Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 02 luglio 2020, n. 13468

Fallimento - Acquisti di crediti di terzi creditori del fallito - Finalità - Paralizzazione delle maggiori pretese del curatore - Disciplina della compensazione - art. 56, co. 1, legge fallimentare

 

Fatti di causa

 

F.F. SPA, società successivamente incorporata nell'attuale ricorrente, ha impugnato, in qualità di cessionaria del credito IRES del Fallimento F.lli B. di B.S. & C. S.n.c. e di tre dei quattro soci illimitatamente responsabili dichiarati falliti, il silenzio rifiuto del rimborso del credito IRES del fallimento formatosi nel maxiperiodo fallimentare a titolo di ritenute di acconto sugli interessi attivi maturati, liquidato nella dichiarazione finale dei redditi dell'anno 2009.

La CTP di Milano ha accolto il ricorso e la CTR della Lombardia, con sentenza in data 2 dicembre 2016, ha accolto l'appello dell'Ufficio. Il giudice di appello ha accertato la sussistenza di controversie relative ad annualità di imposta diverse da quella oggetto di rimborso nei confronti di due dei soci dichiarati falliti, risultanti da iscrizioni a ruolo dell'anno 2014. Ha dato atto il giudice di appello della possibilità di operare la compensazione per crediti anteriori al fallimento, benché divenuti liquidi successivamente, ma ha ritenuto che tale principio non operi nell'ipotesi prevista dal secondo comma di cui all'art. 56 I. fall. in caso di crediti non scaduti alla data di dichiarazione di fallimento, ove acquistati tra vivi dopo la dichiarazione di fallimento. Ha, poi, rigettato l'appello incidentale in punto spese del giudizio, ritenendo rientrare tale circostanza nella discrezionalità del giudice.

Propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a quattro motivi.

 

Ragioni della decisione

 

1 — Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 115 cod. proc. civ., degli artt. 1243 e 2697 cod. civ., nonché dell'art. 38 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nella parte in cui la sentenza ha negato il rimborso del credito per effetto di controcrediti relativi ad altre annualità di imposta. Rileva parte ricorrente come non sia mai stato oggetto di contestazione il credito della ricorrente, formatosi per effetto di ritenute di acconto sugli interessi attivi. Rileva, inoltre, il ricorrente come non sia stata data prova dei controcrediti da opporre in compensazione maturati durante la procedura fallimentare.

Con il secondo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 1243, 2697 cod.civ., art. 56 I. fall., art. 38 d.P.R. n. 633/1972, negli stessi termini già oggetto di esame nel precedente motivo, ritenendo che la sentenza impugnata abbia omesso di esaminare i fatti storici oggetto di discussione tra le parti; il ricorrente riproduce gli atti di causa oggetto di esame del giudice di appello e deduce che l'Ufficio non ha mai dimostrato l'esistenza di crediti oggetto di iscrizione a ruolo.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1243, 2697 cod. civ., artt. 56 e 106 I. fall., art. 38 d.P.R. n. 602/1973, nella parte in cui la sentenza abbia ritenuto di fare applicazione del principio di cui all'art. 56, comma 2, I. fall., osservando come tale norma miri a prevenire l'abuso del diritto conseguente all'acquisto, da parte di un debitore di una procedura concorsuale, di crediti vantati nei confronti della procedura concorsuale. Rileva il ricorrente come il caso di specie non riguardi l'ipotesi prevista dall'art. 56, comma 2, I. fall., che concerne il caso del debitore di una procedura concorsuale che acquisti crediti di altri creditori concorsuali, al fine di eccepire la compensazione con maggiori crediti della procedura nei suoi confronti. Rileva, inoltre, come l'Ufficio si sia limitato a produrre mere situazioni dei carichi pendenti senza dare prova del credito, rilevando come da tali documenti non sia possibile evincere la genesi e, conseguentemente, la natura concorsuale o meno dei crediti opposti in compensazione.

Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 15 d. Igs. 31 dicembre 1992, n. 546 e dell'art. 92 cod.proc. civ., nella parte in cui ha respinto l'appello incidentale in punto spese del giudizio, ritenendo che la compensazione rientri nel potere discrezionale del giudice del merito. Deduce il ricorrente come il potere di compensazione nel giudizio tributario non lasci alcuno spazio alla discrezionalità del giudice, salvo che risultino gravi ed eccezionali ragioni adeguatamente motivate.

2 - I primi due motivi, i quali possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili.

Quanto al primo motivo, si osserva come il vizio di violazione di legge - che consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge - come anche il vizio di falsa applicazione di legge - che consiste nel sussumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addica, sul presupposto che la fattispecie astratta da essa prevista - implicano una questione interpretativa. Diversamente, l'allegazione, come nella specie, di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa - nella parte in cui la sentenza ha ritenuto provata l'esistenza di carichi pendenti compensabili - è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura non è consentita come violazione di legge ma sotto l'aspetto del vizio di motivazione (Cass., Sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 24054). Del resto, il ricorrente non chiede la verifica della corretta interpretazione delle disposizioni normative enunciate, ma invoca una diversa rivalutazione dell'accertamento circa la sussistenza di iscrizioni a ruolo nei confronti di due dei quattro soci dichiarati falliti, attraverso una rilettura del materiale probatorio. Il che non costituisce propriamente controllo di logicità del giudizio del giudice di merito, bensì revisione del ragionamento decisorio, ossia revisione dell'opzione che ha condotto il giudice del merito a una determinata soluzione della questione esaminata, giudizio che impinge nel giudizio di fatto, precluso al giudice di legittimità (Cass., Sez. I, 5 agosto 2016, n. 16526).

