Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 marzo 2015, n. 5062

Tributi - ICI - Ente ecclesiastico - Esenzione ex art. 7, co. 1, lett. i), del D.Lgs. n. 504 del 1992 - Immobili adibiti a varie destinazioni - Disciplina - Requisito oggettivo - Accertamento ed onere

 

Svolgimento del processo

 

La controversia concerne l’impugnazione di un avviso di accertamento ai fini ICI per l’anno 2003 relativamente ad alcune unità immobiliari possedute in Roma dall’ente ecclesiastico per le quali quest’ultima reclamava l’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lettera i), D.Lgs. n. 504 del 1992 per il fatto che tali immobili erano adibiti a casa di ospitalità (sub 1 dell’avviso di accertamento), casa di cura (sub 2), abitazione del sacerdote (sub 3), garage di pertinenza della casa di ospitalità (sub 4), deposito materiali relativi alla casa di cura (sub 5), garage di pertinenza della casa di cura (sub 6 e 7), deposito materiali di pertinenza della casa di cura (sub 8), locale per piccole riparazioni di pertinenza della casa di cura (sub 9), alloggio collettivo delle suore (sub 10).

La Commissione adita accoglieva parzialmente il ricorso, escludendo l’esenzione per le unità immobiliari adibite ad abitazione del sacerdote ed alloggio collettivo delle suore per la mancata prova di un esercizio in detti immobili di attività di religione e di culto, e riconoscendo, invece, l’esenzione in questione per le unità immobiliari adibite a casa di ospitalità e a casa di cura, con le rispettive pertinenze, sulla base della ritenuta applicabilità, come norma di interpretazione autentica, della nuova formulazione della disposizione agevolativa introdotta dall’art 7, comma 2-bis, D.L. n. 203 del 2005. L’appello del Comune era accolto, con la sentenza in epigrafe, dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale affermava che l’ente religioso non aveva provato, come era suo onere, che le unità immobiliari oggetto dell’accertamento fossero adibite ad attività di religione e di culto (da escludersi comunque per gli immobili adibiti ad abitazione del sacerdote e ad alloggio collettivo delle suore) e ad attività esclusiva- mente commerciali, nel rispetto della formulazione della norma agevolativa applicabile ratione temporis.

Avverso tale sentenza l’ente religioso propone ricorso per cassazione con cinque motivi. Resiste il Comune con controricorso, illustrato anche con memoria.

 

Motivazione

 

Con i primi tre motivi di ricorso, che devono essere esaminati congiunta- mente per ragioni di connessione logica, l’ente religioso contesta che dovesse essere data alcuna altra prova che quella risultante dalla palese destinazione delle unità immobiliari ad attività di assistenza e di cura, null’altro essendo necessario per il diritto all’esenzione che la destinazione degli immobili alle attività elencate dalla norma agevolativa da parte di un ente non commerciale, come indubbiamente la parte ricorrente è: per di più nel caso di specie doveva trovare applicazione la formulazione della norma agevolativa introdotta dall’art. 7, comma 2-bis, D.L. n. 203 del 2005, che disponeva il diritto all’esenzione a prescindere dal fatto che le attività esercitate, tra quelle specificamente elencate, avessero o meno natura commerciale.

Le censure sono infondate. Questa Corte, infatti, ha affermato che: «In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 è limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto indicate nell’art. 16, lett. a), della legge 20 maggio 1985, n. 222, e pertanto non si applica ai fabbricati di proprietà di enti ecclesiastici nei quali si svolga attività sanitaria (come è nel caso di specie), non rilevando in contrario né la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro produzione e non fa venir meno il carattere commerciale dell’attività, né il principio della libertà di svolgimento di attività commerciale da parte di un ente ecclesiastico — fondato, oltre che sull’art. 16, lett. a), della legge n. 222 del 1985, anche sulla legge 25 marzo 1985, n. 121 in tema di revisione del concordato —, né la successiva evoluzione normativa, in quanto a) l’art. 7, comma 2-bis, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203 (aggiunto dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248, poi modificato dal comma 133 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 ed infine sostituito dall’art. 39, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248) nell’estendere l’esenzione disposta dall’art. 7, comma 1, lett. i), cit. alle attività ivi indicate "a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse" (versione originaria) e poi a quelle "che non abbiano esclusivamente natura commerciale" (versione vigente), ha carattere innovativo e non interpretativo; b) l’art. 111-bis del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, (aggiunto dall’art. 6 del D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460), nel prevedere (comma 1) la perdita della qualifica di ente non commerciale per gli enti che esercitino prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta ad esclusione (comma 4) di quelli ecclesiastici, riflette i suoi effetti unicamente sulla qualità del soggetto utilizzatore dell’immobile, ma non sul requisito oggettivo dell’attività nello stesso esercitata» (v. anche Cass. n. 14530 del 2010).

Questa Corte ha altresì affermato che: «l’esenzione prevista dall’art. 7, comma primo, lett. i), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate, e di un requisito soggettivo, costituito dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali (art. 87, comma primo, lett. c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, cui il citato art. 7 rinvia). La sussistenza del requisito oggettivo deve essere accertata in concreto, verificando che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale» (Cass. n. 4502 del 2012). La prova della sussistenza del requisito oggettivo spetta al soggetto che pretende l’applicazione dell’esenzione, secondo quanto ha già riconosciuto questa Corte: «La sussistenza del requisito oggettivo — che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare — non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale» (Cass. n. 5485 del 2008; sull’onere della prova gravante sul contribuente v. anche Cass. n. 27165 del 2011). Nel caso di specie l’ente religioso non ha dato alcuna prova sullo svolgimento negli immobili in questione né di attività di religione o di culto, né di altre attività elencate senza le modalità di un’attività commerciale. Quanto alla disapplicazione delle sanzioni che sarebbe dovuta in relazione all’incertezza normativa da riconoscersi alla disposizione agevolatrice, va rilevato che il giudice non può procedere d’ufficio in tal senso senza che vi sia una specifica domanda da parte del contribuente, avanzata nei modi e nei termini processuali appropriati (Cass. n. 24060 del 2014), domanda della cui esistenza non è data prova nella fattispecie non essendo indicato nel ricorso se, quando e in quali termini sia stata sollevata in giudizio l’eccezione relativa alla disapplicazione delle sanzioni, eccezione che non può trovare ingresso per la prima volta in sede di legittimità (Cass. n. 25676 del 2008, in motivazione).

Nelle considerazioni dapprima svolte resta assorbito il quarto motivo, con il quale la parte ricorrente contesta l’affermazione della sentenza impugnata secondo la quale l’ente religioso avrebbe dovuto dichiarare (o comunque comunicare) al Comune, per consentirne l’attività di controllo, che gli immobili in questione sarebbero stati esenti da imposta.

Con il quinto motivo l’ente religioso contesta la mancata compensazione delle spese di lite, che, a suo avviso, sarebbe stata dovuta in ragione dell’incertezza interpretativa esistente circa la norma agevolativa e della formazione di una giurisprudenza della Corte di cassazione non favorevole alle tesi della parte ricorrente in epoca successiva «ai fatti di causa».

Il motivo è inammissibile e infondato in quanto, come hanno affermato le Sezioni unite di questa Corte, la facoltà di disporre la compensazione delle spese di lite tra le parti «rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia

di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione» (Cass., S.U., 14989 del 2005).

Pertanto il ricorso deve essere rigettato. Il consolidamento dei principi enunciati in epoca successiva alla proposizione del ricorso giustifica la compensazione delle spese della presente fase del giudizio.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa le spese.