Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 maggio 2015, n. 9802

Lavoro subordinato - Licenziamento - Immediata contestazione - Addebito disciplinare - Sussiste

 

Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza depositata in data 4/10/2011, la Corte d'appello di Roma rigettava l'appello proposto da A.V. contro la sentenza resa dal Tribunale della stessa sede, che aveva rigettato la domanda dell'appellante tesa ad ottenere la declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento intimatogli in data 21/11/2006 dalla B. s.p.a. (d’ora in poi, B), sua datrice di lavoro, con i conseguenti provvedimenti reintegratori e risarcitori ex art. 18 l. n. 300/1970.

2. La Corte territoriale, muovendo dalla premessa che i fatti posti a base degli addebiti - e costituiti da una abnorme movimentazione di conti correnti intestati al lavoratore o a suoi familiari, e consistente in versamenti ed emissioni di assegni, addebiti e accrediti per giroconto sui vari conti, e finalizzata ad un'attività di finanziamento di soggetti economici per lo più in difficoltà finanziarie - erano stati acclarati, escludeva che fosse stato violato il principio della immediatezza della contestazione, dal momento che la scoperta e l’accertamento dei fatti avevano reso necessarie complesse indagini. Riteneva inoltre che i fatti contestati configurassero giusta causa di licenziamento, il quale era da ritenersi proporzionato alla loro gravità. Aggiungeva che il ricorrente nulla aveva osservato in ordine alle previsioni di cui all'articolo 32 del C.C.N.L. del 2005 in tema di disciplina e dignità, nonché degli artt. 11 e 12 del codice deontologico e della circolare n. 40 del 1999 della B.

3. Contro la sentenza, il V. ricorre per cassazione sulla base di sei motivi, cui resiste con controricorso la B. Le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 7 della legge n. 300/1970, 1 e 5 della legge n. 604/1996 e 2119 c.c., 24 Cost., 1375 e 1175 c.c., 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c., nonché dell’art. 1362 e ss. c.c. anche in relazione all'art. 38 del C.C.N.L. per il personale delle aziende di credito del 12/2/2005, nonché per la errata valutazione delle risultanze istruttorie e delle prove documentali. In particolare si duole del giudizio della Corte territoriale in ordine alla tempestività della contestazione disciplinare, trattandosi di fatti risalenti al gennaio 2001 e protrattisi fino al giugno del 2006 e dei quali la B. era venuta a conoscenza il 16 marzo 2006 (attraverso una segnalazione della Direzione auditing della B., circa l’esistenza nell'area territoriale Lazio di una serie di conti intestati a personale della B., caratterizzati da movimentazioni anomale); che solo con la lettera del 22 giugno 2006 era stato disposto uno specifico accertamento sulle operazioni eseguite da esso ricorrente sui suoi conti correnti; che esso si era concluso nell’ottobre del 2006, cui era seguita in data 23/10/2006 la contestazione disciplinare. Secondo il ricorrente, oltre ad essere inverosimile che l'azienda avesse conosciuto i fatti solo nel marzo 2006, in ogni caso, il tempo trascorso tra tale data e l'avvio delle indagini (circa tre mesi) costituiva un ingiustificato ritardo, in violazione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione de! rapporto di lavoro. Il ritardo della contestazione disciplinare aveva determinato l'illegittimità della sanzione irrogata, per la violazione degli art. 7 l. n. 300/1970, 1175 e 1375 c.c. Sempre nell’ambito dello stesso motivo, evidenzia che la violazione delle norme citate emergeva anche dal fatto che la B. non aveva ritenuto di adottare nei suoi confronti una misura cautelare, come l'allontanamento temporaneo dal servizio e per il tempo strettamente necessario alle indagini.

2. Con il secondo motivo prospetta gli stessi fatti sotto il profilo del difetto e illogicità manifesta della motivazione, oltre che per la sua illegittimità, essendosi la Corte territoriale adeguata alla sentenza di primo grado per relationem, senza motivare il perché avesse ritenuto necessari sei mesi per svolgere indagini, laddove si trattava semplicemente di mettere in luce operazioni su conti correnti inseriti "a sistema".