Quanto al secondo motivo, lo stesso risulta ulteriormente inammissibile, in quanto non indica quali sarebbero i fatti omessi rilevanti ai fini del giudizio. Come statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), al giudice di legittimità è precluso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, salvo il controllo sull'esistenza (sotto il profilo dell'assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge (Cass., Sez. U., n. 8053/2014). Diversamente, il ricorrente deve individuare il fatto storico, principale o secondario, il dato testuale (in sentenza) o extratestuale (negli atti di causa) da cui ne risulti l'esistenza, il momento processuale nel quale tale fatto storico abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e deve compiere il giudizio di decisività del fatto stesso, ossia la valutazione a posteriori che, ove tale fatto fosse stato esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tali fatti, come anche il momento processuale in cui gli stessi sono stati discussi e il giudizio inferenziale di decisività, non sono adeguatamente rappresentati  nel motivo di ricorso, che va, pertanto, dichiarato inammissibile, per cui il motivo si traduce, anche in questo, caso, nella inammissibile richiesta di riformulazione del giudizio di fatto attribuito al giudice del merito.

3 - Il terzo motivo è fondato.

Il giudice di appello ha ritenuto di non far luogo alla compensazione di cui all'art. 56, comma 1, I. fall., ritenendo che nel caso di specie operi il secondo comma dell'art. 56 I. fall., che recita: «per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore».

Detta norma si applica a colui che acquisti crediti (non scaduti) di terzi nei confronti del fallito, acquisti che avvengano nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento o successivamente alla stessa dichiarazione, ai fine di opporli in compensazione al curatore che invochi maggiori crediti nei suoi confronti. La norma riguarda, pertanto, l'ipotesi in cui un debitore del fallito (e quindi debitore del curatore del fallimento, che subentra nelle posizioni creditorie già facenti capo al fallito) effettui acquisti di crediti di terzi creditori del fallito (che dovrebbero essere ammessi allo stato passivo), acquisti che avvengono solitamente a prezzo vile, essendo scarse le aspettative di soddisfacimento di tali crediti. L'acquisto di tali crediti non avviene, tuttavia, con l'esclusivo scopo di insinuare i crediti acquistati allo stato passivo (subentrando nel diritto dei cedenti al concorso formale), ma allo scopo di paralizzare le eventuali maggiori pretese del curatore nei loro confronti, facendo uso della disciplina della compensazione di cui all'art. 56, comma 1, I. fall.

La norma di cui al secondo comma dell'art. 56 I. fall. Intende contrastare questo fenomeno del «mercato dei crediti», finalizzato non alla partecipazione al concorso formale ma a paralizzare le azioni della curatela, sterilizzando la possibilità per i cessionari di tali crediti di opporli in compensazione al curatore del fallimento.

La norma, tuttavia, non è applicabile al caso di specie. Il divieto di compensazione, come correttamente deduce il ricorrente, attiene - in primo luogo - agli acquisti di crediti di terzi e, in secondo luogo, all'eccezione di compensazione da loro opposta nei confronti del curatore del fallimento.

Nel caso di specie l'ipotesi è inversa, in quanto l'eccezione viene opposta dal debitore (erario) nei confronti del cessionario del credito del fallimento, né per controcrediti acquistati dal soggetto che eccepisce la compensazione ma per controcrediti propri.

Per di più, non si tratta di crediti vantati dal cessionario nei confronti del fallito (il cui acquisto a prezzo vile è alla base della disciplina sanzionatoria del secondo comma dell'art. 56 I. fall.), ma di crediti sorti nel corso della procedura concorsuale. Parte ricorrente ha, difatti, acquistato un credito del fallimento (maturato in corso di procedura), derivante da ritenute IRES operate nel corso del maxiperiodo fallimentare, liquidato dopo la chiusura della procedura all'atto della dichiarazione finale e acquistato dal fallito e da alcuni dei soci dichiarati falliti al fine di ottenerne il rimborso. La posizione del ricorrente è, quindi, quella di avente causa della massa dei creditori (non di un creditore del fallito), non anche quella di soggetto debitore del fallito che acquisti crediti da altri creditori del fallito al fine di paralizzare la pretesa del curatore (Cass., Sez. I, 4 aprile 2019, n. 9528).

Ne consegue che parte ricorrente, in quanto cessionario di un credito della massa, subentra nella stessa posizione del fallimento cedente e possono essergli opposti eventuali controcrediti sorti nei confronti del cedente nel medesimo periodo a termini dell'art. 56, comma 1, I. fall.

Deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto: «al cessionario di un credito IRES di un fallimento formatosi in costanza di procedura concorsuale che chieda, in luogo del cedente, il rimborso del credito, non è applicabile il disposto di cui all'art. 56, comma 2, I. fall., trattandosi di norma invocabile dal debitore della procedura che acquisti, nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento o successivamente, crediti di terzi vantati nei confronti del fallimento; diversamente, al cessionario sono opponibili debiti che siano sorti in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento a termini dell'art. 56, comma 1, I. falI.».

La sentenza impugnata non si è attenuta a tale principio e va cassata, dovendo il giudice del rinvio accertare i presupposti per l'applicazione della compensazione di cui all'art. 56, comma 1, I. faIl.

5 — Il quarto motivo, stante l'accoglimento del terzo motivo, è assorbito, in quanto riguardante un capo della sentenza (le spese processuali), accessorio del capo principale che cade per effetto dell'art. 336 cod. proc. civ.

La sentenza va, pertanto, cassata in relazione al primo motivo, con rinvio alla CTR a quo in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo, accoglie il terzo motivo, dichiara assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.