Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 maggio 2015, n. 9977

Tributi - Reati fiscali - Evasione - Frode carosello - Fatture di vendita autoveicoli usati senza applicazione dell’IVA - False dichiarazioni d’intento attestanti la qualifica di esportatore abituale

 

Svolgimento del processo

 

In esito ad indagini penali svolte nei confronti dei rappresentanti legali e dei soci della Carrozzeria A. e figli s.a.s. veniva evidenziata una frode fiscale attraverso la emissione da parte della società di fatture di vendita di autoveicoli usati senza applicazione di IVA, in quanto supportate da false "dichiarazioni di intento" attestanti la qualifica di esportatore abituale delle società acquirenti. La polizia giudiziaria, delegata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Lecco, accertava che la catena di cessioni (frode carosello) tra la fornitrice A.M. Import - Export s.r.l. (che non versava l’IVA liquidata in fattura), la Carrozzeria A. s.a.s (che chiedeva il rimborso dell’IVA in rivalsa sull’acquisto e quindi rivendeva i veicoli senza applicazione IVA), le acquirenti E. di A.A. e F. s.r.l. (che rivendevano i veicoli ad un prezzo inferiore a quello di acquisto, oltre ad IVA -non versata all’Erario-, provvedendo a girare direttamente a Carrozzeria A. s.a.s gli assegni bancari ricevuti dai clienti finali), aveva consentito alla società contribuente di maturare un indebito credito IVA -di ammontare corrispondente al mancato versamento della relativa imposta da parte delle società della catena a monte ed a valle- che era stato chiesto a rimborso, nell’anno 2000, per il minore importo di €516.456,990.

L’Ufficio di Lecco della Agenzia delle Entrate, in base alle risultanze del PVC redatto dalla Guardia di Finanza il 21.9.2005, notificava in data 10.1.2005, alla società ed ai soci avviso di accertamento con il quale si contestava il diritto al rimborso del credito IVA, che veniva opposto da A.F.M., A.A. e da Carrozzeria A. e figli s.a.s., nelle more dichiarata fallita, con ricorsi rigettati dalla CTP di Lecco con decisione n.98/2006, confermata in grado di appello dalla Commissione tributaria della regione Lombardia con sentenza 6.5.2008 n.33.

I Giudici di appello osservavano che il condono tombale effettuato dalla società, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 289/2002, non era ostativo alla contestazione da parte della Amministrazione finanziaria del credito d’imposta chiesto a rimborso, giusta quanto affermato dalla Corte costituzionale nella ordinanza 27.7.2005 n. 340.

L’atto impositivo andava esente dal vizio di nullità in quanto motivava per relationem ad un PVC -redatto nei confronti delle altre società della catena- precedentemente notificato e fondato sulle stesse risultanze delle indagini svolte nel procedimento penale ; che avevano visti coinvolti anche i legali rappresentanti della società contribuente.

Nel merito la frode risultava comprovata da fatti accertati nella sentenza emessa dal Tribunale penale di Lecco, oltre che dalle verifiche svolte dall’Ufficio che confermavano la esistenza di collegamenti tra le varie società volti alla realizzazione della evasione fiscale.

Aggiungevano i giudici di merito che la qualità di socio accomandante di A.F.M., non lo esonerava da responsabilità per l’adempimento della obbligazione tributaria della società, se pure nei limiti della proria quota di partecipazione sociale.

La società dichiarata fallita, unitamente ad A.A. (già socio accomadatario), nonché A.F.M. (già socio accomandante) hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ritualmente notificati, iscritti rispettivamente al RG della Cancelleria di questa Corte al n. 12936/2009 (società e socio accomandatario) ed al n. 14074/2009 (socio accomandante), impugnando la medesima sentenza di appello con sei mezzi di identico contenuto, deducendo vizi di violazione di norme di diritto e vizi logici della motivazione.

Resiste in entrambi i giudizi la Agenzia delle Entrate con controricorso.

I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

 

Motivi della decisione

 

I giudizi iscritti al RG ai nn. 12936 e 14074 dell’anno 2009 debbono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., avendo ad oggetto distinte impugnazioni proposte nei confronti della medesima sentenza di appello emessa dalla CTR della Lombardia in data 6.5.2008 n. 33.

