Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 05 maggio 2025, n. 11761

 Licenziamento per giusta causa - Procedimento disciplinare - Art. 55, commi 2 e 4 c.c.n.l. 2011 - Termine per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare - Principio di tempestività - Tutela reintegratoria - Indennità risarcitoria onnicomprensiva -  Inammissibilità

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 10802/2023 questa Corte Suprema aveva accolto il secondo motivo del ricorso per cassazione proposto da Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza n. 242/2020 della Corte d’appello di Catanzaro, rigettato il primo motivo dello stesso ricorso; aveva cassato quella sentenza in relazione al motivo accolto ed aveva rinviato alla stessa Corte d’appello, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

1.1. La sentenza allora cassata aveva respinto il reclamo di Poste Italiane s.p.a. contro la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato da Poste Italiane alla propria dipendente B.F. il 22.4.2017.

1.2. Questa Corte, respinto il primo motivo di quel ricorso (con il quale era stata dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 55, commi 2 e 4 c.c.n.l. 2011, degli artt. 1326, 1334 e 1335 c.c. e dell’art. 2729 c.c.), aveva ritenuto che <il ricorso per cassazione deve trovare accoglimento in relazione al secondo motivo e deve cassarsi sul punto la sentenza impugnata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame conformemente ai principi di diritto richiamati e, in particolare, al principio secondo cui “la violazione del termine per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall’art. 55, comma 4, del c.c.n.l. per i dipendenti di Poste Italiane spa), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all’art. 7 St. lav., tale da rendere operativa la tutela prevista dall’art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, purché il ritardo nella comunicazione del licenziamento non risulti, con accertamento in fatto riservato al giudice di merito, notevole e ingiustificato, tale da ledere in senso non solo formale ma anche sostanziale il principio di tempestività, per l’affidamento in tal modo creato nel lavoratore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto e per la contrarietà del ritardo datoriale agli obblighi di correttezza e buona fede”>.

1.3. Inoltre, Cass. n. 10802/2023 considerava che: “35. Resta impregiudicata la questione relativa alla dedotta illegittimità del licenziamento per giusta causa, riproposta dalla lavoratrice nella memoria di costituzione nel giudizio di reclamo (pag. 15 e ss. della memoria di costituzione dinanzi alla Corte d’appello).

36. La mancanza di qualsiasi statuizione sul punto da parte dei giudici del reclamo è spiegabile sul presupposto di un ritenuto implicito assorbimento, avendo essi riconosciuto alla lavoratrice, a fronte del licenziamento intimato in violazione dell’art. 55 del c.c.n.l., la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4 cit.

La cassazione sul punto della sentenza d’appello per la riconducibilità della violazione dei termini previsti dal contratto collettivo all’ipotesi disciplinata dall’art. 18, comma 6 cit., da cui consegue il riconoscimento della tutela indennitaria attenuata, porta ad escludere l’operatività di qualsiasi meccanismo di assorbimento (v. Cass. n. 12193 del 2020 secondo cui la declaratoria di illegittimità del licenziamento per tardiva contestazione disciplinare non può assorbire le domande di illegittimità per insussistenza del fatto o carenza di giusta causa cui è connessa una tutela più ampia, né può configurarsi come un rigetto implicito delle stesse, stante l’autonomia logico-giuridica delle questioni).>.

2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Catanzaro, definitivamente pronunciando nei giudizi in riassunzione riuniti, introdotti con distinti ricorsi da F.B. e da Poste Italiane, a seguito della sentenza n. 10802/2023, così provvedeva: “1. Accoglie l’appello per quanto di ragione e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna Poste Italiane spa a corrispondere a F.B. l’indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; 2. Compensa integralmente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio”.

2.1. Per quanto qui interessa, la Corte del rinvio, dopo aver riportato il testo della premessa sentenza rescindente n. 10802/2023, considerava che la Corte di Cassazione aveva affermato che l’illegittimità del licenziamento conseguente a tardività dell’irrogazione della sanzione rispetto al termine fissato dal ccnl – questione su cui verteva il primo motivo di gravame di Poste, respinto dalla Corte di Cassazione – comportasse l’applicazione della tutela del comma sesto dell’art. 18 stat. Lav., sicché, in quanto il giudice di primo grado aveva applicato quella del comma quarto, la sentenza del Tribunale doveva essere riformata in parte qua.

2.2. Considerava ancora che questa Corte aveva rilevato che la Corte di appello di Catanzaro non aveva valutato, in quanto ritenuto assorbita, la questione della sussistenza dei fatti posti a base della contestazione disciplinare, che, in virtù della pronuncia sulla tutela applicabile alla violazione formale ravvisata, si riproponeva.

3. La Corte del rinvio, pertanto, procedeva al vaglio della contestazione di addebito, che riproduceva (in forma fotostatica) nel corpo della propria decisione (trattasi della nota datoriale del 7.3.2017, firmata per ricevuta dalla F. in pari data).

