Giurisprudenza - COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE FIRENZE - Sentenza 23 maggio 2015, 333

Tributi - Avviso di Accertamento - Impugnazione tardiva per errore materiale - Rimessione in termini - Ammissibilità del ricorso - Sussiste - Tributi Erariali Diretti - Compensi corrisposti ad artisti stranieri non residenti - Omesso versamento delle ritenute alla fonte - Obbligatorietà dell’imposizione - Irrilevanza della natura del reddito - Legittimità dell’accertamento

Fatto e diritto

 

Con tre separati ricorsi n. 640/14, n. 1777/14 e n. 1778/14 R.G. la L. s.r.l., con sede in Firenze e in persona del legale rappresentante "pro tempore", impugna, chiedendone l’annullamento, rispettivamente gli avvisi di accertamento n. T8B071905908/2013, n. T8B071901784/2014 e n. T8B071901743/2014, con i quali l’Agenzia delle Entrate di Firenze le contesta il mancato versamento, per gli anni d'imposta 2008, 2009 e 2010, della ritenuta a titolo d'imposta del 30%, pari agli importi specificati negli avvisi impugnati, sui compensi erogati per prestazioni professionali rese da artisti (complessi rock e/o heavy metal) non residenti in Italia, irrogando le relative sanzioni. In fatto, è pacifico che negli anni oggetto di contestazione la L. ha svolto su tutto il territorio nazionale - in particolare nel settore heavy metal, genere eminentemente anglosassone i cui gli artisti sono generalmente di paesi anglofoni - attività di promozione di concerti di musicisti pressoché esclusivamente stranieri, comunitari (inglesi) ed extracomunitari (americani).

Avendo nel 2013 l’Agenzia delle Entrate fiorentina ricevuto una richiesta di controllo sulla L. s.r.l. da parte dello Internai Revenue Service - Amministrazione Fiscale Federale statunitense - per ottenere lumi sui redditi percepiti in Italia dal gruppo californiano "M.", l’Agenzia delle Entrate procedeva ad una verifica dell'attività svolta dalla ricorrente, rilevando alcune criticità concernenti, oltre le imposte sui redditi (da cui è scaturito un separato avviso di accertamento), il mancato versamento, per gli anni d'imposta 2008,2009 e 2010, della ritenuta a titolo d'imposta del 30% sui compensi, in genere elevatissimi e per somme cospicue dell'ordine di milioni di euro, corrisposti agli artisti stranieri, in violazione dell'art. 25 DPR n. 600/73.

Con censure sostanzialmente analoghe la ricorrente censura gli avvisi impugnati per:

1) vizio di motivazione - contestazione arbitrariamente aggregata;

2) violazione di legge - inapplicabilità dell’art. 25 del D.P.R. n. 600/1973;

3) rilevanza della normativa internazionale contro le doppie imposizioni;

4) assoggettamento a ritenuta dalla convenzione OCSE solo per prestazioni di lavoro autonomo di spettacolo;

5) vigenza di convenzioni internazionali - in particolare quella Italia - Usa - contro le doppie imposizioni;

6) non debenza delle sanzioni per obiettiva incertezza della normativa di riferimento.

Si è costituita l'Agenzia delle Entrate, eccependo preliminarmente l'inammissibilità - per tardività - del ricorso n. 1778/14 R.G. relativo all'anno 2009 e chiedendo il rigetto di tutti comunque i ricorsi siccome infondati.

In particolare, l'Ufficio rileva che nel caso di specie l’accertamento n. T8B071901743 per l’anno 2009 è stato notificato il 02.07.2014, per cui il termine di impugnazione, tenendo conto anche del periodo di sospensione feriale, scadeva il 16.10.2014, laddove il ricorso contro detto avviso di accertamento è stato invece proposto il 20.10.2014 (data di spedizione della raccomandata n. 14602313989-0: v. all. 4 fase, di parte resistente), quando cioè il termine perentorio di 60 giorni era oramai definitivamente spirato.

Tale dato di fatto, pacifico e documentalmente provato, è oggetto di un'articolata memoria di parte ricorrente che, invocando l'errore scusabile, sostiene essere l'impugnazione tempestiva e comunque l'esistenza delle condizioni per la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., così scrivendo:

« Nel pomeriggio del 14 ottobre, uno dei due difensori della L. - l’Avv. F. B. - si accingeva a notificare due distinti ricorsi avverso gli avvisi di accertamento nn.

T8B 071901743 e T8B 071901784 rispettivamente per gli anni di imposta 2009 e 2010. Il termine di impugnazione (60 giorni più la sospensione feriale) spirava due giorni dopo, il 16 ottobre 2014 (la notifica degli accertamenti era infatti avvenuta il 2 luglio 2014).

