Giurisprudenza - TRIBUNALE DI SONDRIO - Ordinanza 23 gennaio 2015

Lavoro - Giudizio di opposizione all'ordinanza che accoglie o rigetta il licenziamento del lavoratore - Incompatibilità per il giudice persona fisica della fase sommaria a giudicare nel giudizio di opposizione - Mancata previsione - Violazione dei principi del giusto processo - Legge 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 51 - Costituzione, art. 111, comma secondo - Astensione del giudice dell'opposizione al licenziamento del lavoratore che abbia già giudicato sul licenziamento stesso in fase di cognizione sommaria - Mancata previsione - Violazione dei principi del giusto processo - Codice di procedura civile, art. 51, primo comma, n. 4 - Costituzione, art. 111, comma secondo

 

La presente causa ha ad oggetto l'opposizione proposta dal B. in data 14/8/14 ex art. 1, comma 51, legge n. 92/12, avverso l'ordinanza emessa dal sottoscritto Giudice il 17/7/14, con la quale è stata respinta la sua domanda giudiziale - presentata ex art. 1, comma 48, legge n. 92/12 - d'impugnativa del licenziamento intimatogli da I. s.p.a. il 7/2/14 e con la quale il medesimo è stato condannato a rifondere alla controparte le spese di lite (causa n. 55/14 R.G.).

 Le conclusioni di merito formulate dal B. nel ricorso ex art. 1, comma 48, depositato in data 13/3/14, erano le seguenti: «ricorre al Tribunale intestato, in funzione di Giudice del Lavoro, affinché esperito il procedimento di cui ai commi 48 e 49 dell'art. 1, legge n. 92/2012, voglia accogliere con ordinanza immediatamente esecutiva le seguenti domande: - accertare e dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimato al sig. B. per insussistenza del fatto contestato e, per l'effetto, disporre la reintegrazione nel posto di lavoro e condannare la società I. spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, al risarcimento del danno quantificabile in misura pari alla retribuzione lorda globale di fatto mensile di euro 1.231,00 (corrispondente all'importo salariale mensile previsto per il IV livello del Ccnl commercio, pt 60%, maggiorato di indennità per lavoro supplementare e maggiorazione 30%) e € 258,33 netti mensili a titolo di assegno nucleo familiare, dal giorno del licenziamento al giorno della reintegra ed al versamento, per lo stesso periodo, dei contributi previdenziali come per legge: - in via subordinata, nella denegata ipotesi in cui il Giudice ritenga non insussistente la giusta causa, ma accerti che ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, dichiarare risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condannare la società I. spa al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto - retribuzione globale di fatto mensile pari ad € 1.231,00 lordi (tenuto conto dell'anzianità aziendale di quasi 20 anni, delle dimensioni dell'azienda, del comportamento pretestuoso e contrario alla correttezza e buona fede della società I.), oltre al mancato preavviso nella misura lorda di 2.154,00 €; Con vittoria di spese ed onorari».

 Le conclusioni di merito di I. s.p.a. nella prima fase del giudizio erano le seguenti: «Voglia l'Ill.mo Tribunale del Lavoro di Sondrio, in funzione di Giudice Unico del lavoro, disattesa ogni contraria istanza, eccezione o deduzione, così giudicare: in principalità: respingere, perché infondate in fatto ed in diritto, tutte le domande avanzate dal ricorrente con l'atto introduttivo del presente giudizio; accertarsi e dichiararsi, ad ogni effetto di legge e di contratto, la giustificatezza e/o la legittimità e/o, l'efficacia e/o la validità, quale giusta causa, in principalità, ovvero quale giustificato motivo soggettivo in via subordinata, del licenziamento irrogato dalla Società nei confronti del ricorrente, con raccomandata a/r del 5 febbraio 2014; in subordine: nella denegata ipotesi di accoglimento, anche parziale, delle domande avversarie - accertata e dichiarata l'inapplicabilità alla fattispecie de qua dei rimedi di cui ai commi 1, 2 e 4, dell'art. 18 legge n. 300/1970 - farsi applicazione del rimedio di cui al comma 5 dell'art. 18 legge n. 300/1970 e, per gli effetti, dichiarare il rapporto di lavoro inter partes risolto con effetto dalla data del licenziamento e liquidazione dell'indennità risarcitoria nella misura minima di legge; in ogni caso: si fa espressa riserva di azione verso B. al fine del recupero della somma di euro 480,00 indebitamente utilizzata; si eccepisce l'aliunde perceptum vel percipiendum con riferimento a tutte le somme a qualsiasi titolo percepite (i.e. ivi inclusa la indennità sostitutiva del preavviso) dal ricorrente nel periodo successivo al licenziamento e, nella denegata ipotesi di accoglimento, anche parziale, delle domande avversarie, se ne chiede sin d'ora la compensazione e la detrazione rispetto alle somme eventualmente riconosciute a favore del ricorrente; in ogni caso, si contestano tutti i conteggi prodotti da controparte in quanto infondati e non esplicitanti il meccanismo contabile sotteso; respingersi il ricorso avversario; con vittoria di spese, diritti, onorari e sentenza [sic, sorta di lapsus freudiano, n.d.G.] munita di clausola di provvisoria esecuzione».