3.1. Osservava, allora, che da detta lettera di contestazione degli addebiti si evinceva che il nucleo della contestazione disciplinare coincideva, quanto al fatto materiale, con le imputazioni per le quali la dipendente era stata condannata con la sentenza penale 2489/2016 del Tribunale di Catanzaro; sentenza che era stata annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione, sezione II penale (sentenza 7258/2023 del 18.11.2022/21.2.2023) perché era stata ritenuta insufficiente la motivazione circa l’elemento psichico del contestato reato di riciclaggio.

3.2. Tuttavia, considerava che la dipendente era stata licenziata non perché destinataria di sentenza penale di condanna, ma per il rilievo disciplinare che connota i medesimi fatti materiali oggetto della contestazione elevatale in sede penale.

3.3. Richiamati i principi enunciati in Cass. n. 10315/2000, la stessa Corte riteneva che “tale giudicato di assoluzione non è vincolante in questa sede, tanto più che la Corte si è limitata a cassare la sentenza della Corte d’appello limitatamente alla valutazione concernente l’elemento psichico del reato di riciclaggio, confermandola, invece, quanto al fatto materiale, ossia, circa l’accertamento della condotta posta in essere dalla lavoratrice, consistente nell’avere effettuato operazioni su titoli di credito per le quali, in base al regolamento interno di Poste Italiane, era necessaria l’esibizione/acquisizione dei documenti di identità dei relativi intestatari”.

4. Tanto considerato, la Corte del rinvio riteneva che dalla disamina degli atti del procedimento penale conclusosi con la sentenza resa dal Tribunale di Catanzaro n. 2489/2016, acquisiti dalla stessa Corte con ordinanza del 31.10.2023, si traeva conferma della sussistenza dei fatti per come descritti nella lettera di contestazione.

4.1. In particolare, la Corte concludeva che da tale disamina discendeva che risultava provata la violazione delle procedure dettate dai regolamenti interni aziendali al fine di evitare la commissione di reati sui e attraverso i titoli di credito negoziati presso Poste, e che la condotta contestata alla lavoratrice, come in precedenza analizzata, configurava violazione sufficiente a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario e a giustificare la sanzione massima irrogata.

5. Confermata, quindi, la giusta causa del recesso datoriale, la Corte del rinvio riteneva che, per la violazione di carattere formale afferente al termine per la definizione del procedimento disciplinare, spettasse alla lavoratrice la tutela di cui al sesto comma dell’art. 18 Stat. Lav. nei termini specificati in motivazione e in dispositivo.

6. Avverso tale decisione F.B. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

7. Ha resistito l’intimata con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia “Nullità della sentenza ex art. 360 comma 1 n. 4 – Censure di manifesta ed irriducibile contraddittorietà e di motivazione perplessa od incomprensibile – Violazione del minimo costituzionale – Violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c.”.

Deduce in particolare che vi “è un contrasto irriducibile, infatti, tra l’istruttoria svolta e l’interpretazione e lettura opposta della Corte di Appello”.

2. Con un secondo motivo denuncia “Nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 – Travisamento della prova”.

Deduce che la “Corte d’Appello ha travisato le prove dedotte dalle parti, soprattutto nel momento in cui ha ritenuto esistente una sentenza di primo grado investita sia da un’altra di secondo grado e poi da una sentenza di Cassazione con rinvio, e poi quando ha ritenuto inesistenti i documenti di identità dei soggetti legittimati all’incasso dei titoli di credito, che invece sono stati prodotti ritualmente in atti, e sono state oggetto di ampia discussione tra le parti nonché decisive ai fini della errata sentenza impugnata; l’errore è stato, perciò, decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata certamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi oggettivamente risultanti dal materiale probatorio ed inequivocamente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito”.

3. Con un terzo motivo denuncia “Violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c. – Omessa valutazione di risultanze decisive ai fini della controversia”.

Deduce che “la Corte d’Appello non ha valutato numerosi documenti del processo penale, regolarmente acquisiti, senza peraltro dare alcuna motivazione a riguardo”.

4. I tre motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente per evidente connessione, sono inammissibili.

4.1. In particolare, nel primo motivo non si deduce, in realtà, un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (cfr., ex multis, Cass., sez. un., n. 37406/2022), bensì si assume che “Vi è un contrasto irriducibile, infatti, tra l’istruttoria svolta e l’interpretazione e lettura opposta della Corte di Appello”.

Inoltre, il contrasto profilato dalla ricorrente sussisterebbe perché “la ricorrente, come dimostrato sia nei processi penali che in quelli civili, ha richiesto ed allegato alle pratiche de quo i documenti di identità dei soggetti legittimati all’incasso dei titoli di credito.

La sentenza di primo grado penale, su cui si fonda il giudizio della Corte d’Appello di Catanzaro, è stata investita dal pronunciato della Cassazione Penale e, di fatto, non esiste più!” (così alla pag. 12 del ricorso).

4.2. Ora, da un lato, la ricorrente alla lettura delle risultanze processuali operata dalla Corte di merito contrappone, in termini peraltro generici quanto assertivi, l’assunto che ella avrebbe richiesto ed allegato alle pratiche oggetto di contestazione disciplinare i documenti di identità dei soggetti legittimati all’incasso dei titoli di credito.

