Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 maggio 2015, n. 9223

Rapporto di lavoro - Licenziamento per giusta causa - Aggressione al superiore - Contratto collettivo - Sanzione conservativa - Legittimità della sanzione esplusiva

 

Svolgimento del processo

 

"La Corte di Appello di Ancona, riformando la sentenza del Tribunale di Ancona, rigettava l'impugnativa del licenziamento proposta da R.F. nei confronti della società P. intimato da quest'ultima per aver il R., sul posto di lavoro, aggredito il proprio superiore.

La Corte di Appello, esclusa la configurabilità di una acquiescenza alla sentenza del Tribunale di reintegra nel posto di lavoro, riteneva non integrante la violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 il comportamento datoriale che dopo avere, in sede disciplinare, vanamente invitato più volte il R. per soddisfare la richiesta di audizione disciplinare aveva proceduto alla irrogazione della sanzione espulsiva. Nel merito, la Corte territoriale, rilevata la non coincidenza della fattispecie prevista dal ccnl con quella oggetto di causa per comportare questa serie conseguenze, considerava proporzionata al fatto addebitato la sanzione adottata alla stregua della inusitata e pericolosa reazione dell'autore.

Avverso questa sentenza il R. ricorre in cassazione sulla base di cinque censure articolate sotto molteplici profili.

Resiste con controricorso la società intimata.

Vengono depositate memorie illustrative.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo il ricorrente, deducendo rispettivamente vizi di motivazione e violazione dell'art. 329 cpc, sostiene l'erroneità della sentenza impugnata per non avere la Corte di Appello ritenuto configurabile un'ipotesi di acquiescenza il comportamento datoriale consistito nell'aver dato esecuzione alla sentenza del Tribunale di reintegra senza riserva d'impugnazione.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata è, infatti, sul punto conforme alla regula iuris propria di questa Corte secondo la quale l'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell'art. 329 cpc, consiste nell'accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest'ultimo caso, l'acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l'interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione, conseguentemente e la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole, anche quando la riserva d'impugnazione non venga dalla medesima a quest'ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi del, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione (per tutte Cass. 29 maggio 2012 n. 8537).

Nel resto si tratta di un accertamento di fatto che in quanto fondato su motivazione congrua e formalmente logica, è sottratta al sindacato di questo giudice di legittimità.

Con la seconda censura il ricorrente, denunciando vizio di motivazione e violazione dell' art. 7 della legge n. 300 del 1970 in relazione all'art. 24 della cost. e agli artt. 1175 e 1375 cc e dell'art. 2967 cc, rileva che la Corte del merito nel valutare erroneamente i certificati medici è incorsa nella violazione del denunciato art. 7 della legge n. 300 del 1970 e non ha tenuto conto che incombeva sulla società dimostrare la correttezza del suo operato.

La censura è infondata.

Mette conto rilevare che la Corte del merito, nella sentenza impugnata, pone a base del proprio decisum, per quanto attiene la verifica del rispetto del procedimento disciplinare di cui al denunciato art. 7 della legge n. 300 del 1970, il rilievo fondante secondo il quale dall'esame della documentazione medica allegata dal lavoratore a giustificazione dei ripetuti richiesti rinvìi della data fissata per l'audizione non emerge una prova univoca dell'impossibilità del lavoratore di presenziare alla disposta audizione, sicché a fronte della ingiustificata reiterazione di richiesta di rinvii il datore di lavoro non può essere considerato inadempiente relativamente all'avvenuto rispetto del richiamato art. 7 della legge n. 300 del 1970.

In ordine a siffatto iter argomentativo va, in primo luogo, osservato che l'accertamento di fatto, concernente la non giustificata reiterazione della richiesta di rinvio, in quanto sorretto da motivazione congrua e formalmente logica, è sottratto al sindacato di questo giudice di legittimità che non può procedere ad una rivisitazione del materiale istruttorio per pervenire a diverse conclusioni.

Ciò detto non rimane che sottolineare la correttezza giuridica del principio in base alla quale la Corte territoriale ritiene non inadempiente il datore di lavoro nella fattispecie in esame.

Questa Corte, infatti, ha sancito, come rimarcato anche nella sentenza impugnata, che ai sensi dell’art. 7, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal «datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell'incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poiché l'obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (Cass. 31 marzo 2011 n. 7493).

Né può essere sottaciuto che secondo questo giudice di legittimità in tana di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, ove quest'ultimo eserciti il proprio diritto di difesa chiedendo espressamente di essere sentito nei termini di legge, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione e l'accertamento che le modalità di convocazione del lavoratore non siano contrarie a buona fede o alla lealtà contrattuale è rimessa al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile se congruamente motivata (Cass 16 ottobre 2013 n. 23528).

Con la terza critica il ricorrente, allegando vizi di motivazione e violazione dell'art. 54, comma 4 lett. h) del CCNL dell’11 luglio 2007, prospetta che la Corte del merito ha erroneamente ritenuto il fatto contestato non rientrante nella fattispecie ipotizzata dal richiamato contratto collettivo sanzionata con misura conservativa.

La censura è infondata.

Questo giudice di legittimità ha, difatti, affermato, e qui va ribadito, che, come sottolineato anche nella impugnata sentenza, in materia di licenziamenti disciplinari, deve escludersi che, ove un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, essa possa sformare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno che non accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. 17 giugno 2011 n. 13353 e Cass. 15 febbraio 1996 n. 1173).

La Corte di appello proprio con riferimento al richiamato principio ha ritenuto che le parti contrattuali nel prevedere una sanzione conservativa in caso di "alterchi con vie di fatto negli edifici della società" non hanno inteso escludere la sanzione espulsiva quando, come nella specie, vi siano state "serie conseguenze, insistito malanimo, grave stravolgimento dell'ordinario ritmo di lavoro".

Si tratta all'evidenza di un accertamento di fatto che in quanto sorretto da coerente e congrua argomentazione, sfugge al sindacato di legittimità di questa Corte.

Con la quarta censura il ricorrente, denunciando vizio di motivazione e violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, sostiene che la Corte del merito erroneamente valutando il comportamento tenuto dai soggetti coinvolti nel fatto addebitato è pervenuta ad una non corretta valutazione della proporzionalità della sanzione.

Con il quinto motivo, il ricorrente prospettando violazione degli artt. 277, comma 1°, 112, 187, comma 1°, e 420 cpc, sostiene che il giudice di appello non ammettendo la prova per testi articolata è incorso nel vizio di omessa pronuncia e nella violazione delle denunciate norme di rito.

Le censure,che in quanto strettamente connesse dal punto di vista logicogiuridico, vanno trattate unitariamente, sono infondate.

Va premesso che costituisce principio del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass., sez. un., n. 13045/97) che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all‘uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267, Cass. 27 luglio 2008 n. 2049 e da ultimo Cass. 25 maggio 2012 n. 8298).

Tanto comporta che se il giudice del merito nell'individuare le fonti del proprio convincimento non ritiene utile ammettere le prove articolate da una delle parti, non è tenuto a motivare esplicitamente le ragioni di tale assunto, potendo la relativa argomentazione essere desunta implicitamente dalla complessive ragioni poste a base del decisimi.

Né nel caso in cui nel ricorso per cassazione venga prospettato come vizio di motivazione della sentenza una insufficiente spiegazione logica relativa all’apprezzamento, operato dal giudice di merito, di un fatto principale della controversia, il ricorrente può limitarsi a prospettare una possibilità o anche una probabilità di una spiegazione logica alternativa, essendo invece necessario che tale spiegazione logica alternativa del fatto appaia come l'unica possibile (Cfr. in tali sensi Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 cit. e 27 luglio 2008 n. 20499 cit.).

Ciò precisato venendo all'esame del caso di specie deve, innanzitutto, rilevarsi che le connotazioni soggettive del comportamento tenuto dal R. vengono desunte dalla Corte del merito dai documenti allegati dalle parti che in guanto non contestate ben possono essere dal giudice poste a fondamento del proprio dictum.

Né in questa sede è consentito, per i rilevi svolti in precedenza, procedere ad una rivalutazione del materiale istruttorio atteso anche che la motivazione della sentenza impugnata e sul punto in questione formalmente logica e adeguata. Parallelamente va rimarcato che la c.d. esimente della provocazione viene valutata dalla Corte del merito la quale viene esclusa non potendo essere considerata tale quella per l'eventuale memoria di pretese e pregressi maltrattamenti e umiliazioni tanto più se riferiti a terze persone".

In tema di licenziamento disciplinare, spetta al giudice del merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione(per tutte V. Cass. 19 ottobre 2007 n. 21965 e Cass. 26 aprile 2012 n. 6498).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in €. 100,00 per esborsi ed €. 3500,00 per compensi oltre accessori di legge.