Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 maggio 2015, n. 9615

Laoro - Licenziamento - Impiegato amministrativo - Assegni detenuti illegittimamente - Violazione del dovere di diligenza - Addebito disciplinare

 

Svolgimento del processo

 

La Corte di Appello di Napoli, confermando la sentenza del Tribunale di Napoli,accoglieva la domanda di (...) proposta nei confronti della (...) d'impugnativa del licenziamento intimatogli, in data 16 marzo 1998, dalla predetta società per essersi impossessato illegittimamente, negli anni 1994-1995, di assegni quando svolgeva le mansioni d'impiegato amministrativo presso i centri di liquidazione danni di Napoli.

A fondamento del decisum la Corte del merito poneva il rilievo fondante secondo il quale la contestazione, che faceva riferimento all'impossessamento, avvenuto negli anni 1994-1995, di un centinaio di assegni, era in quanto priva della specificazione delle circostanze concrete, dei tempi precisi degli eventi e delle persone che avrebbero permesso e concorso al realizzarsi delle condotte generica e non permetteva un adeguato esercizio del diritto di difesa. Conseguentemente, secondo la predetta Corte il licenziamento doveva ritenersi illegittimo con tutte le conseguenze giuridiche ed economiche di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970.

Avverso questa sentenza la nominata società ricorre in cassazione sulla base di un unico articolato motivo, cui segue la riproposizione delle ragioni di legittimità del licenziamento.

Resiste con controricorso la parte intimata.

La società deposita memoria illustrativa.

 

Motivi della decisione

 

Con il ricorso la società in epigrafe, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7, comma 2, e dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 nonché vizio di motivazione "su punto" decisivo della controversia, sostiene che la lettera di contestazione non era affatto generica ed il suo contenuto ha consentito al lavoratore di difendersi adeguatamente.

Assume, poi, la società, in punto di vizio motivazionale, che la sentenza è irragionevole perché non considera che la contestazione non poteva essere, per il tipo di condotta, più specifica, e non valuta il contenuto delle giustificazioni del lavoratore.

Il ricorso è infondato.

Costituisce, invero, giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio secondo il quale la previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che risulta integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cc e il relativo accertamento costituisce oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (V. per tutte Cass. 3 febbraio 2003 n. 1562 e Cass. 23 agosto 2004 n. 16584 e, da ultimo, Cass. 15 maggio 2014 n. 10662).

Nel caso in esame la Corte del merito si è strettamente attenuta a siffatto principio e con accertamento di fatto, supportato da corretta e logica motivazione, come tale sottratta al sindacato di questo giudice di legittimità, ha ritenuto che la contestazione non conteneva i riferimenti necessari per individuare i fatti contestati nelle loro singole materialità, sì da consentire al lavoratore una adeguata difesa.

Né la circostanza che il lavoratore abbia negato la commissione dei fatti addebitati può di per sé indurre, diversamente da quanto prospettato dalla società ricorrente, a diverse conclusioni potendo, in tesi, una addebito specifico, facente riferimento a tutte le circostanze del caso, consentire al lavoratore una difesa più adeguata permettendogli di controdedurre efficacemente sulle singole circostanze relative ai vari episodi contestati ed indurre, in tal modo, il datore di lavoro ad un più ponderata valutazione dell'opportunità di risolvere il rapporto di lavoro.

Il ricorso sulla base delle esposte considerazioni, in conclusione, va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese giudiziali liquidate in €. 100,00 per esborsi ed €. 3.500,00 per compensi oltre accessori di legge.