Dall’altro lato, in termini non aderenti alla motivazione della Corte di merito la ricorrente assume che quest’ultima avrebbe fondato il proprio giudizio sulla sentenza di primo grado penale.

Come si è premesso in narrativa, infatti, la Corte in sede di rinvio ha formato il proprio convincimento, non già in base a detta sentenza di condanna del Tribunale di Catanzaro in sede penale (avendo, anzi, specificato di non ritenersi vincolata anche dagli sviluppi decisori del parallelo procedimento penale), bensì in base ad un’istruttoria di natura documentale perché la Corte d’appello si è avvalsa degli atti di quel procedimento penale, che ha acquisito e direttamente ed autonomamente valutato (cfr. in particolare pag. 7 del § 6 della sua sentenza).

5. Nell’ambito del primo motivo la ricorrente addebita alla Corte d’appello di aver affermato a pag. 10 della propria sentenza che: “Da osservare, tuttavia, che la dipendente non è stata licenziata perché destinataria di sentenza penale di condanna, ma per il rilievo disciplinare che connota i medesimi fatti materiali oggetto della contestazione elevatale in penale”.

5.1. Secondo la ricorrente, in realtà, “alle pagg. 8 e 9 del provvedimento impugnato viene riportata integralmente l’immagine della lettera del 07/03/2017 di Poste Italiane in cui esplicitamente la resistente dichiara di procedere al licenziamento in virtù della sentenza penale di condanna del Tribunale di Catanzaro”.

Poste, difatti, specifica che prima di siffatta sentenza aveva assegnato la ricorrente provvisoriamente ad altro ufficio (pag. 9 della sentenza della Corte d’Appello) e che solo per effetto della condanna l’aveva licenziata!”.

5.2. Dunque, in tale punto di censura, estraneo alle anomalie motivazionali denunciate nel primo motivo, la ricorrente muove in realtà una critica all’interpretazione data dalla Corte territoriale al contenuto della nota di contestazione disciplinare (il cui testo, come premesso in narrativa, è stato fotoriprodotto in sentenza).

5.3. Una tale censura, però, in questa sede di legittimità doveva essere fatta valere ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., deducendo quali criteri ermeneutici legali (ex art. 1362 e segg. c.c.) si reputassero violati, per il tramite dell’art. 1324 c.c., da parte della Corte di merito, nell’interpretare appunto tale atto unilaterale.

Non può, perciò, essere presa in esame la diversa interpretazione di quella nota che ora propone la ricorrente.

6. Considerazioni in parte analoghe valgono per il secondo motivo di ricorso.

7. Più nello specifico, dopo una lunga esposizione di principi e di disparati precedenti di legittimità in tema di travisamento della prova (cfr. pagg. 13-18 del ricorso), la ricorrente torna erroneamente a sostenere che la Corte d’Appello “assume come prova decisiva la sentenza del Tribunale di Catanzaro n. 2489/2016 …”; il che, come già rilevato nello scrutinare il primo motivo, non corrisponde affatto a ciò che la Corte del rinvio ha posto a base della propria decisione.

7.1. Nel seguito della stessa censura (pagg. 18-20 del ricorso), del resto, la ricorrente propone una propria diversa lettura “degli atti penali”.

8. Anche per il terzo motivo valgono consimili rilievi.

9. La ricorrente addebita anzitutto alla Corte del rinvio di non aver “valutato” una serie di documenti (cfr. pagg. 22-23 del ricorso).

9.1. Secondo un consolidato indirizzo di questa Corte di legittimità, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

9.2. Ebbene, la ricorrente tra i documenti non considerati indica “la richiesta di assoluzione con formula piena per la sig.ra F.B. da parte del P.M.”, che aveva condotto le indagini (richiesta che non si vede quale rilievo possa assumere in questa sede civile), ma anche le dichiarazioni di A.V. (che sono state, invece, considerate dalla Corte: cfr. terzo cpv. a pag. 11 dell’impugnata sentenza).

Le ulteriori dichiarazioni testimoniali che la ricorrente richiama rammostrano, ancora una volta, che essa propone una rivisitazione del materiale probatorio non consentita in questa sede di legittimità.

10. D’altronde, il terzo motivo, impostato in chiave di deduzione di error in procedendo produttivo di nullità della sentenza ex art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c., prosegue, poi, con un’illustrazione della tesi della “Illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa” (cfr. pagg. 23-28 del ricorso) e quindi con una sorta di commento “Sulla sentenza della Corte di Cassazione penale n. 7258 depositata il 21 febbraio 2023” (cfr. pagg. 29-31 del ricorso); deduzioni, queste, in cui è difficile individuare censure riconducibili alla tassativa griglia normativa di cui all’art. 360, comma primo, c.p.c. (v. Cass., sez. un., 8.11.2021, n. 32415).

11. La ricorrente, soccombente in rito, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 3.600,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.