Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 aprile 2015, n. 6957

Tributi - Imposte dirette ed IVA - Dichiarazione infedele - Imposta inferiore di un decimo a quella dovuta - Evasione effettiva - Necessità - Esclusione - Punibilità - Sussiste - Computo in detrazione del credito IVA maturato - Sanzione di cui all’art. 43, d.P.R. n. 633 del 1972 - Applicabilità

 

Ritenuto in fatto

 

1. A seguito di controllo della dichiarazione IVA per l'anno 1993 della Soc. P. M., il Fisco ha rilevato l'erroneo riporto di un credito IVA maturato in misura superiore a cento milioni di lire nell'anno 1992 e, ritenendolo illegittimo a mente dell'articolo 11 del D.L. n.455 del 1992 (decaduto e reiterato con D.L. n. 16 del 1993 conv. L. n. 75 del 1993), lo recuperava unitamente alle sanzioni, potendo la contribuente accedere soltanto al rimborso (in titoli di Stato) previsto per i contribuenti che nell’anno 1992 hanno registrato importazioni da Paesi membri della CEE in misura superiore al 10% dell'ammontare complessivo degli acquisti e importazioni di beni e servizi registrati nel corso dello stesso anno e che nella dichiarazione IVA hanno evidenziato un credito d’imposta non inferiore a cento milioni di lire.

2. L'impugnazione della contribuente, limitata alla sola irrogazione di sanzioni ex articolo 43 del D.P.R. n. 633 del 1973 (ndr articolo 43 del D.P.R. n. 633 del 1972), è stata accolta in prime cure con decisione che, appellata dall'Ufficio, è riformata dalia Commissione tributaria regionale della Lombardia, giusta sentenza del 3 maggio 2006.

I giudici d'appello riconoscono dovuta, in forza del solo secondo comma del citato articolo 43, unicamente la sanzione di lire 181.292.000, restando non dovuta quella di cui al terzo comma così come riconosciuto in appello dal Fisco medesimo.

Motivano la loro pronunzia ritenendo che l'illecito tributario sanzionato dal secondo comma del ridetto articolo 43, non concretizza necessariamente una evasione d'imposta, bastando la semplice evidenziazione nella dichiarazione dì una minore imposta o di una maggiore eccedenza, indipendentemente da un danno effettivo per l'Erario.

Aggiungono che non si tratta di violazione meramente formale e che non può essere messo in discussione l'elemento soggettivo dell'illecito commesso (dolo o colpa), avendo la società contribuente chiesto in dichiarazione il rimborso dell'imposta indetraibile ed essendo quindi pacificamente consapevole della speciale procedura prevista dall'articolo 11 del D.L. n. 455 del 1992.

3. La società propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, ai quali l'avvocatura erariale resiste con controricorso.

La causa perviene all'odierna pubblica udienza a seguito di rinvii a nuovo ruolo disposti con ordinanze del 17 settembre 2008 e del 3 giugno 2013.

 

Considerato in diritto

 

3. Il ricorso non è fondato.

La società contribuente si affida a due motivi di censura, l'uno per vizio di motivazione, riguardo all'errato accertamento circa la presentazione anche di una richiesta di rimborso, l'altro per violazione degli articoli 30 e 43 del D.P.R. n. 633 del 1972.

In particolare, con il secondo mezzo, la ricorrente sostiene che nella specie sarebbe applicabile la più lieve sanzione per le violazioni formali, prevista dal terzo comma del citato articolo 43, e non la più grave sanzione proporzionale prevista dal terzo comma, non trattandosi d'infedele dichiarazione per indebita detrazione ma solo d'immediata utilizzazione (riporto) di un credito IVA legittimo e non contestato, senza alcun pericolo di duplicazione di credito non avendo mai chiesto il rimborso di cui erroneamente parla la Commissione regionale.

4. L'avvocatura erariale resiste con controricorso adducendo, riguardo al primo mezzo, (a) l'assenza di una vera e propria ratio decidendi fondata sull'errata affermazione dell'esistenza di una richiesta di rimborso e, riguardo al secondo mezzo, (b) la giurisprudenza di legittimità sull'infedele dichiarazione in fattispecie analoga, nonché (c) il rilievo che l'interesse sostanziale tutelato è quello d'impedire la detrazione immediata, di consentire il solo rimborso e di prevenire duplicità di crediti verso il Fisco.

5. Preliminarmente, si rileva la carenza di legittimazione processuale dell'altro soggetto evocato dalla ricorrente dinanzi a questa Corte, il Ministero dell'economia e delle finanze, che non è stato parte nel giudizio di secondo grado ed è oramai estraneo al contenzioso tributario dopo la creazione delle agenzie fiscali.

La chiamata ministeriale in cassazione è, dunque, inammissibile e il ricorso della contribuente va esaminato unicamente riguardo all'Agenzia delle entrate, che è la sola a essere legittimamente intimata.

6. Il primo mezzo è inammissibile.

La società ricorrente trascura che, nel vigore dell’articolo 366-bis cod.proc.civ., il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, proposto ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., deve essere accompagnato da un momento di sintesi che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Il motivo, cioè, deve contenere - a pena d'inammissibilità un'indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all'illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente l'ammissibilità del mezzo (Cass. Sez.U, n. 12339 del 2010). Nulla di tutto ciò è leggibile nel caso di specie.

5. Il secondo mezzo è Infondato.

L’articolo 11 del D.L. 23 gennaio 1993, n. 16 (conv. in legge 24 marzo 1993, n. 75) stabilisce il divieto - nei confronti dei contribuenti che hanno registrato nell'anno 1992 Importazioni dai Paesi membri della Comunità europea in misura superiore al 10% dell'ammontare complessivo degli acquisti e importazioni di beni e servizi registrati nel corso dello stesso anno e che nella dichiarazione IVA evidenziano un credito d'imposta non inferiore a cento milioni di lire - di computare tale credito d'imposta in detrazione negli anni successivi.