 Nella presente fase di opposizione a cognizione piena il B. ha formulato conclusioni di merito del medesimo e identico tenore letterale (che quindi sarebbe superfluo e ridondante riportare), fatta salva la premessa di tali conclusioni: «Voglia il Tribunale intestato, in funzione di Giudice del Lavoro, rigettata ogni contraria istanza ed eccezione, previo ogni accertamento ed opportuna declaratoria dei caso, accogliere il presente ricorso e, conseguentemente, in riforma totale dell'ordinanza 15 luglio 2014, depositata e comunicata in data 17 luglio 2014, accogliere le seguenti conclusioni: in via preliminare, revocare l'ordinanza emessa ex art. 1, comma 49, legge n. 92/2012, nel procedimento RG n. 55/2014; in via principale accertare e dichiarare l'illegittimità del licenziamento ...». Parimenti è da dirsi per le conclusioni di merito formulate dalla convenuta opposta nella presente fase del giudizio (l'unica differenziazione è l'aggiunta della seguente frase nell'epigrafe di tali conclusioni: «...per l'effetto, confermare integralmente l'Ordinanza ex adverso impugnata»).

 Le prime tre udienze sono state deputate all'espletamento del tentativo di conciliazione, dichiarato definitivamente fallito all'udienza del 16/12/14. Quindi la causa è stata rinviata all'udienza del 7/1/15, e poi all'udienza del 14/1/15, al fine di verificare l'eventuale sussistenza di un'istanza congiunta delle parti di attendere l'esito della decisione della Corte costituzionale  sulla questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., e 1, comma 51, legge n. 92/12, in relazione alla mancata esplicita previsione dell'incompatibilità del medesimo Giudice persona fisica a trattare sia la fase sommaria che quella di opposizione a cognizione piena nei giudizi de quibus (già chiamata per la pubblica udienza del 28 aprile p.v. ).

 All'udienza del 14/1/15 la convenuta opposta ha dichiarato la propria contrarietà al rinvio semplice in questione; di seguito l'attore ha formulato istanza affinché il Giudice sollevi questione di legittimità costituzionale della citata normativa ordinaria per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Con provvedimento in pari data il Giudice ha dichiarato la propria astensione obbligatoria per essere egli la medesima persona fisica che ha emanato l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, esplicitando trattarsi di una propria valutazione basata su una propria interpretazione logico-sistematica della normativa, e non già sul suo dato letterale, e rimettendosi quindi alla decisione in proposito del Presidente di questo Tribunale.   Con decreto del 17/1/15 il Presidente del Tribunale ha rigettato la predetta istanza di astensione e ha disposto la restituzione degli atti della presente causa al sottoscritto Giudice. 

Occorre dunque ora pronunciarsi in via preliminare sulla predetta istanza dell'attore.