3. Con il terzo motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione di tutte le norme già indicate con il primo mezzo (con esclusione degli artt. 1375, 1175 c.c. e 1362 c.c.), sotto il profilo del mancato assolvimento da parte della B. dell’onere di provare che i fatti a lui contestati erano diretti ad un'attività di finanziamento di soggetti economici estranei alla B., dal momento che tutti testi avevano dichiarato che i prestiti ricevuti e, in genere, le operazioni fatte con esso ricorrente erano avvenute a titolo di mera cortesia o amicizia e che non avevano corrisposto alcun corrispettivo, il che doveva condurre ad escludere l'esistenza di un’attività di finanziamento.

4. Con il quarto motivo denuncia il difetto di motivazione sulla sussistenza del fatto contestato.

5. Con il quinto motivo denuncia la violazione, oltre che delle norme già in rassegna nel primo e nel terzo motivo di ricorso, degli artt. 1362 seguenti c.c., in relazione agli artt. 30, 32, 35, 38, 68 del C.C.N.L. per il personale delle aziende di credito del 12/2/2005, la violazione dell'art. 2697 c.c. e degli art. 115 e 116 c.p.c., anche in relazione al d.lgs. n. 196/2003 e al Testo Unico bancario n. 385/1993, sotto il profilo della insussistenza della giusta causa, della sproporzione tra i fatti contestati e la misura adottata, dell’erronea interpretazione delle risultanze probatorie. In particolare, sul presupposto che i fatti non costituivano un'attività di finanziamento illecito, ma si era trattato solo dell'apertura di una pluralità di conti correnti consentita dalla B., la valutazione circa la gravità della condotta sotto il profilo della giusta causa e la ritenuta proporzione era da ritenersi del tutto lacunosa, non avendo la Corte territoriale considerato che: a) egli non era mai stato oggetto di precedenti contestazioni disciplinari; b) la sua attività non violava disposizioni penali in materia di riciclaggio, mai a lui contestate; c) la B. non aveva subito alcun danno dalla sua condotta, ma, piuttosto, aveva tratto vantaggio dal transito di danaro sui suoi conti; d) l'attività posta in essere dalla B. acquisendo e utilizzando elementi illecitamente acquisiti, costituiva violazione delle norme sul testo unico in materia bancaria nonché in materia di privacy, essendo state effettuate senza una sua preventiva autorizzazione. Quanto al codice deontologico e alla circolare della B. che egli non avrebbe censurato in sede di appello, osserva che tali documenti non gli erano mai stati comunicati.

6. Con il sesto motivo denuncia l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sulle stesse questioni sopra illustrate, riguardanti la mancanza di proporzionalità tra infrazione e sanzione ed il giudizio sulla gravità dell'inadempimento ascrittogli.

7. I primi due motivi si esaminano congiuntamente, in ragione della connessione che li lega.

8. Va preliminarmente rilevato che il primo motivo, al di là della sua intestazione contenente censure di violazione di legge, in realtà, nel corpo, si sostanzia in una contestazione dei risultati cui è pervenuta la Corte territoriale a seguito della valutazione delle risultanze istruttorie: più propriamente, esso contiene censure inquadrabili nell'ipotesi di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c. Se ciò non preclude il suo scrutinio, non impedisce una sua valutazione in termini di inammissibilità nella parte in cui prospetta le censure sotto il profilo della violazione e falsa applicazione di legge.

9. Ed invero tale vizio, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità giusta la disposizione dell'art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicale norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di "errori di diritto" individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, (cfr. Cass., ord. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106).

10. Il ricorrente, nella specie, non indica quali siano le affermazioni della sentenza in contrasto con le norme indicate o con l'interpretazione che ad esse ne dà la giurisprudenza o dove risieda l'eventuale vizio da parte del giudicante di erronea sussunzione della fattispecie concreta in una norma di legge (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., ord., 26 giugno 2013, n. 16038).

11. Quanto ai vizi motivazionali, diffusamente descritti anche nel secondo motivo, essi sono infondati. La Corte ha infatti motivato adeguatamente sul perché ha ritenuto rispettato il principio di immediatezza della contestazione, in considerazione della natura relativa del detto principio, e del fatto che, nel caso in esame, il tempo adoperato per l'accertamento dei fatti contestati non deponeva nel senso di una iniziale volontà datoriale di proseguire nel rapporto di lavoro e di non considerare l'inadempienza tanto grave da ledere il vincolo fiduciario. Il riferimento alla decisione del Tribunale ed alla sua correttezza rende chiaro l’iter logico seguito dal giudice del gravame, con la conseguenza che non sussiste il dedotto vizio di motivazione: la motivazione per relationem è infatti ammissibile, qualora dalla stessa comunque emerga il percorso logico seguito dal giudice per pervenire al suo convincimento, dovendosi giudicare la sua completezza e logicità sulla base degli elementi contenuti nell'atto al quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte integrante dell’atto rinviarne (Cass., 17 novembre 2010, n. 23231).