II primo ed il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto investono il medesimo capo di sentenza -concernente la inefficacia, in ordine alla contestazione ed al recupero di indebiti crediti d’imposta, della preclusione di nuovi accertamenti sui debiti fiscali condonati ex art. 9 della legge n. 289/2002-, denunciando sia il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. che il vizio di violazione dell’art. 9 comma 10 della legge 27.12.2002 n. 289, in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c..

Il primo motivo (art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) deve essere dichiarato inammissibile non avendo assolto i ricorrenti all’onere, imposto a pena di inammissibilità dall’art. 366 bis c.p.c. (norma applicabile ratione temporis), della "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione": tale adempimento integra un "quid pluris" rispetto alla illustrazione del motivo, così da consentire al giudice di valutare immediatamente la ammissibilità del ricorso stesso, e dunque non si identifica con il requisito di specificità del motivo ex art. 366 comma 1, n. 4) cod. proc. civ., ma assume l'autonoma funzione volta alla immediata rilevabilità del nesso eziologico tra la lacuna o incongruenza logica denunciata ed il fatto ritenuto determinante, ove correttamente valutato, ai fini della decisione favorevole al ricorrente (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 20603 del 01/10/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 11019 del 19/05/2011; id. Sez- 5, Sentenza n. 5858 del 08/03/2013).

Il secondo motivo è infondato sotto plurimi profili.

La tesi sostenuta dalla società e dai soci secondo cui il perfezionamento del condono cd. "tombale" previsto dalla legge n. 289/2002 impedirebbe alla Amministrazione finanziaria di contestare e recuperare crediti d’imposta indebitamente erogati, in quanto la disposizione dell’art. 9, comma 10, lett. a) della medesima legge preclude alla PA "ogni accertamento tributario" nei confronti del contribuente in relazione ai periodi di imposta ricompresi nella dichiarazione integrativa, si pone in palese contrasto con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che ha evidenziato come il condono fiscale pone il contribuente di fronte ad una libera scelta fra trattamenti distinti che non si intersecano fra loro, o coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo, ove del caso, i rimborsi di somme indebitamente pagate o comunque spettanti, oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata; ma senza la possibilità di riflessi o interferenze con quanto già corrisposto sulla linea del procedimento fiscale ordinario; ne discende che l'adesione del contribuente alle sanatorie fiscali previste dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289, è ostativa al rimborso del credito d’imposta asseritamente spettante e che, pertanto, l'Amministrazione deve disconoscere i crediti esposti nella dichiarazione relativa ad una annualità d'imposta oggetto di definizione agevolata (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 14828 del 05/06/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 22559 del 08/09/2008), ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 14828 del 05/06/2008).

Ed infatti il condono, tanto nelle ipotesi di cui all’art. 9, commi 9 e 10, quanto nelle ipotesi disciplinate dall’art. 15 e dall’art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, elide in tutto o in parte, per sua natura, il "debito fiscale", ma non opera sui "crediti" che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'ufficio (cfr., da ultimo: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 2597 del 05/02/2014; id. Sez. 5, Sentenza n. 20433 del 26/09/2014. Vedi Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 16339 del 17/07/2014, con riferimento al condono di cui all’art. 16 della legge n. 289/2002).

La interpretazione delle norme condonistiche fomite da questa Corte trova, peraltro, diretto fondamento nei principi in tema di condono fiscale indicati dal Giudice delle Leggi nella ordinanza 27.7.2005 n. 340, secondo cui, il comma 10 dell’art. 9 legge n. 289/2002, "preclude bensì l’accertamento dei debiti tributari dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non impedisce l’accertamento della inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti", venendo ad operare il criterio commutativo "dell’aliquid datum - aliquid retentum" che contraddistingue "l’accordo" ex lege tra contribuente e Fisco che si definisce con il perfezionamento della fattispecie condonostica, esclusivamente in relazione alla entità e tempestività del versamento del debito d’imposta, ovvero in relazione al debito per interessi ed alle sanzioni pecuniarie (costante è al riguardo la giurisprudenza di legittimità: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 14828 del 05/06/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 375 del 12/01/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 2597 del 05/02/2014), dunque esclusivamente sul "maggiore debito d’imposta" e non anche, invece, sul "credito d’imposta" eventualmente vantato dal contribuente, ovvero indebitamente rimborsato dall’Erario in difetto dei presupposti di legge.

