anni, con la motivazione che gli importi compensati in sede di condono in realtà non erano compensabili, ha costituito un comportamento oggettivamente in contrasto con il principio per cui "I rapporti tra contribuente e amministrazione sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede" (art. 10, 1° comma, Stat. contrib.).

La normativa in materia di compensazione era probabilmente poco chiara e l'Agenzia delle Entrate può anch'essa cadere in errori di interpretazione.

Ciò che non è consentito è scaricare sul contribuente le conseguenze dannose di tali errori, dopo averlo indotto ad uniformarvisi.

L'Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto invece uniformarsi al principio per cui "Non sono irrogate sanzioni, né richiesti interessi moratori, al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall'amministrazione medesima" (art. 10, 2° comma, Statuto del contribuente), e "Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria..." (art. 10, 3° comma). Ed ancora, "Limitatamente alla questione oggetto dell'istanza di interpello, non possono essere irrogate sanzioni nei confronti del contribuente che non abbia ricevuto risposta dall' amministrazione finanziaria..." (art. 11, 3° comma, Stat. Contrib.): quindi, a maggior ragione, a colui che si sia uniformato alla risposta ricevuta.

Vero è che tali norme non erano ancora in vigore negli anni 1992 e 1994, allorché si sono verificati i comportamenti di cui sopra. Ma erano certamente in vigore le regole di correttezza e di buona fede, oltre che gli elementari principi di buon senso e di rifiuto delle prevaricazioni, ad esse sottostanti, a cui l'intero sistema giuridico si deve uniformare nel regolare i rapporti fra i cittadini, ed in particolare i rapporti fra questi e la pubblica amministrazione.

Sotto questo profilo, pertanto, le doglianze del ricorrente sono fondate e avrebbero potuto essere assecondate.

Resta il fatto che, si ripete, il ricorrente non ha proposto nelle competenti sedi di merito specifica domanda di risarcimento dei danni, congruente con la natura dell'illecito denunciato ed autonoma rispetto a quella avente ad oggetto il condono del 2000; non ha chiesto che venissero dichiarate illegittime le sanzioni irrogategli per avere proceduto alla compensazione, uniformandosi al certificato del 16.4.1992; non ha chiesto la restituzione delle somme pagate a quel titolo e non ne ha quantificato l'importo.

Correttamente, quindi, la Corte di appello si è pronunciata esclusivamente sulla domanda di risarcimento dei danni relativa al mancato condono del 2002.

Si rileva, peraltro, che lo stesso ricorrente ha dichiarato che, in accoglimento della sua domanda di recupero delle imposte pagate dalle società ritenute fittizie, la Commissione Tributaria Regionale di Trieste, con sentenza n. 58/01/08, depositata il 23 gennaio 2008, gli ha riconosciuto il diritto al pagamento di € 4.074.040,81 per capitale e di € 5.959.368,43 a titolo di interessi, oltre agli interessi anatocistici a decorrere dal 21 settembre 2002, oltre al rimborso delle spese di causa in € 60.000,00 con gli interessi legali dal 9 novembre 2007 (Ricorso, pag. 25).

Al di là di ogni valutazione, quindi, i torti da lui subiti hanno trovato un parziale (ma non irrilevante) ristoro.

7. - Il ricorso è respinto.

8. - Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in € 10.200,00, di cui € 200,00 per esborsi ed € 10.000,00 per onorari; oltre al rimborso delle spese generali ed agli accessori di legge.