12. La Corte territoriale ha puntualmente richiamato i principi in tema di immediatezza della contestazione, ricordando che essa deve essere intesa in senso relativo, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e la valutazione dei fatti contestati (Cass., 19 giugno 2014, n. 13955; Cass., 17 settembre 2008, n. 23739; Cass., 21 febbraio 2008, n. 4502; Cass., 22 ottobre 2007, n. 22066; Cass., 6 settembre 2007, n. 18711). La valutazione delle circostanze di fatto, che in concreto giustificano o meno il ritardo e che consentono di formulare il suddetto giudizio di relatività, è riservata al giudice del merito (Cass., 2 febbraio 2009, n. 2580; Cass., 1° luglio 2010, n. 15649; Cass., 10 settembre 2013, n. 20719; Cass., n. 13955/2014, cit.) ed il suo accertamento è insindacabile in cassazione se congruamente motivato (Cass., 11 maggio 2002, n. 6790; Cass.,8 gennaio 2001, n. 150; cfr., da ultimo, Cass., 9 aprile 2014, n. 8374).

13. Ora, dalla stessa narrazione dei fatti contenuta nel ricorso per cassazione e dalla lettera di contestazione degli addebiti, integralmente riportata nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, emerge la correttezza della decisione dei giudici di merito, che hanno evidentemente dato rilievo alla natura degli accertamenti eseguiti e alla loro complessità, in quanto riguardavano una pluralità di conti correnti, intestati non solo al ricorrente ma anche a suoi familiari, e un’abnorme movimentazione degli stessi, nonché allo stretto intervallo temporale intercorso tra la fine degli accertamenti, che lo stesso ricorrente colloca l'ottobre del 2006, e la contestazione, contenuta nella lettera del 23 ottobre 2006.

14. In proposito, entrambe le asserzioni de! ricorrente - la prima riguardante l’inverosimiglianza dell'assunto dalla B. secondo cui avrebbe avuto cognizione dei fatti solo a seguito della nota della Direzione auditing del marzo 2006, e la seconda relativa alla volontà della datrice di lavoro di soprassedere al procedimento disciplinare, implicitamente manifestata attraverso la mancata adozione di un provvedimento cautelare - si risolvono in apprezzamenti meramente soggettivi e privi di decisività, considerate, per un verso, la mancanza di elementi oggettivi di riscontro su cui si basa l’apprezzamento dell’inverosimiglianza, e, per altro verso, la natura normalmente facoltativa della sospensione cautelare, riservata V. alla sfera decisionale del datore di lavoro e, quindi, insindacabile. Deve aggiungersi che di quest'ultima questione non vi è cenno nella sentenza impugnata, con la conseguenza che la detta questione, in mancanza di indicazione, da parte del ricorrente, dei termini nonché del tempo e del luogo in cui essa sarebbe stata proposta nelle fasi di merito, deve ritenersi inammissibile (Cass., 18 ottobre 2013, n, 23675).

15. Anche il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili sotto il profilo della violazione di legge, per le ragioni già esposte, e infondate sotto il profilo del difetto di motivazione. La Corte ha, infatti, ritenuto provati gli addebiti con un giudizio del tutto congruo, esaustivo e supportato dalle emergenze istruttorie (in particolare, la deposizione dell'ispettore a).

16. In particolare, è rimasto accertato che nel periodo compreso tra il gennaio 2001 e il giugno 2005 il ricorrente, attraverso conti correnti intestati a lui o cointestati con familiari, ovvero intestati a familiari, con procura rilasciata in suo favore, e distinti in conti adoperati esclusivamente per l'emissione di assegni e altri per i soli versamenti, ha movimentato assegni per un importo complessivo di € 1.114.943,00 e ha versato assegni per un importo complessivo di € 1.093.475,00. La movimentazione era funzionale alla creazione di provviste, necessarie per la copertura di assegni emessi in favore di soggetti terzi, molti dei quali non clienti della B. e con posizioni bancarie "a sofferenza", conti bloccati, assegni e cambiali protestate, procedure fallimentari a carico. Nella sentenza si dà altresì atto che gli stessi testi indicati dal ricorrente hanno dichiarato che si rivolgevano al V. al fine di far fronte a situazioni di scarsa liquidità, e ciò ad ulteriore conferma che si è trattato di un'attività di erogazione del credito, svolta al di fuori dei canali istituzionali bancari.