I ricorsi erano già predisposti, entrambi in doppio originale, e sottoscritti dal rappresentante legale della L. e dai difensori, anche per autentica del mandato (cfr. allegato doc. 1). In totale, quindi, erano pronti quattro ricorsi, due per il 2009 e due per il 2010.

A causa di un disguido materiale di segreteria, però, in fase di confezionamento del plico chiuso da notificare per posta raccomandata, il ricorso 2009 veniva materialmente scambiato con l’altro originale del ricorso 2010 (cf. allegato doc. 2. Pertanto, alla posta venivano spediti due ricorsi: entrambi identici, originali, riferiti all’avviso T8B 071901784 per l’anno 2010, irriconoscibili una volta chiusi nel plico e sostanzialmente distinti soltanto per il numero di raccomandata a.r. [uno con la raccomandata n. 14499236441-8 (doc. 3) e l’altro con la raccomandata n. 14563095302-7 (doc. 4)].

Nello stesso tardo pomeriggio del 14 ottobre 2014, peraltro, il medesimo B. scriveva una email al Dott. P. dell’Agenzia delle Entrate (doc. 5), preannunciandogli la notifica dei ricorsi per il 2009 e il 2010 (quindi avverso entrambi gli avvisi di accertamento) al fine di ottenere riscontro non appena ricevuti dall’Ufficio e avviare una trattativa per conciliazione insieme al contenzioso per all’anno 2008, già pendente in giudizio per le stesse questioni di fatto e di diritto. L’avvocato aveva quindi concluso la procedura di notifica e riposto i tagliandi di spedizione delle raccomandate nei rispettivi fascicoli, nella convinzione di aver notificato i ricorsi avverso tutti gli accertamenti in scadenza.

Senonché, la mattina del 20 ottobre 2014, il Dott. P. dell’Agenzia delle Entrate, una volta ricevuti fisicamente i ricorsi sulla sua scrivania, rispondeva alla email del B. (doc. 6) avvertendolo di aver ricevuto due ricorsi identici avverso il medesimo accertamento n. T8B 071901784 per l’anno 2010 e di aver quindi inserito nel sistema informativo dell’Agenzia l’impugnazione del solo avviso per l’anno 2010. Alla lettura di quella email, il B. si rendeva conto del disguido, ottenendone poi immediata conferma una volta aperti i fascicoli e rilevando che erano rimasti in studio entrambi gli originali dei ricorsi del 2009 e mancavano entrambi gli originali dei ricorsi 2010.

Al che, pur consapevole del fatto che il termine di impugnazione spirava il 16 ottobre, il difensore provvedeva comunque a notificare immediatamente il ricorso avverso l’accertamento 2009 nel pomeriggio di quello stesso 20 ottobre, ovviamente con una terza raccomandata a.r. (n. 14602313989-0-doc. 7)

Inoltre, al fine di fugare ogni dubbio sull’accaduto, il B. provvedeva altresì a notificare, il successivo 21 ottobre 2014, una dichiarazione (doc. 8) con cui illustrava che la notifica del ricorso 2009, avvenuta il 20 ottobre, era finalizzata a correggere la svista materiale e pertanto ad integrare - con il ricorso giusto (il 2009 al posto del 2010) - la notifica avvenuta il 14 ottobre, dato che evidentemente il secondo ricorso 2010, spedito quel medesimo 14 ottobre, era un doppione e che l’impugnazione era logicamente rivolta all’accertamento 2009, al di là dell’apparenza indotta dalla svista materiale... ».

In sostanza la L. srl, facendo leva sul fatto che il 14.10.2014 ha notificato all’Agenzia due ricorsi identici nel contenuto (motivi di ricorso) e nell’indicazione dell’atto impugnato (accertamento n. T8B071901784 per l’anno 2010), ma che essa intende comunque rivolti avverso gli avvisi di accertamento nn. T8B071901743 per l’anno 2009 e T8B071901784 per l’anno 2010, assume di essere incorsa in una svista materiale e di aver corretto l’errore in data 20.10.2014 spedendo il plico corretto (contenente il ricorso contro l’avviso di accertamento per l’anno 2009), invocando la tesi della notifica del ricorso quale "fattispecie a formazione progressiva", in base alla quale con la seconda spedizione ha essa inteso non già effettuare una "prima notifica", ma correggere la svista materiale occorsa nella notifica del 14.10.2014, integrando e concludendo in tal modo la notifica del 14 ottobre e così perfezionando la 'vocatio in ius' iniziata con quella medesima notifica del 14 ottobre.