Di esso, infatti, si può chiedere per legge esclusivamente il rimborso, effettuabile però con titoli di Stato.

Però la Corte di giustizia, pronunziando con decisione del 25 ottobre 2001 (C- 78/00) solo sul punto specifico del rimborso effettuabile solo con titoli di Stato, sancisce:

«La Repubblica Italiana ha violato il disposto degli artt. 17 e 18 della sesta direttiva del Consiglio n. 77/388/Cee, laddove è previsto, ai sensi del D.L. n. 16 del 1993, art. 11, commi 1 e 2, il rimborso dell'eccedenza di IVA mediante l'assegnazione di titoli di Stato, peraltro, consegnati tardivamente, per una categoria di contribuenti in credito d'imposta in relazione all'anno 1992. Le modalità di rimborso del credito, infatti, devono consentire al soggetto passivo di recuperare la totalità del credito stesso entro un termine ragionevole, con il pagamento di somme liquide di denaro, ovvero in un modo equivalente e, in ogni caso, senza far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo».

6. Orbene, pacifica la vigenza della peculiare disciplina di particolari crediti IVA per l’anno 1992, il contrasto con la normativa comunitaria è rilevato dalla Corte di giustizia solo per la forma di rimborso in titoli di Stato; sicché residua comunque il divieto di computare tali importi in detrazione negli anni successivi, potendo il contribuente avvalersi della procedura di rimborso, però solo in denaro (e non più in titoli di Stato). La violazione di tale divieto concreta, secondo questa Corte di legittimità, la fattispecie d'infedele dichiarazione prevista dall'articolo 43, secondo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (applicabile ratione temporis), per la cui realizzazione è sufficiente la volontarietà del dato infedele - ravvisabile nell'ipotesi considerata - indipendentemente dall'intenzione di frodare il fisco e dalla verificazione di un danno per l'amministrazione. (Cass. Sez. 5, n. 10768 del 2006).

La giurisprudenza sul secondo comma dell'articolo 43 in generale (e con riferimento a fattispecie diverse dal citato articolo 11) è ampiamente consolidata e individua una violazione di pericolo astratto.

Tale disposizione, infatti, deve trovare applicazione tutte le volte in cui dalla dichiarazione presentata risulti un'imposta inferiore di oltre un decimo a quella dovuta, ovvero una eccedenza detraibile o rimborsabile superiore di oltre un decimo a quella spettante, senza che occorra che in concreto la dichiarazione inesatta abbia determinato un'evasione dell'imposta ovvero il conseguimento di un rimborso indebito, ed indipendentemente dall'intenzione di frodare il fisco. (Cass. Sez. 5, n. 13502 del 2012; conf.: n. 214 del 2002 e n. 20070 del 2005).

7. Nel caso in esame non si controverte del recupero del riporto a credito non consentito, poiché sul punto l'atto impositivo non è stato impugnato dalla contribuente, ma solo della sanzione per infedele dichiarazione.

Questa Corte, pronunziando sul citato articolo 11 riguardo al similare tema degli Interessi sul credito risultante dall'infedele dichiarazione annuale IVA, ritiene che la questione degli accessori esorbita dal problema della compatibilità con la normativa comunitaria della forma prescelta ai fini dell’estinzione del credito decisa dalla Corte di giustizia (Cass. Sez. 5, n. 18424 del 26/10/2012).

Ad analoghe conclusioni di deve giungere anche riguardo alle sanzioni amministrative per l'infedele dichiarazione IVA. Secondo una costante giurisprudenza delle Corte di giustizia, in mancanza di armonizzazione della normativa dell'UE nel settore delle sanzioni applicabili in caso di inosservanza delle condizioni previste da un regime istituito da tale normativa, gli Stati membri possono scegliere le sanzioni che sembrano loro appropriate. Essi sono tuttavia tenuti a esercitare la loro competenza nel rispetto del diritto dell'Unione e dei suoi principi generali e, di conseguenza, nel rispetto del principio di proporzionalità (cfr. sentenze: C-68/88 del 21/09/1989; C-210/91 del 16/12/1992; C-36/94 del 26/10/1995; C-263/11 del 19/07/2012).

Questa Corte di legittimità, esaminando il similare tema del trattamento sanzionatorio previsto dal comma 9-bis dell'articolo 6 del D.Lgs. n. 471 del 1997, chiarisce che esso realizza un giusto contemperamento fra gli interessi finanziari dello Stato e quelli del contribuente inadempiente, non perpetuando alcuna lesione di principi comunitari di proporzionalità ed adeguatezza, come di recente ribadito dalla Direzione generale fiscalità e unione doganale presso la Commissione europea nella nota del 5 novembre 2011 (Cass. Sez. 5, n. 8038 del 2013).

8. In conclusione, la sentenza d'appello, che si è conformata a principi della giurisprudenza nazionale ampiamente consolidati e non contrastanti con gli orientamenti eurounitari, deve essere confermata col rigetto del ricorso della parte contribuente. Le spese dei presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della contribuente e sono liquidate in dispositivo a favore dell'Agenzia controricorrente; mentre possono essere compensate nel rapporto processuale con il Ministero pure controricorrente, la cui partecipazione al processo di cassazione non ha comportato un particolare aggravio difensivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze e lo rigetta nei confronti dell'Agenzia delle entrate. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità liquidate, a favore dell'Agenzia delle entrate, in € 3800,00 per compensi oltre alle spese prenotate a debito; dichiara integralmente compensate le spese riguardo al rapporto processuale col Ministero dell'economia e delle finanze.