17. Ora, rispetto a siffatta attività di finanziamento, è del tutto irrilevante l'accertamento dell’utile che il soggetto avrebbe in ipotesi conseguito, e ciò per due considerazioni: in primo luogo perché il nostro ordinamento prevede anche il contratto di mutuo gratuito (arg. ex art. 1816 c.c.), sì che l'attività di finanziamento non è esclusa dalla mancata pattuizione di interessi in favore del mutuante; in secondo luogo, perché il mancato conseguimento di un utile economico da parte del lavoratore non esclude che la sua condotta, per la sua oggettiva gravità, sia tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, giacche può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass., 18 settembre 2012, n. 15654).

18. Ne consegue l’irrilevanza delle ragioni (di mera cortesia o amicizia) che hanno indotto il V. alla condotta ascritta, così come irrilevante è ogni valutazione in ordine alla dolo o alla colpa ("superficialità", come accenna la sentenza), giacché ciò che viene contestato al lavoratore non è l'aver tratto profitto da un'attività in concorrenza con la datrice di lavoro, ma quello di aver erogato danaro, attraverso la fornitura di provvista in cambio di assegni, da lui poi messi all’incasso, in violazione dell'art. 32 del C.C.N.L. del 2005, che impone ai dipendenti degli istituti di credito disciplina, dignità e moralità. Tutto ciò non senza trascurare che l'attività creditizia non è libera, ma è soggetta ai pubblici poteri di controllo e repressione da parte dell’Amministrazione, tramite la Banca X, e che l’abusivismo bancario costituisce reato ex art. 131 (v. Cass., pen., 9 marzo 2007, n. 10189, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 132 del T.U. bancario emanato con D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385, è qualificabile come abusivo esercizio di un' attività finanziaria anche la condotta posta in essere da un soggetto il quale abitualmente eroghi ad un numero indeterminato di persone, nella specie, clienti di un supermercato gestito dalla moglie, somme di danaro a fronte della cessione di assegni e cambiali).

19. Il quinto motivo è improcedibile nella parte in cui fa riferimento alle norme del C.C.N.L., senza che il ricorrere ne abbia trascritto il testo, lo abbia depositato unitamente al ricorso o ne abbia indicato la precisa allocazione nei fascicoli di ufficio o di parte delle precedenti fasi del giudizio, secondo quanto dispone l'art. 369 c.p.c., comma 2°, n. 4, così violando il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2001, n. 22726, e, da ultimo, Cass., 7 luglio 2014, n. 15437).

20. Il motivo si presenta altresì inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione di un intero corpo di norme (d.lgs., n. 196/2003 e del d.lgs. n. 385/1993), senza individuare l'affermazione della Corte territoriale in contrasto con le stesse, così da precludere al Collegio di capire quale sia la norma che si assume violata o falsamente applicata (Cass., Sez. Un., 18 luglio 2013, n. 17555). Del pari, è inammissibile la censura relativa alla violazione delle norme a tutela della privacy, trattandosi di questione nuova, che pertanto non può essere esaminata in questa sede in mancanza di ogni riferimento della stessa nella sentenza impugnata.

21. Infine, il sesto motivo è infondato. La valutazione della gravità degli addebiti e della loro idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, tale da comportare una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, deve valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra i fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente espulsiva (cfr. ex plurimis Cass. 4 giugno 2002 n. 8107).

22. La Corte territoriale ha valutato compiutamente la condotta del ricorrente, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, sottolineando che la qualità del soggetto, quale dipendente di un istituto di credito, impone una valutazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà secondo criteri più rigorosi (Cass., 27 gennaio 2004, n. 1475; Cass., 25 maggio 2012, n. 8293), così facendosi interprete di una corretta valorizzazione di fattori sociali, in ragione delle mansioni svolte dal lavoratore e del tipo di condotta addebitatagli.

23. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali e oneri accessori di legge.