La tesi difensiva sostenuta dai ricorrenti viene, in ogni caso, ad essere travolta dalla ritenuta incompatibilità della disposizione richiamata (art. 9 legge n. 289/2002) con l’ordinamento comunitario "in quanto comporta una rinuncia generale ed indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili in materia di IVA e, pertanto, integra un inadempimento agli obblighi che sullo Stato italiano incombono «in forza delle disposizioni dell’art. 2, n. 1, lettere a), c) e d), e degli arti. 193 - 273 della direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, 2006/112/CE, relativa al sistema d’imposta sul valore aggiunto, che hanno sostituito, dal 1 ° gennaio 2007, gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto; base imponibile uniforme, nonché dell’art. 10 CE» (sentenza 11 dicembre 2008, causa C-174/07; analogamente, la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06). Il rilevato contrasto con l’ordinamento comunitario comporta l’obbligo del giudice e dell’amministrazione finanziaria italiani di non applicare le norme nazionali relative al suddetto condono (in tal senso, espressamente, le pronunce della Cassazione civile, sezioni unite, dal n. 3673 al n. 3677 del 2010; sezione semplice, n. 24586 e n. 24587 del 2010). Da ciò discende la riespansione del potere accertativo dell’amministrazione finanziaria " (cfr. Corte cost. sentenza del 25.7.2011 n. 247; da ultimo cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 2915 del 07/02/2013), nonché l’assoggettamento del contribuente alle relative sanzioni pecuniarie (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 19546 del 23/09/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 22250 del 26/10/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 8110 del 23/05/2012)

Pertanto, il perfezionamento del condono ex art. 9 legge n. 289/2002 effettuato dalla società contribuente per l’anno d’imposta 2000 risulta del tutto irrilevante ai fini invocati dalle parti ricorrenti, permanendo comunque integro, in conseguenza della incompatibilità comunitaria della norma sul condono, il potere di accertamento in rettifica dell’Ufficio sulle dichiarazioni concernenti i predetti anni d’imposta.

Con il terzo e quarto motivo i ricorrenti censurano la sentenza di appello, per vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. nonché per violazione dell’art. 42 Dpr n. 600/73 e dell’art. 56 Dpr n. 633/72 in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., in ordine alla ritenuta legittimità della motivazione "per relationem" dell’avviso di accertamento. Sostengono i ricorrenti che il PVC in data 21.9.2005 si riferiva a risultanze di altro processo verbale redatto nei confronti di soggetto terzo (A.M. Import-Export s.r.l.) e che non era stato allegato all’avviso notificato alla società.

Premesso che il terzo motivo è inammissibile in difetto di adempimento dell’onere di formulazione della "sintesi del fatto controverso" prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., entrambi i motivi terzo e quarto si palesano inammissibili per carenza di autosufficienza in relazione all’art. 366 co l n. 6 c.p.c. e sono comunque infondati.