L'Ufficio contesta la fondatezza della tesi di parte ricorrente sostenendo che il ricorso contro l’avviso di accertamento per l’anno 2009 è solo quello presentato, tardivamente, il 20.10.2014: tale dato di fatto, oggettivo e pacifico, non è, secondo l'Agenzia, superabile con argomentazioni che attengono all’intenzione ovvero ad una sfera indimostrata e indimostrabile che mal si concilia, anzi è del tutto in contrasto, con la certezza che anche in ambito tributario fa da linea guida alla normativa processuale (in primis l’art. 18 D. lgs. 546/92) la quale prevede, a pena di inammissibilità, un termine perentorio per la presentazione del ricorso contro un determinato atto amministrativo. Del resto, prosegue l'Ufficio, l’accoglimento della tesi di parte ricorrente di far prevalere "l’intenzione" non provata sul "dato testuale" invece oggettivamente documentato, oltre ad essere in contrasto con la legge, avrebbe effetti devastanti sulle "certezze" del processo tributario, perché qualsiasi dimenticanza o errore sull’impugnazione di un atto potrebbero essere facilmente rimediabili con la successiva presentazione, benché tardiva, di un ricorso, argomentando in base all’intenzione di impugnare, affermata essere presente fin dall’origine ed aggirando così il termine perentorio stabilito dalla legge per adire il Giudice tributario.

Osserva la Commissione essere ineccepibile, in linea di principio, la tesi sul punto dell'AF., confortata dalla pressoché unanime giurisprudenza in materia: v. per tutte Consiglio di Stato sez. IV 127 giugno 2014 n. 3231 ("nel processo amministrativo, l'istituto della rimessione in termini riveste carattere eccezionale, in quanto deroga al principio fondamentale di perentorietà dei termini d'impugnazione. Ne segue che l'art. 37 c.p.a. deve considerarsi norma di stretta interpretazione, dal momento che un uso eccessivamente ampio della discrezionalità giudiziaria, che esso presuppone, lungi dal rafforzare l'effettività della tutela giurisdizionale, potrebbe comportare un grave vulnus del pariordinato principio di parità delle parti relativamente al rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge processuale") e Consiglio di Stato sez. VI 11 settembre 2014 n. 4623 ("l'omessa indicazione, in calce al provvedimento amministrativo dei termini e dell'autorità cui ricorrere, in violazione dell'art. 3, comma 4, l. 7 agosto 1990, n. 241, può, bensì, implicare, in caso di tardiva impugnazione, il riconoscimento dell'errore scusabile e la conseguente rimessione in termini, ma solo qualora, nel singolo caso concreto, sia apprezzabile una qualche giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario dell'atto, dovuta ad una situazione normativa obiettivamente ambigua o confusa, ad uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, alla particolare complessità della fattispecie concreta, a contrasti giurisprudenziali o al comportamento dell'amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti non esatti, poiché, opinando diversamente, tale inadempimento formale si risolverebbe in una assoluzione indiscriminata dal termine di decadenza, con gravi riflessi sulla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico).

Tanto premesso, e precisato che di tutto il diffuso argomentare di parte ricorrente (sulla sua "evidente convinzione di aver impugnato tutti gli accertamenti in materia di ritenute" e sulla sostanziale identità dei motivi di ricorso, sulla palese inverosimiglianza di una sua acquiescenza all'avviso 2009 per un importo superiore ai due milioni di euro) rimane come dato rilevante il fatto che si è in presenza di una svista materiale, si rileva che la giurisprudenza in materia non esclude l'applicabilità della rimessione in termini in ordine ai termini di impugnazione, pur sottolineandone il carattere eccezionale.

Al riguardo la Corte di Cassazione ha statuito che "l'istituto della rimessione in termini, previsto dall'art. 184 bis c.p.c. (utilizzabile "ratione temporis", abrogato dall'art. 46 l. 18 giugno 2009 n. 69, e sostituito dalla norma generale di cui all'art. 153, secondo comma, del medesimo codice), è senz'altro applicabile anche al rito tributario, alla luce dei principi costituzionali che vi presiedono, non meno che di quanto attengano al rito civile, e nell'ottica della tutela delle garanzie difensive e dell'attuazione del giusto processo, operando sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali "interni" al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali che sono oggetto delle tutele processuali concesse" (Cassazione civile sez. VI 15 aprile 2014 n. 8715: così statuendo, la S.C., ha cassato con rinvio Comm. Trib. Reg. L'Aquila, 25/10/2011 che aveva invece ritenuto che la natura perentoria del termine previsto dalla legge per l'impugnazione esimesse dal considerare nel merito la fondatezza dell'istanza di rimessione in termini proposta dalla parte ricorrente al fine di asseverare la non imputabilità della decadenza).

Quindi un primo principio importante afferma l'applicabilità della rimessione in termini non solo alle decadenze endoprocessuali, ma anche all'impugnazione di atti e sentenze.

Nella motivazione della sentenza citata la Corte ha pure evidenziato che "la decadenza da un termine processuale, ivi compreso quello per impugnare, non può ritenersi incolpevole e giustificare, quindi, la rimessione in termini, ove sia avvenuta per errore di diritto. Tale errore sussiste, in particolare, allorché la parte decaduta dall'impugnazione per l'avvenuto decorso del termine di cui all'art. 327 c.p.c., si dolga della non tempestiva comunicazione della sentenza da parte della cancelleria, posto che il termine di cui all'art. 327 c.p.c., decorre dalla pubblicazione della sentenza mediante deposito in cancelleria, e non dall'omessa comunicazione da parte del cancelliere..."

Se ne può quindi concludere che tra i casi eccezionali di rimessione in termine non sono compresi gli errori di diritto, mentre rimane spazio per gli errori e/o sviste materiali di fatto, come per l'appunto è avvenuto nel caso di specie, ove soccorre in particolare una pronuncia emessa dalla S.C. in una fattispecie analoga di svista materiale.

Orbene, con la sentenza n. 14337/2014 la Corte di legittimità ha enunciato il principio secondo cui "in tema di notifiche, l'erronea indicazione del solo numero civico dell'indirizzo del difensore costituito destinatario dell'atto, che abbia determinato l'esito negativo della notificazione del ricorso per regolamento di competenza e, conseguentemente, il superamento del termine di decadenza per la sua proposizione, costituisce mero errore materiale e non provoca l'inammissibilità dell'impugnazione qualora la seconda notifica vada a buon fine entro un termine ragionevole (sottolineatura dell'estensore), non altrimenti abbreviarle, nella specie lo stesso giorno del ritiro dell'atto non notificato": v. Cassazione civile sez. VI 25 giugno 2014 n. 14337, che in motivazione precisa: "(...) Secondo il Procuratore Generale e la Società resistente sarebbe tale data - la sola riportata nel timbro apposto sull'atto da notificare - ad avere efficacia probatoria. Avendo la notificazione avuto esito negativo per causa imputabile al solo notificante, la data della prima consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario non può assumere rilievo (Sez. Un. 7607/2010).

Si deve però rilevare che, nel caso di specie, l'errore circa l'indicazione del corretto indirizzo si configura quale mero errore materiale, riguardante solo una cifra del numero civico. Inoltre la notifica era stata effettuata non ad un soggetto privato, ma all'avvocato costituito, verso il quale erano state dirette altre notifiche da parte del medesimo ufficio giudiziario ed il cui studio risulta ubicato sul medesimo lato della strada, quindi facilmente identificabile. Inoltre la seconda notifica, andata a buon fine, è stata effettuata nel medesimo giorno del ritiro dell'atto non notificato, e quindi in un termine ragionevole e non altrimenti abbreviabile. Per tali circostanze il ricorso è da ritenersi ammissibile".

Orbene, tenuto conto dei principi esposti, ritiene questa Commissione che nel caso di specie, in cui si tratta di impugnazione affetta da una svista materiale e 'corretta' da una successiva notifica dopo appena quattro giorni, risulta pienamente applicabile il principio di cui alla citata sentenza Cass. n. 14337/2014, per cui l'impugnazione contro l'avviso del 2009 è da ritenersi ammissibile.

Né, attesa la peculiarità della vicenda e il suo carattere invero 'eccezionale', possono condividersi le legittime preoccupazioni dell'Ufficio sulle conseguenze dannose derivanti dall’allontanamento dal dato testuale normativo sulla perentorietà dei termini d'impugnazione: trattasi di un caso del tutto isolato e difficilmente ripetibile in fatto.

Tanto premesso in rito, i ricorsi vanno respinti nel merito siccome palesemente infondati.

In ordine all’eccezione - chiaramente pretestuosa - del vizio di motivazione dell’avviso impugnato (motivo n. 1), si osserva che per giurisprudenza consolidata l’obbligo della motivazione dell'avviso di accertamento/contestazione mira a delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’ufficio nell'eventuale fase contenziosa ed altresì a consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa (v. per tutte Cassazione civile, sez. I, 12 novembre 1998, n. 11420; Cassazione civile, sez. I, 04 dicembre 1996, n. 10824).

Nella specie, gli atti impugnati si caratterizzano per una chiara ed analitica esposizione della pretesa tributaria, più che sufficiente a garantire l’esercizio di difesa della ricorrente ponendolo in ; condizione di contestare l'AN e il QUANTUM della pretesa fiscale: infatti la ricorrente, contestando in modo puntuale ed esaustivo la pretesa impositiva dell’ufficio, dimostra non solo di aver compreso perfettamente l’iter logico giuridico seguito dall’Amministrazione Finanziaria ma anche di essere stata messa in grado di esercitare al meglio il proprio diritto di difesa.