 In proposito il Giudice ritiene innanzitutto di richiamare e reiterare nella presente sede le valutazioni effettuate e le argomentazioni esposte nel proprio provvedimento del 14/1/15: «rilevato che nell'esame della questione di legittimità costituzionale proposta dall'attore è preliminare il profilo della rilevanza o meno di tale questione nel presente giudizio; che a tal fine occorre rilevare che allo stato la questione in oggetto non è rilevante, posto che l'assegnazione della trattazione della fase a cognizione piena ad altro Giudice rispetto a quello che ha trattato la fase sommaria (il sottoscritto) può in tesi essere determinata dall'istituto dell'astensione obbligatoria e che, in caso positivo, la questione in oggetto diverrebbe definitivamente irrilevante nel presente giudizio; che, dunque, è preliminare verificare se sussistano i presupposti per il proficuo espletamento dell'astensione obbligatoria del sottoscritto Giudice, soltanto in caso negativo divenendo rilevante la predetta questione di l.c. e quindi soltanto in tal caso dovendosene vagliare - anche - la non manifesta infondatezza (peraltro è noto che la questione in oggetto è già stata sollevata dal Tribunale di Milano in due diverse composizioni collegiali, ed è chiamata per la discussione innanzi alla Corte costituzionale per l'udienza del 28/4/15); ritenuto, ciò posto, che ad avviso del sottoscritto Giudice già alla stregua della normativa vigente sussistono i presupposti per l'operatività dell'istituto dell'astensione obbligatoria del Giudice persona fisica che ha trattato la fase sommaria rispetto alla trattazione anche della fase a cognizione piena, giusta le ampie e condivisibili argomentazioni esposte dalla Corte d'Appello di Milano nella nota sentenza n. 1577 del 13/12/13, con la quale è stata dichiarata la nullità della sentenza di primo grado a cagione della trattazione da parte del medesimo Giudice persona fisica sia della fase sommaria che di quella a cognizione piena, stante la violazione del superiore principio d'imparzialità (sia sostanziale, sia apparente ) del Giudice:

invero, come sottolineato dalla Corte d'Appello di Milano, l'oggetto delle due fasi è sostanzialmente lo stesso e, soprattutto, entrambe le fasi si concludono con una decisione, regolativa anche delle spese di lite, avente di per se stessa idoneità a passare in giudicato (su quest'ultimo punto cfr. anche Cass. SS.UU. 17443 del 31/7/14); che, ha aggiunto la Corte d'Appello di Milano nella cit. sentenza, una diversa valutazione determina un vizio di costituzione del Giudice con nullità della sentenza emessa al termine della fase a cognizione piena, secondo le previsioni di cui agli artt. 158 e 161 c.p.c., sottolineando altresì che una siffatta opzione ermeneutica è in linea con le sentenze della Corte costituzionale nn. 387/99 e 460/05; ritenuto alla luce di ciò, in definitiva, che è doverosa da parte di questo Giudice la presentazione di un'istanza di astensione obbligatoria ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. che, ovviamente, essendo basata su un'interpretazione logico-sistematica della normativa vigente e non già sul suo dato letterale (l'ipotesi d'incompatibilità in questione non è ex professo disciplinata dalla legge n. 92/12, poiché l'art. 1, comma 51, è sul punto silente), va rimessa alla valutazione del Presidente di questo Tribunale».

 Ciò posto, il Giudice rileva innanzitutto che la questione di l.c. in oggetto è, ora, senz'altro rilevante nel presente giudizio, posto che la reiezione della dichiarazione di astensione presentata da questo Giudice è per il sottoscritto - allo stato - vincolante. Soltanto l'eventuale accoglimento della questione di l.c. in oggetto consentirebbe (rectius, imporrebbe) al sottoscritto Giudice la presentazione nel presente giudizio di una dichiarazione di astensione obbligatoria per incompatibilità a trattare la presente fase di opposizione.

 La questione di l.c. in esame è anche, ad avviso del Giudice, «non manifestamente infondata», id est non è infondata in modo talmente evidente da essere immediatamente e univocamente percepibile come tale: ogni più approfondita valutazione e decisione sulla sua fondatezza o meno spetta esclusivamente alla Corte costituzionale. 

A tale proposito si espongono le seguenti sintetiche considerazioni.