Quanto al difetto di autosufficienza, occorre osservare che la Corte deve essere in grado di acquisire dalla mera lettura del ricorso -e senza dover accedere ad atti del giudizio di merito, ivi inclusa la sentenza impugnata- una sufficiente conoscenza del fatto sostanziale che, se fondato su atti o documenti prodotti nel processo, impone alla parte ricorrente di trascriverne integralmente il contenuto in modo di consentire alla Corte di valutare immediatamente la ammissibilità e fondatezza del motivo dedotto (cfr. Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. VI sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. IlI sez. 4.9.2008 n. 22303; id. IlI sez. 31.5.2006 n. 12984; id. I sez. 24.3.2006 n. 6679; id. Corte cass. IlI sez. 25.2.2005 n. 4063; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav. 12.6.2002 n. 8388): censurando la sentenza di appello in punto di accertamento della legittimità della motivazione dell’avviso opposto, i ricorrenti, onde evidenziare l’errore commesso dalla CTR, avrebbero dovuto trascrivere il contenuto dell'atto tributario e del PVC notificati alla società, diversamente non essendo verificabile se la omessa allegazione del PVC redatto nei confronti di A.M. Import-Export s.r.l. abbia inficiato la validità dell’avviso, tenuto conto che, per giurisprudenza costante di questa Corte, l'avviso di accertamento (ed analogamente il PVC ad esso allegato o precedentemente notificato al contribuente) contenente nella sua giustificazione il riferimento ad atti procedimentali propri della fase istruttoria, se dotato di una motivazione strutturalmente indipendente da essi, è validamente notificato al contribuente anche senza l’allegazione degli atti menzionati (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 729 del 19/01/2010). L’obbligo di allegazione dell’atto richiamato "per relationem" trova, infatti, limite nella stessa ragionevolezza della norma, essendo stato al riguardo precisato che "in tema di motivazione "per relationem" degli atti d'imposizione tributaria, l’art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cosiddetto Statuto del contribuente), nel prevedere che debba essere allegato all'atto dell'amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non intende certo riferirsi ad atti di cui il contribuente abbia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione; infatti, un’interpretazione puramente formalistica si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell'interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause d'invalidità o d'inammissibilità chiaramente irragionevoli" (cfr. Corte cass. V sez. 2.7.2008 n. 18073; id. Sez. 5, Sentenza n. 15327 del 04/07/2014; id. Sez., 5, Sentenza n. 407 del 14/01/2015).

I motivi appaiono comunque infondati, avendo la CTR ritenuto raggiunta la prova della conoscenza da parte della società contribuente degli elementi fattuali posti a fondamento della pretesa fiscale, avendo l’avviso ed il PVC in data 21.9.2005 operato la "relatio" alle risultanze probatorie delle indagini penali svolte anche nei confronti di soggetti terzi, risultanze che erano ben note anche alla società contribuente essendo state rese note ai rappresentanti legali di Carrozzeria A. s.a.s., anteriormente alla notifica in data 10.1.2005 dell’avviso e del PVC, con la comunicazione della richiesta di rinvio a giudizio del PM e quindi del decreto del GUP in data 2.7.2004 con il quale veniva disposto il giudizio (e nel quale ai sensi dell'art. 429 co 1, lett. c) e d), c.p.p. sono enunciati in modo chiaro e preciso i fatti e le fonti di prova), circostanza questa non smentita dai ricorrenti.

Il quinto motivo con il quale viene dedotto il vizio di insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. è inammissibile, sia per omessa formulazione della chiara indicazione del fatto controverso, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., sia in quanto è errata la indicazione del parametro del sindacato di legittimità (nello svolgimento del motivo si censura la violazione dell’art. 2727 c.c., per illegittima applicazione della doppia presunzione, e dunque un errore attinente i limiti normativi della prova logica, denunciabile ai sensi dell’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.), sia ancora per difetto di autosufficienza ex art. 366 co 1 n. 3) c.p.c. atteso che i ricorrenti non specificano in alcun modo la contestata applicazione della doppia presunzione, limitandosi a rilevare che l’avviso ed il PVC motivavano per relationem ad altro verbale di constatazione emesso nei confronti di A.B. Import-Export s.r.l. e che gli elementi indiziari raccolti (A.B. non aveva tenuto regolare contabilità e non aveva versato l’IVA) erano privi dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., allegazioni del tutto inconferenti rispetto alla censura di violazione del divieto di doppia presunzione.

Con il sesto motivo, articolato in plurime censure, i ricorrenti denunciano il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione ai sensi dell'art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. , contestando la valutazione degli elementi probatori compiuta dai Giudici di appello, in relazione alla mancanza di concludenza degli indizi relativi a condotte illecite imputabili a soggetti terzi.

Il motivo è inammissibile, in relazione a tutte le plurime censure di vizio logico, non avendo assolto i ricorrenti all’onere di formulazione della "chiara indicazione del fatto controverso" richiesto dall’art. 366 bis c.p.c..

In conclusione entrambi i ricorsi proposti dalla società fallita ed A.A., nonché da A.F.M. debbono essere rigettati con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

- dispone ai sensi dell’art. 335 c.p.c. la riunione delle cause iscritte al RG ai nn. 12936 e 14074 dell’anno 2009;

- rigetta i ricorsi proposti dalla società fallita ed A.A., nonché da A.F.M.;

- condanna i ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 13.000,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito.