Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 aprile 2015, n. 7632

Lavoro - Contratto a termine - Conversione in contratto a tempo indeterminato per nullità del termine - Disciplina di cui all'art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 - Inapplicabilità

 

Svolgimento del processo

 

G. D. - assunto con c.a t. dalla soc. BBC con scadenza al 22.4.2002 quindi prorogata, ma solo il 16.06.2002 ben dopo la scadenza stessa, sino al 21.07.2002 - sull'assunto che il c.a t. si era convertito, in forza della protrazione del rapporto dopo la scadenza e della inefficacia della proroga successiva ad essa, in un rapporto a tempo indeterminato, impugnò innanzi al Tribunale Giudice del Lavoro di Chieti il "licenziamento" del 21.07.2002 e chiese l'applicazione delle (sole) sanzioni risarcitorie di legge (avendo egli medio tempore reperito altra occupazione).

Il Tribunale con sentenza 14.02.2006 accolse la domanda e condannò B.B.C. a versare al G. 15 mensilità di retribuzione.

La sentenza venne appellata in via principale dalla società ed incidentale dal G. (che deduceva non esservi stata pronunzia sulle sanzioni ex art. 18 S.L., pur chieste) e la Corte di Appello de L'Aquila con sentenza 20.03.2008 ha bensì dichiarato illegittima la risoluzione del rapporto ma ha respinto ogni pretesa risarcitoria ed indennitaria.

Ha affermato la Corte in motivazione: che la proroga era stato dimostrato essere stata impartita e concordata ben dopo la scadenza del primo c.a t., che pertanto il rapporto si era convertito in rapporto a tempo indeterminato, che nondimeno, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, la disdetta non si traduceva in alcun "licenziamento" e tampoco essa era sindacabile alla stregua dell'art. 18 S.L., restando soltanto in vita quel rapporto, non terminato da alcun atto efficace, che ne conseguiva la permanenza della obbligazione retributiva dalla costituzione in mora alla solutio, che però nella specie il G. aveva costituito in mora BBC il 12.09.2002 ma già il 23.9.2002 aveva iniziato a lavorare per altri, disattendendo pertanto la tempestiva offerta datoriale di ripristino occorsa l'il.10.2002, che pertanto nulla spettava.

Per la cassazione della sentenza, notificata il 13.06.2008, ha proposto ricorso il G. con atto 28.07.2014 fondato su quattro motivi, ai quali BBC ha opposto difese in controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Il Collegio ha autorizzato la redazione di motivazione in forma semplificata.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso - non essendo meritevoli di condivisione i motivi che lo compongono - deve essere rigettato.

Primo motivo: denunzia violazione degli artt. 18 legge 300/70, 5 d.lgs. 368/01 e 1418 c.c. per avere la Corte mancato di considerare che in realtà l'allontanamento era intercorso in virtù non dell'operare della prevista scadenza ma sulla base della comunicazione data al G. di non presentarsi più dopo il 21.07.2002 perché non vi era più lavoro.

Secondo motivo: esso, collegato al primo, deduce quale omessa motivazione la questione della portata e natura della comunicazione verbale 21.07.2002 la cui insufficiente valutazione sarebbe stata addebitabile alla sentenza d'appello: se il primo giudice aveva infatti ritenuto tal atto comunicativo un vero e proprio licenziamento, la Corte territoriale apodittica mente gli aveva negato contenuto negoziale riconducendolo a mera comunicazione dell'operare della fine lavoro.

I due motivi, connessi, vanno esaminati congiuntamente ed assieme respinti per infondatezza. Non è affatto escluso - rammenta il Collegio - che un rapporto di lavoro a termine, convertito, in forza della nullità della proroga, in rapporto sine die possa vedere sovrapporsi un anticipato atto di recesso indipendente dalla prevista (pur invalidamente) scadenza, in ipotesi per ragioni soggettive o di carattere organizzativo.

Ma le censure dimenticano che la Corte di merito ha interpretato la disdetta alla (originaria) scadenza, ed in forza del suo intervenire proprio alla data della scadenza, esattamente per quello che era e cioè l'atto di comunicazione della volontà di non ricevere più le prestazioni, atto idoneo a costituire l'Impresa, ove ex adverso comunicata la giusta richiesta di protrarre le prestazioni, in mora solvendi.

Quanto alla precisazione delle ragioni di impresa pur partecipate verbalmente (la cessione del punto di vendita ) esse sono state dalla Corte di merito lette non già come esternazione di un autonomo recesso bensì, in modo affatto coerente con la premessa, cioè come un chiarimento verbale alla indisponibilità di altro lavoro dopo la cessazione del contratto, un chiarimento "di cortesia" ma, per quel che rileva, affatto ultroneo in un quadro nel quale il rapporto puramente e semplicemente, dopo la proroga nulla, permaneva.

Le censure, dunque, non riescono ad evidenziare errori in diritto né tampoco fratture logiche nel percorso seguito dalla Corte nell'interpretare la portata della estromissione del dipendente e pertanto non riescono a configurare un atto di licenziamento la cui invalidità avrebbe comportato l'applicazione della tutela ex art. 18 S.L.

Terzo e quarto motivo: coerenti con le prime due censure, tali motivi contestano che non si siano ritenute adottabili le sanzioni ex art. 18 S.L. e pertanto chiedono la applicazione della misura minima risarcitoria delle cinque mensilità. Le doglianze - una volta negato ingresso ai primi due motivi - restano travolte dalla stessa sorte. Va però osservato che la loro formulazione neanche consente di addivenire (come sollecitato dal P.G., ma non dal difensore nella memoria ex art. 378 c.p.c.) all'applicazione dello ius superveniens costituito dalla dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, c. 5 che prevede che in caso di conversione del conversione del rapporto a tempo determinato il giudice condanni il datore di lavoro al risarcimento del danno stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. Cass. Ord. n. 2112 del 2011, Sez. L, Sent. n. 1409 del 2012, Sez. L, Sent. n. 26840 del 2013, Sez. Lav. Sent. n. 14278 del 2014) e che ha superato il vaglio della Corte Costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto n. 303 del 2011. Tale disposizione, così come sopra interpretata, non può essere applicata nel caso in esame ed ex officio, non essendo stata questa Corte investita al riguardo da un valido e pertinente motivo di ricorso attinente la quantificazione dell'indennità risarcitoria, idoneo a impedire che sulla esclusione di alcun risarcimento da parte della sentenza in esame possa formarsi il giudicato (da ultimo Cass. 339 e 359 del 2015).

Ed infatti, al diniego di risarcimento statuito dalla Corte territoriale per assenza di "danno risarcibile" si è contrapposta censura in sede di legittimità che non contesta tale esclusione in quanto illegale (rispetto alle premesse della mora solvendi) o iniqua per la esistenza di un danno anche solo differenziale (sì da pervenire quantomeno alla liquidazione del ristoro minimo di due mensilità e mezza) ma che, come dianzi visto, predica la necessità di accordare la tutela risarcitoria imposta dalla natura di licenziamento della disdetta e quindi neanche scalfisce l'autonomo capo afferente il diniego del risarcimento, pertanto coperto da forza di giudicato.

Dal rigetto segue la condanna del ricorrente alla refusione delle spese.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a versare alla soc. BBC contro ricorrente per spese del giudizio € 3.600 (di cui € 100 per esborsi) oltre il 15% sui compensi per spese generali ed oltre ad accessori di legge.