 Il principio d'imparzialità del Giudice è da sempre immanente alla stessa funzione dello ius dicere, com'è testimoniato dal brocardo latino nemo iudex in causa propria. La Corte costituzionale lo ha evidenziato ripetutamente in modo netto e da ultimo - poco prima della Novella di cui subito si dirà - nella sentenza n. 387 del 15/10/99, che ha statuito l'incompatibilità del Giudice a trattare sia la fase sommaria che quella di opposizione nelle controversie ex art. 28, legge n. 300/70: «La Corte ha avuto occasione di notare che il principio di imparzialita-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione (sentenze n. 51 del 1998; n. 326 del 1997), pur tuttavia con le peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento ...».

 Ciò nonostante il Legislatore costituente ha ritenuto necessario di inserirlo esplicitamente nella Costituzione con la Novella di cui alla L. cost. n. 2 del 23/11/99. E lo ha fatto a mezzo di un'apparente endiadi, stabilendo che ogni processo deve svolgersi «davanti a giudice terzo e imparziale» (art. 111, comma 2, Cost.). Il contestuale utilizzo di due aggettivi qualificativi aventi apparentemente il medesimo significato va inteso, ad avviso di questo Giudice, come esplicativo della volontà di costituzionalizzare il principio della necessità che il Giudice sia in concreto imparziale in quanto non parte del giudizio («terzo») e sia anche all'apparenza imparziale in quanto nei suoi confronti non sussiste alcuna situazione, fattuale e/o processuale, che possa seriamente minarne l'apparenza d'imparzialità («e imparziale»). D'altronde la costituzionalizzazione del principio - anche - dell'apparenza dell'imparzialità era già stata sancita dalla Corte costituzionale nella cit. sentenza 387/99: «... ferma l'esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo ...». 

Ferma restando la configurabilità, senza meno, dell'imparzialità sostanziale del Giudice nel decidere la causa di opposizione anche se egli abbia deciso la fase sommaria nelle cause ex art. 1, commi 47 segg., legge n. 92/12 (l'imparzialità effettiva, del suo foro interiore), è convincimento di questo Giudice che non possa ritenersi in modo evidente e senza dubbi che anche l'apparenza d'imparzialità - pure costituzionalmente necessitata - sia parimenti salvaguardata nella fattispecie normativa in oggetto. 

Rammentato 1) che le controversie in esame hanno ad oggetto il licenziamento e quindi una materia del contendere implicante gravi conseguenze, economico-patrimoniali ma anche per la vita personale e/o familiare (del lavoratore, ma talvolta anche dell'imprenditore), di talché la sommarietà della cognizione nella prima fase va necessariamente intesa come sua mera deformalizzazione, 2) che l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, che regolamenta anche le spese di lite, ha attitudine potenziale a passare in giudicato (cfr. Cass. SS.UU. 17443 del 31/7/14, punto 28, che ha statuito l'ammissibilità del regolamento di competenza nella materia de qua), 3) che siffatta ordinanza è ex lege dotata d'immediata esecutività insuscettibile di essere sospesa o revocata lungo tutto il corso del giudizio di opposizione (art. 1, comma 50, legge n. 92/12), e infine 4) che di regola il giudizio di opposizione ha il medesimo sostanziale oggetto della fase sommaria, com'è plasticamente dimostrato dal presente giudizio, a tutto ciò ne consegue il sospetto d'incostituzionalità del combinato disposto normativo in oggetto in relazione all'art. 111, comma 2, Cost.. 