In particolare, gli avvisi espongono sia i fatti che la normativa violata (l’art. 25 DPR 600/73) negli anni in questione, vale a dire la corresponsione di compensi ad artisti stranieri non residenti che si sono esibiti in Italia; e mancata ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 30%.

Quanto poi, alla "contestazione arbitrariamente aggregata" (rappresentata dal fatto che l’Ufficio, dopo un sommario controllo della contabilità, avrebbe 'brutalmente' semplificato il proprio lavoro assumendo quale base imponibile per il calcolo delle ritenute non versate il conto di mastro "costi per organizzazione concerti"), secondo la ricorrente la ritenuta - sia essa a titolo di imposta o a titolo di acconto - è un prelievo operato sul singolo compenso e se si intende contestare l’omissione di tale prelievo occorrerebbe analizzare il singolo compenso: le ritenute seguirebbero una logica applicativa più simile a quella delle imposte indirette (atto per atto, operazione per operazione) che a quella delle imposte dirette (un’aliquota applicata su una somma aggregata, come il reddito). E siccome la contestazione dell’omissione della ritenuta presuppone la verifica che quel singolo pagamento sia riconducibile al tipo di transazione cui la norma riconduce l’obbligo di ritenuta, questa verifica andrebbe svolta caso per caso, perché operando come ha fatto l’Ufficio non sarebbe possibile capire se, in relazione al singolo pagamento di compensi, le concrete circostanze del contratto e dell’operazione economica realizzata imponessero la ritenuta o meno.

Si rileva in contrario che, a prescindere dal rilievo che non si rinviene nell’ordinamento tributario nessuna norma che vieti all’ufficio, pena addirittura l’illegittimità dell’atto impositivo, di porre a base dell’accertamento un "dato aggregato" (come definito dalla ricorrente), le argomentazioni in esame della ricorrente sono, oltre che errate nei presupposti, irrilevanti ai fini della dimostrazione dell'asserito vizio di motivazione dell’accertamento.

L’Ufficio infatti, dopo aver analizzato nel dettaglio - sia in sede di verifica sia a seguito della produzione documentale della contribuente - il conto di mastro denominato "acquisto gruppi/artisti", ha preso in considerazione, elencandole nel prospetto dell’accertamento, le autofatture contabilizzate nel predetto conto di mastro in quanto relative ai compensi corrisposti agli artisti stranieri su cui andava applicata la ritenuta del 30%.

Il dato aggregato pertanto non è altro che la sommatoria delle singole autofatture, previamente valutate ed analizzate, facenti parte, insieme ad altre fatture non rilevanti ai fini del controllo in esame e difatti non ricomprese nella base imponibile per il calcolo delle ritenute, del conto di mastro "acquisto gruppi/artisti"; autofatture che, come inequivocabilmente confermato da quella del 2009 relativa al gruppo "M." di cui si dirà più avanti, sono riferite ai compensi corrisposti dalla L. srl agli artisti o gruppi artistici stranieri che si sono esibiti in Italia.

E' quindi da escludere il dedotto profilo invalidante la motivazione degli accertamenti, dato che il 'modus operandi' dell’Ufficio è fortemente ancorato ai dati contabili dichiarati dallo stesso contribuente, che l’Ufficio ha solamente "raggruppato" per calcolare l’importo delle ritenute evase. Infondate si prospettano altresì le doglianze di merito di cui ai nn. 2), 3), 4) e 5), che si esaminano congiuntamente per la loro stretta connessione.

La ricorrente sostiene l'inapplicabilità nella specie dell'art. 25 DPR n. 600/73 sotto il profilo che i compensi in questione costituirebbero veri e propri ricavi di impresa per i musicisti stranieri e le loro compagnie di produzione. Siccome gli artisti della musica (al pari di quelle del cinema o dello sport) diventano praticamente delle aziende, composte da uno staff di personale (segretari, addetti stampa, uomini della sicurezza, assistenti personali, ecc. e nel caso specifico dei concerti rock si pone in essere una macchina colossale con sistemi audio che gestiscono enormi potenze sonore mediante strumenti sofisticatissimi del valore di centinaia di migliaia di euro, cioè un’industria che ; si muove in giro per il mondo e ingaggia persone del luogo "affinché mettano in contatto altre persone che dovranno aiutare, in loco, l’attracco e lo sbarco dell’astronave dello spettacolo" (pag. 10 ricorso n. 640/14), ne conseguirebbe che sono gli artisti (o, comunque, la loro "macchina") a decidere chi, come, quando e che cosa. I promoter locali, come A.P. e la sua L. S.r.l. sostanzialmente eseguono gli ordini. E’ del tutto ingenuo pensare che i M. o gli Iron Maiden "lavorino perii P.": è esattamente il contrario..."(ivi).

In questa prospettiva, secondo parte ricorrente il presupposto per operare una ritenuta risiederebbe nella condizione di "datore di lavoro", che nella sostanza non potrebbe attribuirsi alla L. s.r.l., in quanto nella specie "lavoratore" è quello che riceve l’incarico: le somme di denaro in gioco indicherebbero chiaramente chi abbia il reale potere contrattuale (l'artista) e sia in condizione di erogare compensi a coloro che, localmente, collaborano alla realizzazione dello spettacolo (nella specie la L., la quale fa parte dei promoter locali, che sarebbero meri accessori - sostituibili - nella realizzazione dello spettacolo, il loro utile 'marginale' essendo di vari ordini di grandezza inferiore agli incassi e alle spese, "..a dimostrazione del fatto che la società in larga parte "passa denaro" dal pubblico pagante (cioè gli incassi dei biglietti) agli artisti. In questo senso, svolge un ruolo di mandataria senza rappresentanza a riscuotere il prezzo del biglietto e il suo guadagno è del tutto marginale rispetto ai valori in gioco....", per cui " non è la L. ad ingaggiare le rockstar americane o inglesi e a pagarle milioni di euro; sono le rockstar ad ingaggiare la L. per svolgere la sua attività promozionale e relazionale in Italia e a pagarla qualche decina di migliaia di euro.." (ivi, pag. 12).

In definitiva, secondo la tesi - suggestiva e abilmente argomentata, ma totalmente priva di giuridico fondamento - della ricorrente la stessa non ha operato le ritenute, in quanto "si trattava non di compensi, ma veri e propri ricavi ottenuti dalle imprese di produzione degli artisti stranieri e come tali non riconducibili alla fattispecie dell’art. 25 in questione" (ivi, pag. 5).

Ma tutto il lungo argomentare di parte ricorrente su imprese, lavoratori autonomi e non, sulla parte forte del rapporto, ecc. frana di fronte al chiaro dettato normativo. Invero il citato art. 25, comma I del D.P.R. 600/1973 dispone che "i soggetti indicati nel primo comma dell'art. 23, che corrispondono a soggetti residenti nel territorio dello Stato compensi comunque denominati, anche sotto forma di partecipazione agli utili, per prestazioni di lavoro autonomo, ancorché non esercitate abitualmente ovvero siano rese a terzi o nell'interesse di terzi o per l'assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere devono operare all'atto del pagamento una ritenuta del 20 per cento a titolo di acconto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta dai percipienti, con l'obbligo di rivalsa".

Il successivo comma II del medesimo articolo dispone che "se i compensi e le altre somme di cui al comma precedente sono corrisposti a soggetti non residenti, deve essere operata una ritenuta a titolo d'imposta nella misura del 30 per cento, anche per le prestazioni effettuate nell'esercizio di imprese".

La norma non lascia certo spazio, nella sua estrema chiarezza, ad interpretazioni alternative: il soggetto straniero che svolge attività artistiche nel nostro Paese, sia sotto forma individuale, sia tramite impresa, va tassato in Italia, tramite ritenuta alla fonte; a meno che tale soggetto non abbia nel nostro territorio una stabile organizzazione (in quest'ultimo caso non si applicherà la ritenuta alla fonte ma dovrà essere direttamente la stabile organizzazione a dichiarare i propri redditi). Tale impostazione, già chiara a livello normativo nazionale, trova del resto conferma anche nell’art. del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni (riproposto nelle singole Convenzioni stipulate tra gli Stati contraenti), il quale prevede che i redditi che un residente di uno Stato contraente ritrae dalle sue prestazioni personali esercitate nell’altro Stato contraente in qualità di artista dello spettacolo, quale artista di teatro, del cinema, della radio o della televisione o in qualità di musicista nonché di sportivo sono imponibili in detto altro Stato".

Anche la giurisprudenza (v. per tutte Corte di Cassazione, Sez. I, 2 dicembre 1997 n. 4481) ha condiviso tale impostazione, con la conseguenza che non può sussistere dubbio alcuno sulla necessità di sottoporre a ritenuta i compensi per prestazioni artistiche, del genere di quelle che ne occupa.

Nel suo abile e dialettico argomentare il difensore della contribuente, dopo un’interessante quanto inconferente storia del rock e delle sue dinamiche, tenta di fondare giuridicamente il mancato versamento delle ritenute sotto l'ulteriore profilo che le menzionate ritenute non andavano operate in quanto non era la L. il "datore di lavoro" degli artisti internazionali, ma erano gli artisti internazionali che davano lavoro alla L..

Ma al di là di ogni dialettica difensiva la questione è di una lineare semplicità: la L. versava agli artisti i relativi compensi e su tali compensi, per espressa previsione normativa, andavano effettuate le ritenute.

Se poi gli artisti erano o meno delle rockstar milionarie, ciò non ha alcun rilievo se non relativamente all'entità dei compensi e, quindi, alle ritenute da versare: ciò di cui è del resto consapevole la stessa difesa della ricorrente quando finisce con l'ammettere che "non si vuole qui sostenere che un’artista che guadagna milioni di dollari o di euro sia sempre nel ruolo di datore di lavoro o di committente" (ivi, pag. 11), salvo poi ricadere nell'inconferente dissertazione sull’autonomia o meno nelle modalità di svolgimento della prestazione artistica.

E' del resto oltremodo significativa la circostanza che, a seguito di segnalazione da parte della Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate - Settore Internazionale Ufficio Scambio di Informazioni, è risultato che per compensi erogati al gruppo musicale statunitense "M." per concerti effettuati in Italia, la società F.I. (una di quelle imprese di produzione degli artisti citate dalla ricorrente) ha dichiarato alla competente autorità fiscale statunitense di aver subito una ritenuta pari a 147.500,00 € dal cliente italiano, esibendo al riguardo all’Amministrazione degli USA un’attestazione, formalmente proveniente dalla odierna ricorrente L. s.r.l. (v. all. 1 fase, di parte resistente).

In particolare, in tale attestazione, la L. s.r.l. dichiara di aver pattuito con la F.I. un compenso pari a 720.000,00 $, di aver applicato una ritenuta in misura pari a 218.000,00 $ e, pertanto, di dovere alla società statunitense, al netto della ritenuta, la somma di 504.000,00 $.

E' quindi inevitabile concludere, al di là di ogni acrobazia dialettica, che la L. s.r.l. sapeva benissimo di dover assoggettare i compensi corrisposti agli artisti stranieri a ritenuta, come ha in realtà fatto nei confronti dei "M." e del pari conseguentemente presumere che sia per l’anno 2008 (come provato documentalmente), sia per gli anni successivi la ricorrente ha operato le ritenute, trattenendole dai compensi erogati agli artisti stranieri senza poi versarle all’erario (e la conclusione non muterebbe se la L. srl non avesse in radice operato le ritenute).

Per ciò che concerne il requisito territoriale (e quindi l’obbligo dell’imposizione mediante ritenuta), esso sussiste per presunzione assoluta, cioè indipendentemente dal fatto che trattasi di redditi di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, d'impresa o diversi, per tutti i compensi corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso, relativi, in particolare a prestazioni artistiche o professionali effettuate, per conto dei sopra indicati soggetti residenti, da imprese, società ed enti non residenti [art. 23, comma 2, lettera d), del Tuir].

In sostanza, le prestazioni artistiche o professionali in senso oggettivo, indipendentemente quindi dalla natura del reddito conseguito dal prestatore - soggetto non residente - eseguite per conto di un committente residente, risultano, per espressa previsione normativa, territorialmente rilevanti: nella normativa in materia il presupposto territoriale viene completamente sganciato dalla natura che il reddito può assumere in relazione all'attività svolta dal percipiente estero.

La logica sottesa a questa impostazione è da ricercarsi nella natura dell'attività svolta che porta gli artisti stranieri a percepire elevati compensi con un ridotto soggiorno in Italia e conseguentemente comporta serie difficoltà pratiche nella tassazione.

Per evitare di entrare nel merito del comportamento dei singoli percettori del reddito la normativa italiana dispone, dunque, che, pur in assenza di una stabile organizzazione nel territorio italiano o di un periodo di permanenza minimo, i redditi conseguiti siano da considerare come imponibili nello Stato in cui la prestazione è effettuata, anziché in quello di residenza.

Per ciò che concerne infine la normativa internazionale sulle doppie imposizioni richiamate dalla ricorrente, la questione esula completamente dalla fattispecie oggetto di giudizio.

Rimarcando comunque 'ad abundantiam' che la doppia imposizione non riguarda né può riguardare la società ricorrente, si osserva che al fine di eliminare/attenuare la doppia imposizione internazionale dei redditi conseguiti dagli artisti il Commentario suggerisce di adottare il metodo del credito d’imposta, in base al quale il reddito di fonte estera conseguito dall’artista residente è comunque imponibile nello Stato di residenza, salvo il riconoscimento di un credito tendenzialmente pari alle imposte assolte all’estero sul medesimo reddito.

A mero titolo esemplificativo, l’art. 24 della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni (che poi ricalca il tenore della maggioranza dei Trattati bilaterali stipulati dall’Italia), prevede quale meccanismo per eliminare la doppia imposizione il credito d’imposta, così come espressamente previsto: "l’imposta italiana dovuta ai sensi della legislazione italiana conformemente alla presente convenzione, sia direttamente che per detrazione, sugli utili o redditi provenienti da fonti site in Italia ... è ammessa in deduzione dall’imposta del Regno Unito calcolata sugli stessi redditi per i quali è stata calcolata l’imposta italiana".

Laddove infatti un compenso percepito da un lavoratore residente di un altro Paese, a corrispettivo della prestazione artistica resa in Italia, venga assoggettato a tassazione sia in Italia (quale Paese della fonte) sia nello Stato di residenza, si verifica una potenziale doppia imposizione giuridica, per effetto di una potestà impositiva spettante:

- al paese di residenza dell’artista (ad es. il Regno Unito), che vanta il diritto di tassare la globalità dei redditi percepiti dal soggetto, in virtù del principio di tassazione su base mondiale, ivi compresi i compensi fatturati alla società italiana in relazione all'attività artistica prestata in Italia;

- allo Stato italiano, quale Paese della fonte (ossia dello Stato nel quale è svolta l’attività che genera i relativi redditi) che ha diritto di tassazione limitatamente ai compensi ivi percepiti dall’artista.

La predetta doppia imposizione (a carico, si noti, del percipiente estero, non certo dell’erogante italiano, a cui tali problematiche sono del tutto estranee) potrà essere eliminata nel Paese di residenza (nell’esempio fatto, il Regno Unito) attraverso il meccanismo del credito d’imposta per le imposte assolte in Italia sullo stesso reddito.

Posto del resto che niente è dato sapere delle modalità di tassazione dei redditi corrisposti dalla L. agli artisti nei rispettivi Paesi di residenza, il non riprendere a tassazione la mancata ritenuta rischierebbe oltretutto di concedere una totale mancata tassazione degli stessi redditi sia sul lato italiano (mancato versamento della ritenuta) che su quello estero (credito di imposta).

Il fatto comunque che, a fronte dell’avvenuta ritenuta (che, comunque, nel caso di specie, per ammissione della contribuente, non c’è stata) tale credito di imposta spetti o meno alla società o all’artista estero, come sopra anticipato, poco rileva ai fini che qui interessano, essendo semmai Questione di competenza dell’erario l’estero.

Come già prima evidenziato, in ogni caso la questione della ritenuta è in realtà un argomento che niente ha a che vedere con il contenzioso tra la L. s.r.l. e il Fisco italiano. Il credito di imposta di /cui si parla attiene infatti attiene alla eventuale doppia imposizione a carico del percipiente estero e non dell’erogante italiano (L.), a cui tali problematiche sono del tutto estranee.

Ciò che è sicuro è che nello Stato di prestazione dell’attività artistica deve essere effettuata (e versata) la ritenuta: solo questo rileva nel presente giudizio.

Privo di fondamento è anche il sesto e ultimo motivo, concernente l'applicabilità delle sanzioni.

In primo luogo, l’affermazione che le sanzioni non sarebbero applicabili per l’obiettiva incertezza del quadro normativo di riferimento è 'ictu oculi' smentita dalla chiarezza delle norme, interne e convenzionali, che regolano la fattispecie, secondo quanto sopra illustrato.

Infondata è anche l’ulteriore deduzione secondo cui le sanzioni sarebbero comunque da annullare, dato che, pur nella consapevolezza della riforma introdotta con l’art. 7 del DL 269/2003, il nome di una persona fisica che risponda di tali sanzioni deve comunque essere indicato, mentre nel caso di specie - asserisce la ricorrente - non sarebbe indicato l’autore della violazione.

Al di là dell’infondatezza in diritto dell’eccezione, si rileva in fatto che dalla sommaria lettura degli avviso di accertamento impugnati emerge che, sia nell’intestazione ("società L. Srl ... rappresentata dal Sig. P. A."), sia nella pag. 2 degli avvisi ("La Direzione Provinciale di Firenze ... avvisa il Signor P. A. ... nella qualità di rappresentante legale della L. Srl"), è indicato il nome dell'autore della violazione.

Quanto, infine alla ragione per cui l’ufficio non ha provveduto, per l'anno 2010, al calcolo del cumulo giuridico per la continuazione delle violazioni, come aveva invece fatto nei precedenti accertamenti per gli anni 2008 e 2009 ai sensi dell’art. 12 del D. Lvo n. 472/1997, la ragione è che - come spiega l'Ufficio - le violazioni contestate nel suddetto avviso di accertamento sono diverse da quelle contestate negli accertamenti per gli anni 2008 e 2009 per cui manca il presupposto - "violazioni della stessa indole" - per applicare la continuazione ex art. 12 D. Lvo n. 472/97.

Alla luce delle considerazioni svolte i ricorsi vanno respinti siccome infondati.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Respinge i ricorsi riuniti. Condanna la ricorrente a rifondere all'Ufficio le spese processuali che determina complessivamente in € 30.000,00.