In proposito, onde evitare inutili rielaborazioni lessicali (che sicuramente ne peggiorerebbero l'efficacia e la fluidità), il Giudice richiama e fa proprie le valutazioni e argomentazioni esposte dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 460 del 23/12/05 in relazione al giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento - come allora vigente - che, ad avviso di questo Giudice, sono sostanzialmente sovrapponibili alla fattispecie normativa del cd. rito Fornero, anch'essa introduttiva di due fasi del giudizio delle quali la seconda ha sostanziale carattere impugnatorio rispetto alla prima: "Nella sentenza n. 387 del 1999 tale circostanza è sottolineata per dedurne che «la fattispecie rientrava all'evidenza nell'ambito della previsione dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ.» - e cioè quale argomento per l'interpretazione, costituzionalmente corretta (art. 24 Cost.), della locuzione «altro grado del processo» impiegata dal codice - e non certamente quale fondamento della sentenza stessa: ed infatti, premesso che «il rapporto tra le due fasi, sotto il profilo della imparzialita-terzietà del giudice, non può, ora, ritenersi mutato per il semplice sopravvenuto intervento di modifica [...] della sola norma di competenza», questa Corte prosegue osservando che la locuzione de qua va intesa «alla luce dei principi che si ricavano dalla Costituzione relativi al giusto processo, come espressione necessaria del diritto ad una tutela giurisdizionale mediante azione (art. 24 della Costituzione) avanti ad un giudice con le garanzie proprie della giurisdizione, cioè con la connaturale imparzialità, senza la quale non avrebbe significato né la soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101 della Costituzione), né la stessa autonomia ed indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, della Costituzione). In altri termini, la espressione "altro grado" non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l'ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall'ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere - con una interpretazione conforme a Costituzione - anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarità del giudizio di opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell'azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario». Esclusa ogni rilevanza dei pretesi inconvenienti fattuali derivanti dalla interpretazione adottata come l'unica conforme a Costituzione, la sentenza n. 387 del 1999 si fonda, dunque, sulla intrinseca natura impugnatoria della fase che si svolge davanti al medesimo ufficio giudiziario, e ciò per avere il provvedimento soggetto a revisio «una funzione decisoria idonea di per sé a realizzare un assetto dei rapporti tra le parti, non meramente incidentale o strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile - in caso di mancata opposizione - di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato tra le parti»; ed inoltre per essere «la valutazione delle condizioni che legittimano il provvedimento» non divergente, quanto a parametri di giudizio, «da quella che deve compiere il giudice dell'eventuale opposizione, se non per il carattere del contraddittorio e della cognizione sommaria».

3.1.- Alla luce di questi criteri, la fase dell'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento assume certamente «valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae»: non soltanto la sentenza dichiarativa di fallimento, ove non opposta, è idonea a passare in giudicato, non soltanto le condizioni che legittimano il provvedimento sono oggetto di rivalutazione in sede di opposizione, ma proprio la gravità delle conseguenze (non di rado irreversibili) derivanti dalla dichiarazione di fallimento rende evidente come la "sommarietà" della cognizione camerate vada intesa nel senso non già di "parzialità" o "superficialità", bensì di "deformalizzazione". Ove ciò non fosse - se, cioè, la dichiarazione di fallimento potesse seguire ad una cognizione parziale o incompleta, nella quale gli elementi utilizzabili dal giudice per la decisione non fossero assunti nel (sia pur non formalizzato) contraddittorio delle parti (ed in primis del fallendo) - la disciplina legislativa, che consente effetti tanto rilevanti e potenzialmente definitivi, sarebbe di più che dubbia costituzionalità; a fortiori se si considera che l'immediata (dal momento della pronuncia) esecutività della sentenza non può in nessun caso essere sospesa a seguito dell'opposizione e che la revoca lascia «salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi del fallimento» (art. 21 della legge fallimentare). A ciò si aggiunga che la giurisprudenza di legittimità costantemente qualifica l'opposizione ex art. 18 della legge fallimentare come «impugnazione in senso tecnico», ai fini, tra l'altro, del suo rapporto con il regolamento di competenza (art. 43 cod. proc. civ.), della appellabilità della sentenza che abbia sostituito il fallimento personale a quello dichiarato come socio, del principio della consumazione del mezzo di gravame. 3.2.- E' appena il caso di ribadire che la sostanziale natura impugnatoria dell'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento non si riscontra, come questa Corte ha già statuito, nel caso dell'opposizione allo stato passivo (caratterizzato da accertamento sommario, incompleto e superficiale:

sentenze n. 158 del 1970; n. 94 del 1975; ordinanze n. 304 del 1998; n. 167 del 2001; n. 75 del 2002), del reclamo ex art. 26 della legge fallimentare avverso provvedimenti del giudice delegato (caratterizzato dalle esigenze di continuità dello svolgimento della procedura concorsuale: sentenza n. 363 del 1998), del giudizio promosso dal curatore su autorizzazione del giudice delegato (data sulla base di una mera delibazione di non infondatezza: ordinanza n. 176 del 2001). Né si riscontra, al di fuori delle procedure concorsuali, nei casi - anch'essi esaminati da questa Corte - di provvedimento cautelare autorizzato ante causam e di successiva cognizione piena in sede di giudizio di merito (sentenza n. 326 del 1997), di decisione emessa ex art. 187-quater [recte, 186 quater, n.d.G. ] cod. proc. civ. (ordinanza n. 168 del 2000), di rinvio cosiddetto restitutorio ex art. 354 cod. proc. civ. (sentenza n. 341 del 1998). 3.3.- in conclusione, l'obbligo di astensione - la cui violazione è idonea a rendere nulla la sentenza per vizio di costituzione del giudice solo se sia tempestivamente proposta la ricusazione e questa venga erroneamente respinta - presuppone, come nell'ipotesi qui in esame, che il procedimento svolgentesi davanti al medesimo ufficio giudiziario sia solo apparentemente "bifasico", mentre in realtà esso - per le caratteristiche decisorie e potenzialmente definitive del provvedimento che chiude la prima fase e per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in  entrambe le fasi nel rispetto del principio del contraddittorio, ancorché realizzato con modalità deformalizzate - si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di «altro grado del processo».".

 Quando il Giudice decide la fase sommaria delle cause del cd. rito Fornero prende in tale momento una posizione definitiva sulla res litigiosa, in quanto è dalla legge tenuto a provvedere "all'accoglimento o al rigetto della domanda" (art. 1, comma 49, legge n. 92/12 ) e in quanto sa che ben potrebbe non esservi l'opposizione (che è soltanto eventuale), o che la stessa potrebbe essere tardiva o per altre ragioni inammissibile; sa pertanto che il suo provvedimento potrebbe ex se passare in giudicato. Quindi il Giudice non può limitarsi ad esprimere una valutazione interinale e provvisoria sulla - delicata - materia del contendere sottoposta alla sua cognizione ma deve prendere posizione, deve ius dicere. La Giustizia deve posare la bilancia e brandire la spada. In questa situazione è arduo immaginare che nella successiva fase di giudizio a cognizione piena sulla stessa materia del contendere sostanziale il medesimo Giudice persona fisica possa nuovamente apparire imparziale (nel senso d'imparziale rispetto alle tesi giuridiche delle parti, delle quali una è stata da egli in precedenza fatta propria: la sua terzietà deve invece essere sempre fuori discussione); è difficile immaginare che l'utente possa vedere che la stessa Giustizia posi la spada che poco prima ha brandito e riprenda nuovamente in mano la bilancia. 

Ne consegue il sospetto d'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1, comma 51, legge n. 92/12, e 51, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell'art. 111, comma 2, Cost. in relazione a lla lesione dell'apparenza d'imparzialità del Giudice sopra illustrata.

 

 P.Q.M.

 

a) solleva questione di legittimità costituzionale, nei sensi di cui in motivazione, dell'art. 1, comma 51, legge n. 92/12, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità del medesimo Giudice persona fisica a trattare sia la fase sommaria che quella di opposizione a cognizione piena, e dell'art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c., nella parte in cui non prevede l'astensione obbligatoria del Giudice che ha trattato la fase sommaria del predetto giudizio rispetto alla trattazione della successiva fase di opposizione a cognizione piena, il tutto per violazione dell'art. 111, comma 2, della Costituzione;

 b) sospende la presente causa fino all'esito del giudizio di legittimità costituzionale; 

c) ordina l'immediata trasmissione alla Corte costituzionale degli atti della presente causa, con la prova delle notificazioni e comunicazioni di cui al capo che segue; 

d) ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e alle parti, e sia comunicata al Presidente del Senato ed al Presidente della Camera dei deputati. 

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 29 aprile 2015, n. 17.